Si rivolse al cielo, che era il suo padrone, il pastore distratto che l’aveva perso di vista tra le
frastagliate guglie altaiche e dell’Atlante e dell’Hindu Kush, e dopo aver tanto vagato si
rincontravano lì, nel luogo in cui il cielo più che mai dava mostra di se stesso, vivo e intercettabile,
posato a terra al termine di ciclici voli millenari.
Croce si visualizzava affranto, inginocchiato come se possedesse ancora il corpo bipede degli
umani.
Ma non rimproverava ai suoi genitori celesti l’abbandono. Non quella distrazione che l’aveva
smarrito per sempre, eterna preda di lupi e leopardi grigi, della caduta e del fulmine, della carestia,
dell’anaerobica estinzione d’alta quota in cui soltanto la natura lunare di certi licheni colonizza le
pareti minerali.
Rimproverava tutto ciò che era stato prima, in questo modo, o con altre parole strane che nessun
essere avrebbe saputo ricevere nelle orecchie:
-mi hai dato una mangiatoia. Sul cui pavimento di pietra collocasti una ciotola ossea, vi versasti il
latte che descrivesti come una mia madre di carne reale, diversa dalla madre di vento che tu sei; in
un angolo facesti accasciare, stanco come un vecchio, il nodoso bastone guardiano, che nelle mie
prime notti timorate da sibili del vento e ululati imperversanti là fuori contro le assi del riparo,
continuò a vegliare su di me dal suo cantuccio, e lo descrivesti come un mio padre di carne reale,
diverso dal padre di vento che tu sei. Mi desti una serie di nomi che io potessi portare al collo, come
un campanaccio per non smarrirmi mai e spargere l’eco di me tra le aperture delle montagne, e così
andare tra le altre bestie della terra. Nelle prime ore, già camminavo. Così che da me stesso potei
verificare le cose che accadevano qui, piene di sgomento e disgusto e degenerazione, tanto che mi
domandai assai spesso cosa ti saltasse in mente, con questa idea di far sì che una cosa qualsiasi
accadesse, figurarsi tutte quante assieme. Ma il ricordo degli altri tuoi doni mi manteneva in uno
stato strano, i cui dettagli poco a poco sfumano dalla mia memoria. Mi sembra però che fosse, e
potrei sbagliarmi, come il fiatone e il forte battito del cuore quando con gli ultimi sforzi si
raggiunge una radura alpina, e l’aria floreale e ronzante di api punge i polmoni del corpo che si
ferma finalmente a trarre i suoi grossi rumorosi respiri; o come un canto di pastori quando i raggi
del sole precipitano arrossati a valle, quelle voci che una volta mi attirarono, mi trascinarono giù a
cercarne la fonte; o come la prima volta che sentii i rivoli freddi della pioggia scivolarmi lungo il
pelo, e una goccia sferica che sembrava contenere infiniti mondi trasparenti impigliarsi tra le mie
ciglia, e poi cadere giù.
Croce di visione e soliloquio tacque. Nell’atmosfera sfrigolava elettrica la paziente preparazione di
una risposta, non frettolosa, consapevole dei momenti giusti.
-perché l’hai fatto?-, sbottò infine Croce. -io non sono quello che credi. Sono meschino, insensibile.
E di essere insensibile sento, insensata, l’enorme paura quando, anche piangendo, mi chiedo se le
mie non siano lacrime false, di chi ha ricevuto tutto e nulla sa guardare, nulla sa apprezzare, del
mondo intero. E mi agghiaccia l’idea che non abbia un’anima. E di perderla e anche solo di
modificarla, in una sua piccolissima parte. E giudico e non perdono. E ho fallito la mia missione:
più d’ogni altra cosa, non ho compreso cosa fossi venuto a fare nei posti in cui sono stato, in cui mi
hai portato. E più di ogni altra cosa ho maledetto questo. Eppure sapevi. Sapevi che figlio sarei
stato. O intuivi, comunque, che non sarei stato quello dell’aspettativa tua, del disegno tuo, al quale