perché rinascano nelle erbe, nel sangue delle bestie e della gente, nell’energia che muove il mondo?
O preferisci quella morte fasulla e vigliacca?
La bestia tremava e si svuotava le interiora perché di fronte aveva la più spaventosa delle creature,
un uomo i cui intenti, anche quelli reconditi e lenti a manifestarsi, pur sempre dirompevano dalle
braccia sue, senza ostacoli, o dal mondo stesso, che coi suoi tempi pur sempre sottostava alle sue
aspettative e le anticipava, obbedendo a comandi muti.
E le aspettative nei confronti della bestia, quali erano? Nel volerla morta, ormai inservibile,
sembrava tuttavia indifferente a essa.
-voglio che tu m’abbandoni.- rispose infine la bestia.
-benissimo allora.- sorrise e annuì il marinaio. -e siccome ormai sei storpia, e tanto stupida che pur
da storpia ti dici convinta di voler salire, ti lascio la mia nave volante. Sì, hai capito bene: proprio
quella che abbiamo passato quest’ultimi anni a progettare e costruire. Ma non farti illusioni, che sei
già tanto brava a fartene: non è un dono né un ricordo di me: so infatti che la nave, dopo averti
condotto sulla cima del monte che brucia, farà ritorno da me, volando da sola. E tu non avrai che da
crepare, lontana da me. Che rimarrò qui, nella capanna, a ridere di te.
Così la bestia di terra partì sulla nave volante del marinaio e non ritornò mai più.
E raggiunse la vetta, ove il mostro a sangue freddo bruciava, e vi trovò, inginocchiati e in
adorazione, un uomo piumato e una sacerdotessa, che egli, non sopportando più d’esser rimasto
vedovo in cima alla sua torre calcarea, aveva rapito risalendo cogli artigli rapaci le sporgenze
dell’entroterra. Aveva abbandonato il suo nido: che crepasse pure, quella dimora di falsi ricordi!, e
così dicendosi era certo che sarebbe rimasta immobile e solitaria come un monumento, la torre del
suo isolamento, che nessuno avrebbe osato avventurarcisi. E incontrando la sacerdotessa, come lui
richiamata dal fumo sacro del monte, le aveva mentito, dicendole d’esser l’emissario d’un dio, ed
ella, rimasta senza dèi a cui rivolgere i suoi slanci devoti e i sacrifici dei suoi specializzati riti
primaverili, aveva deciso di credergli, poiché era piumato e lucente, e ricordava le leggende delle
antiche divinità coi volti di creature della “Foresta”, anche nota come “Deserto”, ovvero il luogo
deserto di genti umane.
Ma vedendo la bestia, e vedendola che da sola, piangendo, s’issava dinnanzi al fuoco sul legno d’un
albero, esposta al calore del sole e della vicina pira, non trovarono parole che potessero liberarli dal
dolore del fallimento della loro fuga in cima al monte, la vetta che avevano sperato corrispondesse
al richiamo che il fumo distante aveva loro rivolto, l’aveva chiamati, intensamente, giorno e notte…
e cosa c’era lassù? Un sacrificio che non era opera loro, che non li riscattava da quel languore
dell’animo che li aveva sopraffatti e resi folli tra tutti i viventi, un sacrificio insensato e deforme; e
in silenzio, prostrati, senza più una dimora né niente tra le mani, trascorsero nello stupore impotente
dei pazzi le ore rintoccate soltanto dal crepitare del fuoco, mentre una bestia cornuta e con le
membra di malnate creature si lasciava morire, rivolgendo lo sguardo al cielo, priva d’ogni certezza:
se lassù l’attendesse un volo, un mutamento di forma, o se oltre l’ultima cortina del fumo e del
fuoco che avvampavano oscurandogli ciò che vedeva estendersi nel suo campo visivo, di là dai
finali sbuffi del suo fumoso fiato rantolante, non ci fosse null’altro, nulla che potesse riconoscere
con le sensazioni e coi pensieri che aveva conosciuto nella sola vita di cui avesse memoria, la sua, e
che erano istrumenti conferiti dalla forma con cui era nata, lì, in una grotta della terra arida.