Ep5
L’intera giornata si era presentata da subito uniforme: la comparsa di un essere immutabile davanti
ai primi sguardi di veglia.
Una sagoma, una presenza in un angolo della camera da letto, o a un angolo proprio del letto del
bungalow, netto come l’odore di polvere che intride materasso e lenzuolo. Presenza alla presenza
annebbiata degli occhi semichiusi nel letto, semiciechi come inetti cuccioli che, nella penombra
materna d’un nido, non sanno far altro che rotolare d’un lato contorcendo le zampe e la faccia
protesa ad aguzzare inutilmente i sensi ancora sottosviluppati, inciampare nei difetti del loro
trascinarsi ancora come zavorra dal grembo quella mezza deformità che li rendeva adatti a quel
precedente mondo amniotico, a galleggiarvi a modi anonime soddisfatte cellule per un’eternità
improvvisamente interrotta da qualcosa di ignoto ed enorme e brutale.
Così s’era vista comparire sin dal mattino la stessa luce che ci sarebbe stata nel primo pomeriggio, e
nel pomeriggio tardo, e prima del cielo cobalto e poi subito buio soltanto cinque minuti di fuochi
arancioni e fucsia e viola nelle nuvole del tramonto a sfoggiare tutta la pirotecnica celeste della
sanguinità meridionale con le sue tinte calde di cicatrice riaperta e strabordante di incanto. Per il
resto, uguale. Compatto uniforme identico fermo. Il cielo e la luce e il calore indistinti, lo stesso
gravoso stordimento gastrico dell’ora postprandiale già si affacciava con le prime luci fingendo
d’esser lui a uccidere il sangue o il principio di vita dentro i tre corpi malati che si preparavano a
svolgere una specie di compito che sì, quello almeno l’avrebbero fatto, perché s’era deciso, perché
ormai era così facile finire di svolgere qualcosa con un atteggiamento che ne svelle l’importanza e
così l’alleggerisce, cosicché basti muovere qualche altro passo automatico nel paesaggio e il fatto
finisce di compiersi da solo, e nessuno potrà dire d’essersi sbattuto inutilmente per nessuna
intrapresa scema -e insomma la luce e il giorno e l’atmosfera e compagnia eccoli a mostrarsi così
orribili sin dalla prima invasione che espugna il sonno in modo da potersi prendere loro la colpa, la
responsabilità d’una morte interna che col meteo forse non c’entra del tutto, magari ci è parente sì,
magari una parte appartiene anche a un insieme di tempeste e rivolgimenti inconsulti della materia
luminosa e della temperatura dentro di loro, che mai riusciranno a prendere una decisione definitiva,
se è peggio ciò che gli fa sentir lo schifo dal di fuori o dal di dentro, e in fondo che importanza ha?
Nemmeno quando staranno a tribunale davanti agli angeli inquisitori che vorranno sapere tutti i
perché e i percome avrà importanza, no loro insisteranno nell’indifferenza e nell’ignoranza e che
male c’è? Tanto ora non era a loro che toccava, e se anche avessero deciso che toccava a loro prima
che fosse un destino arbitro coi suoi capricci di merda a deciderlo, che male ci sarebbe stato? Tanto
adesso era a S. che era toccata, poveraccio, e speravano che portandolo in cima a un vulcano,
inscenando un bel rito primordiale d’addio, ne seguisse che dall’altra parte di “tutto questo”,
nell’altro mondo -che sarebbe potuto anche corrispondere alle profondità del vulcano stesso per
quanto li riguardava- succedesse qualcosa che mutasse le sorti del suo interrogatorio, del suo eterno
nauseato riposo di eterno vomito in gola, senza pace neanche nell’aldilà, eterno riposo d’eterni
barbiturici che mica finiscono come quelli della Terra, nossignore di là le cose si fanno in grande e
in astratto, tutta matematica niente fisica e niente chimica, soprattutto cioè niente tanfo carbonico di
fluidi fermentanti quando ti ritrovano il corpo storto a terra; no no invece è bello il nostro S.
dall’altra parte, è brutta invece questa giornata di merda che sin dal risveglio ci fa vedere come
camminiamo dentro la caricatura di una squallida vacanza con le sue cartoline di squallida vacanza,
fatta di scelte avventate magari, di ripensamenti, di avremmo dovuta pianificarla meglio questa
cosa, di ma è mai possibile che si trovino solo informazioni sbagliate io giuro che avevo cercato
diceva che la funivia era in funzione, della fatidica menzione del covid e di come con quello sia
stato ucciso ogni proposito di rivivificare ciò che da un pezzo era morto, e di investire perfino per
far sì che le seggiole e i cavi lì alla funivia desolata non assomigliassero alle scrostate giostrine di
un parco giochi vicino a un qualsiasi asilo chiuso che sembra che nella pioggia di novembre che si
versa su girotondi e altalene ci sia mischiato il piscio dei bambini che ci andavano a ficcarsi in
bocca pezzi di plastica e sbavare su tutte le superfici mai esistite.
Una signora color terracotta stava là, dentro la cartolina squallida, senza speranza che le sue parole
e azioni facessero pensare, ai tre che avevano chiesto di salire, che dietro le sue orbite oculari si
potessero celare altri mondi, per i quali loro stessi erano parte d’altrettante cartoline, no, signora
rugosa terracotta d’azioni e parole che mai mai le farebbero prender vita dall’altra parte
dell’appiccicoso schermo della cartolina, è una muta sagomatura nel paesaggio che sta lì stampato,
e infatti come stampato e squallidamente solare s’era presentato a loro quando ci erano arrivati ed
erano stati per qualche minuto torrido e cicaleggiante a contemplare le seggiole cigolanti sul vuoto
dai cavi, il grigio e verdeacqua scoloriti dei piloni della stazioncina che erano una volta bianco e
chissà quale tipo di verde scuro. È una statua, la signora seduta là dentro, non è che ci ha un’altra
vita, fuori da là, non è manco così vecchia che potrebbe averne viste di generazioni di trii
scoglionati di giovani che s’inventano viaggi e missioni più per ammazzare un tempo che per dare
sepoltura a un altro.
Ma facciamo in tempo a tornare in albergo per le nove sì o no. Non lo “saccioo qualcosa del
genere. La Opel che Mari usa, la Opel della madre è rimasta a casa, non ce l’hanno fatta salire sulla
nave, Mari non voleva, non ha proprio voluto che si insistesse, e chi avrebbe potuto capire quale
ragione le avesse messo in testa di non darle il mal di mare a nessun costo a quella macchina?
Contenti loro che si spostano a piedi sull’isola e manco stanno mai a guardare l’orologio, a marciare
e basta tutto il giorno. Poi venticinque euro a testa, poi che altro dice la signora terracotta?, ah sì che
lei sta là, spiega, perché è stata avvertita da quelli dell’albergo quelli che ci hanno i bungalow giù
fuori dal paese che agli ospiti avevano chiesto che volevano fare e quelli avevano parlato di vulcano
e funivia, spiega la signora terracotta che l’hanno avvisata, spiega che se no non ci sta mai nessuno.
E poi arriva altra gente, operatori insomma là assieme a lei si mettono ad azionare tutto il sistema
che se no se ne sta tranquillo morto nello sconfinato pomeriggio prima di pranzo e anche dopo,
mica tanto statue in fondo visto che sanno far muovere quel coso quel sistema meccanico che pare
un mostro e non dev’essere uno scherzo. Ma la stranezza, l’inspiegabilità degli operosi caronti
ch’esistono solo per loro, apparsi inerpicantisi tra i rialzamenti terrosi stritolati dalle radici che
nutrono quei rami secchi ripetuti per tutta l’isola, saliti là per loro solo per loro, col sudore sulle
facce terracotta e rosa e olivastre che luccica come le striature intermittenti del sole sul mare quasi a
segnalare visivamente e con eccessiva ovvietà che non sono fatti d’illusione e che stanno proprio là
-insomma questo incanto d’imprevisto, come di muti personaggi da fiaba che adesso li fa salire
verso la cima d’un vulcano orfano di turisti, nemmeno lo sentono, tanto forte sentono altro, tanto
squallida è la squallida vacanza dei tre camminatori stanchi e annoiati che vogliono salire con la
funivia e portare in cima al vulcano una scatolina di ceneri che chissà quale parte del vecchio S.
erano anzi sicuramente sono un gran casino di granelli che ciascuno viene chi dal femore chi dal
lobo di un orecchio chi da tutte le altre parti che non c’entrano niente con quelle che stanno appaiate
eppure c’entrano tutto perché un corpo è un corpo, ma soprattutto quando è polvere lo vedi che non
c’è tanto da stare a porsi domande sulle categorie, sugli apparati, su quello che erano.
Anche mentre salgono i pensieri si susseguono frettolosi, come inseguiti, come non volessero
lasciar tracce. Osservano dall’alto. Qualche albero ogni tanto si vede. Qualche chioma che sembra
un ortaggio, come quelle che vedresti dalle funivie del nord, di montagna -chiamarle montagne
queste, boh, sono rocce che scottano peggio del carbone, sono uova di draghi spinosi senz’ali,
ruvidità terricola. Eppure sono montagne anche queste, tecnicamente, sono abbastanza alte, sono
alte le guglie dell’isola, c’è sull’orlo d’un crepaccio da qualche parte un capovaccaio morto che
l’ultimo s’è strozzato un secolo fa col veleno d’un’esca, ci sono anfratti ci sono cespugli di
innumerevoli specie di spine. Salite scoscese, dall’alto sembrano lingue di grigia sabbia lunare,
distinte dalla sabbia e dalle terre ocra di tutto il resto del volto del suolo, ocrabrunogiallastro che più
di tutti gli altri colori della terra si succhia lo stillicidio incessante del sole. E su questa terra e sue
queste salite e in questo habitat, qualcosa insegue? Come dal finestrino sfrecciante nella canicola gli
occhi di bambino potrebbero immaginare la comparsa di una figura che a balzi e scatti lungo
l’autostrada accompagni la velocità della vettura e accanto vi disegni una singola esistenza viva
nelle ore morte del viaggio, gli occhi loro potrebbero disegnare per gioco una viva macchia nera sul
suolo torrido. Un segugio nero. Sulle loro tracce. Ma non è niente del genere che li bracca. Non
sono tracce di loro corpi, timorosi d’incolumità, o di loro rimorsi, timorosi di ripercussioni, che i
pensieri in impennata intendono cancellare, non posandosi mai troppo su nessuna di quelle
immagini incontrate, scartolinanti come pamphlet del tedio estivo attraverso i blocchi di quella
giornata immobile.
Faceva caldo alla stazione della funivia faceva caldo in cima al vulcano.
Mari una volta è stata in gita sul Vesuvio. Era piccola. Giurerebbe che lassù quello che sentiva era
proprio il calore del magma sotto i suoi piedi, sotto la pavimentazione di roccia lavica che era il
fuoco stesso per lei, per lei che si sognava mondi di fornaci sotto le scarpette, per lei che nell’idea
d’un vulcano ancora ci vedeva una gigantessa dormiente una specie di grande sirena del fuoco e non
dell’acqua. Questo no, questo vulcano non conosce niente del calore dentro la terra. Quello che si
sente qua, battere sulle spalle e piovere tormentosi aghi di torpore dritti sulla sommità della testa, è
lo stesso caldo della stazione, e dell’altipiano del giorno prima, e del porto all’arrivo il giorno prima
ancora, e della camminata che non s’è fermata mai e…
E a casa. Stesso caldo. Pollo pensò, per un’istante, a un caldo in terrazzo, con la città sotto di lui, un
cancro pulsante di ribollitura che è quasi un rumore, quasi un toccare su un corpo la parte ferita o
infetta che si surriscalda per una frenetica attività sottocutanea, ch’è un’ansia di protezione in realtà,
ch’è in realtà come gli organi della città tossica rovente percorsa da infiniti ingiustificabili fremiti
che in circolo vizioso l’arroventano ancora di più e che Pollo avrebbe giurato fosse uguale a quel
calore in cima al vulcano, e non importavano le differenze tra la montagna e il palazzo, non
importava che nelle scale per arrivarci in terrazzo non si sprigionasse dagli anfratti della salita di
tanto il tanto il gineproso sentore di macchia mediterranea, e non importava che sopra i condomini
degli studenti e sopra la ritta sagoma dell’ecomostro degli schiavi lavoratori stranieri non
volteggiassero i voli di certi corvidi che prosperano sui picchi pieni d’ossa e spine e rocce bollenti.
Cazzo non importava niente: per un istante, per una frazione di tempo imprendibile e totale, quel
caldo era stato il caldo di città, la loro partenza un nulla, la loro marcia e risalita nemmeno un passo
fatto da dove erano partiti.
Croce avrebbe giurato che se non l’avessero finita presto con quella storia i suoi belati inespressi
avrebbero compiuto una rinascita dentro i suoi stomaci e gli sarebbero risaliti a scalzare i pensieri,
che come quelli degli altri galoppavano, scalciando sassi, che erano poi gli stessi rumori sbriciolosi
improvvisi che ogni tanto facevano eco dai bordi del cratere e scendevano giù giù da dove loro
erano venuti, scivolando lungo le lineari impervietà di una terra verticale sulla quale loro, per
natura, non sarebbero dovuti poter salire -loro altri, senza zoccoli, senza il segreto alchemico del
numero quattro negli arti che poggiano al suolo, presuntuosi bipedi, ignoranti. Che ne sapevano
dello sforzo che ci vuole a trattenersi dentro un irrefrenabile slancio al belato? Una dichiarazione
nuova, un lamento che diventa qualcosa di mai udito… meglio che se ne resti nell’incompiuto
allora, che non s’oda mai.
Non poterono resistere dall’osservare per un pol’interno della voragine.
Una gola frammentata in panneggi rocciosi, fori, cunicoli ondulanti a formar la stampa di un
orecchio interno osservato con la lente, s’apriva vasta, e subito stretta, instabile, all’interno del
cratere spento, per poi culminare in un punto di fondo che non ci si poteva sporgere a guardare. Su
una sottostante sporgenza, la stazione superiore -l’unico relitto antropico- posava come una mosca
verdastra su un eroso costone di terra polverosa. Da lì, una salita faticosa che avevano percorsa
ansimando senza profferire una sillaba. Senza voltarsi per non perdere l’equilibrio, avevano sentito
dietro le schiene l’eco dei fili in moto, qualcuno che saliva, e che altri non erano che certuni degli
operatori che erano venuti, perché ci fosse qualcuno anche alla stazione di sopra quando gli unici
visitatori avessero voluto discendere. Lungo le labbra brune del vulcano, da un versante e dall’altro,
nessuna distante macchiolina bianca né colori sintetici di scritte di t-shirt o cappellini o zaini spessi
a segnalare altri invasori di quel silenzio spezzato dal vento, che soffiava un rantolo pruriginoso e
che certamente non soffiava giù al livello del mare, seppure convogliasse anche a quell’altezza
soltanto masse d’aria calda, ininfluenti in fondo, s’annullavano nell’aria circostante, diversa solo
perché statica. Non attraversata da schiamazzi. In silenzio Pollo, più degli altri che pure stavano
zitti, s’ergeva sulle punte dei piedi, sporgeva il collo a guardare, stancandosi dell’azione superflua e
nel simultaneo sforzo di zittire il fischio del respiro suo attraverso le narici, così fastidioso, così
chiacchierone in un mondo che, almeno in teoria, avrebbe dovuto possedere una qualche forma di
pura, incorrotta asprezza, si tratta d’un cratere maledizione, un ingresso d’inferno che dovrebbe
esser buona alternativa al parlare dei vivi. Sembrava che nessuno volesse bene a quel vulcano. Ma
neanche l’assenza di turisti, che pure dovevano essere esistiti in quel luogo, a diventare fantasmi
scoloriti in vecchie fotografie come quelle appese alla bacheca della stazione, a ricordare d’esserci
stati -anche l’estinzione dei loro vestiti luccicanti sulla cima e dei loro rumori che parlavano di tutto
meno che del vulcano non era riuscita a restituire a quel luogo selvaggezza od orgoglio di natura
austera, e più che una montagna ritta in mezzo a quattro elementi sembrava un enorme cantiere, che
scarnifica e buca un quartiere in ricostruzione, che soltanto per caso, per certe erbacce per certi
corvi per certe anarchie minerali, assume vaghe parvenze di selvaggio, ma pur sempre è un cantiere.
Non che lo criticassero. Sarebbe stato troppo anche per il loro cinismo, insultare un vulcano. Ma sì,
glielo concedessero: una minima impressione di lava e di fuoco e di fumo che un tempo si
slanciavano dalla bocca, con uno sforzo, la si avvertiva. E il panorama comunque era bello,
comunque il mare tutto attorno, comunque gli uccelli e il profumo erbaceo e forse forse anche
cinereo se si fa appunto quello sforzo, e la sensazione che l’isola sia quella, tutto quello che hanno
percorso nient’altro che una riproposizione del punto focale…
e loro c’erano venuti, ponderata scelta d’un’isola che sarebbe pure potuta sparire dal mare o non
esser mai apparsa su nessuna cartina di navigatori né mappa satellitare, e sulla punta bitorzoluta e
inospitale erano sul punto di affidare a quel vento cupo una parte delle ceneri di S., che avevano
visto in città universitaria e per un periodo l’avevano incontrato per caso sempre gli stessi posti sai
com’è i chioschi i caffè le copisterie i negozi lungo la strada e per un periodo avevano detto ah sì lo
conosco di vista e perfino sporadiche chiacchiere di dischi al bar accanto al tizio che vendeva i
vinili e perfino un paio di volte ritrovati con lui al cineforum che erano state le uniche uscite
vagamente sociali di Pollo e Croce che già si conoscevano e trascinavano a vicenda dentro se stessi
e avevano partecipato a queste cose solo per criticarle dalle sedie in fondo, e insomma lui S. mentre
quelli del circolo si scannavano sul terzofemminismo e se i britannici si sono bevuti il cervello o
magari è da ammirare quella loro capacità di riuscire sempre a odiare qualcuno, lui S. in mezzo alle
domande velenose s’era innocentemente azzardato a fare una domanda tecnica sul film che era per
genuino interesse mica per vantarsi come quelli che dopo un esame di cinema erano tutti uno
sciorinare iconici piani sequenza e compagnia, ma quelli manco lo fanno finire che un altro polo
spolpano e Pollo e Croce giù a ridere di quella risata che pareva il ribollire d’un logorato stomaco
pieno d’acidi, perfino loro a ridere, che qualcuno si sarebbe potuto preoccupare se non ammalare
come se a ridere fossero state nientemeno che le schiere di belzebù, e tra loro proprio s’era perfino
detto una volta che non era poi la peste quel tipo chiamato S. a differenza di tutti gli altri, e insieme
s’erano perfino fatti un capodanno, Pollo ubriaco che argomentava con chissàcchì e S. che tutta la
sera se n’era rimasto in un angolo e il volto mesto che gli amici gli hanno ricordato la famosa scena
di Nanni Moretti ma lui niente inamovibile nel suo cruccio alla Joy Division con tanto di maglia
bianca di Closer, S. che Croce una volta l’aveva visto camminare con la testa giù sotto la pioggia
senz’ombrello e a chiamarlo e chiamarlo e quello manco s’era girato ma poi aveva attraversato la
strada e l’aveva riconosciuto e quello un sorrisone che nessuno proprio nessuno mai aveva rivolto a
Croce tantomeno Croce l’aveva rivolto ad altri ma porchiddio gli venne da sorridere anche a lui
dopo aver visto capovolgersi come per magia l’umore in quella faccia brufolosa e occhialuta alla
Foster Wallace, che poi pure lui come DFW a un certo punto aveva detto sapete che c’è basta, a un
certo punto s’era chiuso in bagno e non era uscito per un bel poe anzi non era proprio uscito
perché a farlo uscire poi sarebbero stati altri ancor più sbiancati di lui a sorreggerlo tipo apostoli
d’un cristo pallido con la bocca sbrattata, e comunque sì proprio S. quello stesso S. che non si
poteva certo dire che lo conoscessero tanto bene ma tutto sommato pareva uno a posto che non ci si
credeva e insomma quello là che Mari con la faccia da culo impassibile s’avvicina alla madre al
funerale per farsi dare un pezzo di lutto, la madre che al microfono aveva spiegato che S. chissà per
quale guizzo creativo aveva lasciato detto alla Soka Gakkai che si sarebbe fatto cremare e la madre
tutta incollanata di conchiglie verdi e coi capelli grigi lunghi fino ai piedi da hippie di brughiera era
andata dicendo a funzione conclusa che le faceva piacere spargere le ceneri per i posti belli che
commuovevano quel bell’animo del figlio ma ancor più le faceva piacere distribuirle tra gli amici
epperò così pochi s’erano fatti avanti e allora eccola Mari che si presenta stringe la mano e si fa
dare un podelle ceneri pure lei e dice alla madre che s’aveva tanta stima del caro ragazzo e la
vecchia poveraccia che quasi piange guardando in faccia quella bella figliola che non s’era mai
levata gli occhiali da sole ed eccoli, sull’isola vulcanica Mari e Pollo e Croce e S. assieme nella loro
prima gita come di quelle per legare e conoscersi meglio e giocare a un gioco di merda tipo Uno in
spiaggia e pestare una due tracine e disinfettarsi la ferita e mangiarsi i pezzi di pizza della sera
prima e fare una playlist per la cassa bluetooth e averci finanche qualche scazzo per i turni della
doccia perché no, ma invece niente di tutto ciò, no loro quattro stanno in cima al vulcano e S. eccolo
che fra poco spicca il volo, lasciando, di quella parte di sé ch’era stata con loro, soltanto un alone
polveroso sulle dita magari perché Mari mica si schifa di ficcarci la mano nuda nell’urna di morte,
ciao S. fai buon volo, comunque sì, proprio lui quello stesso S. che con la Soka Gakkai ci si era
messo più che altro perché gli piaceva una che salutò sì e no due volte agli incontri poi arrossimenti
e basta, poi solo parlare saltuariamente di musica tipo i Verme e i Raein e i La Quiete e poi invece
c’era rimasto proprio sotto alla pratica e a Nichiren col suo mantra del loto, quello stesso S. che
poveraccio una volta s’era vomitato l’anima a forza di bere Monster Energy per star sveglio a
preparare l’esame perché col caffè diventava epilettico epperò non è che quella Monster fosse
meglio perché allora l’anima sì che gli era sgorgata dal gargarozzo come un longilineo semisolido
bolo verde che s’era srotolato e arrotolato in spire draconiche sul tappeto di uno che manco a dirlo
s’era sperticato tutta la notte in un fuoco d’artificio di porchiddii e madonne e tutto, quello stesso S.
che il vento in un attimo l’ha dissolto, l’asfissiante nuvoletta grigia del suo corpo bruciato solo un
attimo ha indugiato nell’aria calda sopra il vulcano che loro hanno osservato, un attimo corposo
però, sembrava pesarci ancora sull’aria il corpo intero di S., o il pensiero dello stesso, ch’era
diventato una nuvola grigia come sassi di cimitero come i fiori del male come il grunge come una
poesia lunga di Foscolo del quarto liceo, come una cosa che alla fine li aveva costretti per
quell’istante almeno a contemplarle, una serie di questioni, però puff sparito nemmeno un granello
si vide più da un versante e dall’altro del vulcano a fluttuare scuro puntiforme macché neanche la
minima forma visibile e ciao S. ciao, speriamo che non sia solo un’altra cagata delle nostre,
speriamo anzi che quegli altri mucchi di cenere che erano altri pezzi di te si siano sparpagliati volati
scomparsi in posti che, va bene soli e un poincupiti come lo eri tu, ma almeno si spera un popiù
amati di questo qua, perché se no che diavolo, significa allora che non c’è proprio pietà da queste
parti.
.
La stazione verdebianca sbiadita era vuota, eccetto che per le persone che erano salite a lavorarci,
per quel giorno soltanto forse, oppure non era da escludere che altri, sparuti turisti o abitanti che al
momento si trovavano sull’isola, avessero manifestato il desiderio di visitare la vetta nei giorni
immediatamente successivi. Troppo strano che la facessero funzionare solo quel giorno, solo per
loro tre-quattro, e cose troppo strane non potevano accadere.
La signora aveva detto: venticinque euro a testa.
Aveva detto di non poter sapere se avrebbero fatto in tempo. Non aveva una faccia da congettura.
Aveva la pelle color terracotta e terrazzamenti di rughe solcate a fondo, da fotografia di vecchia
amerindiana che guarda fisso l’obiettivo con le pupille enormi e serie. Si trovarono da soli in cima,
da soli poi discendendo, esclusi esiliati dagli orari in cui normalmente si dovevano fare le cose -non
potevano che camminare come avevano fatto fino a quel momento nel viaggio, se l’erano voluta in
fondo, era proprio così che avrebbero dovuto continuare a muoversi in fondo, per senso di coerenza.
Il vento soffiava forte sulla cima, era caldo e polveroso, smuoveva masse d’aria immobili per brevi
tratti e passava oltre, come non ci fosse stato.
Un alberello simile a un fico nano dalle lunghe convolute radici abbarbicate a una sporgenza
pericolante da una discesa periferica rispetto al cratere agitò il fogliame verde acceso dalla sua
postazione sospesa al di sopra del vuoto, e sotto il vuoto il suolo lontano, percorso da movimenti
minuti, infinitamente distanti. La corteccia gialla diventava rugosa, s’incavava, accoglieva nei buchi
manciate del vento di passaggio come se lo incamerasse un poper tenerselo, senza scopo. Forse in
questo modo era stato e sarebbe rimasto a lungo, un tempo inimmaginabile, dando l’impressione
d’esser millenario, d’una crescita arrestatasi già molto tempo fa a quell’altezza nanesca in cui aveva
scoperto la sua autosufficienza, fatta di saldo aggrapparsi, di caverne dentro di sé, di una
compensatoria espansione delle radici e delle speculari torsioni dei rami, che formavano gallerie e
nodi e spirali e ritorni e svolte, altri luoghi per ospitare creature che venivano ad abitarci e
nascondersi e strisciare nella sua ombra…
Due rettili svelti uscirono da un buco, s’inseguirono, si rintanarono, lampi verdi. Una nidiata dentro
le radici forse, forse buio e basta, buio e sole, dentro e fuori.
Pollo si sporse: cercava di vedere se, col vantaggio dell’altitudine, si potesse scorgere la punta della
torre calcarea che sorgeva dalle acque meridionali. A quanto pareva, si trattava proprio
dell’estremità ostruita dall’opposto versante del cratere, uno schermo frastagliato di carnagione
rocciosa e cicatrizzata, un vecchiaccio dallo sguardo turpe che continuava a rimproverargli quel
farsi i fatti dell’isola e a sussurrargli, come un gorgogliante sottofondo al vento e agli uccelli neri
vocalizzanti in alto sopra le loro teste, chestaifacendotiatteggipercaso?, e altri simili
smascheramenti.
(sono io questo?) (sei tu questo che così arrogante sfida il paesaggio, lo questiona, s’impettisce
come se le sue ipotetiche azioni, del tutto immaginarie, potessero avere alcuna influenza?)
(dovrei smetterla di fingermi violento, cioè volitivo, è questo che mi vuoi dire?)
Sarebbero poi tornati a casa senza mai aver visto la torre che era un famoso punto dell’isola.
Volatili di un piccolo stormo volteggiavano e piroettavano alti nel cielo, molto in alto al di sopra del
vulcano, eccellenti volatori forse, capaci di nuotare dritti nel sole, forse era un gioco o un bisticcio
per una preda, si davano slancio colpendosi le zampe dopo una capriola, volando con le schiene
nere rivolte al suolo e presto rigirate, comunicando in schiocchi acuti come risate spezzettate. Croce
si trattenne dal lanciare un richiamo vocale, dal testare la sua voce lassù, perché sentiva che gli era
cambiata dentro il petto, sarebbe risuonata diversa là sopra, e ancor più se si fosse arrampicato fino
alla sporgenza più aguzza, alla più ritta colonna calcarea, ove la forma umana non poteva
sospingersi. Nella sua testa disegnò sé stesso, ululante sulla punta d’una croda, il sole e la luna coi
volti d’umani pingui a sinistra e destra della sua vetta solitaria.
-allora vado eh.- dice Mari. Senza preavviso infila una mano nuda dentro l’urnetta scoperchiata.
-mph.-, mugugnò Pollo storcendo per un istante le labbra.
Il braccialetto al polso della ragazza galleggiò per una frazione di secondo sulla superficie del
mucchio di cenere, sprofondando poi in un cerchio scuro come un segno di hoola hop impresso su
una duna. Riemerse grigio, impolveratissimo, come se S. avesse avuto un’incontenibile ansia di
aderirvi, e ticchettò plasticoso urtando contro le pareti di quella latta formato mini che la madre di
S. aveva distribuito a coloro che s’erano offerti di viaggiare con il ragazzo, con un pezzo di lui
almeno, e non era forse stranissima questa donna? La maggior parte delle ceneri se l’era tenute lei
certo, ma a quale pezzo corrispondevano? E in quale pezzo s’era immersa la mano di Mari? E le
mani, dovevano giungerle? Le giunsero per un secondo -Croce gli zoccoli. Poi le separarono. E così
era fatta. Ciao S. e tanti saluti.
La mano ingrigita cadaverica di Mari diede sbuffi polverosi riemergendo, entrando a contatto con
l’aria. Tossirono. Scendeva poco a poco il livello della cenere di S., abbondante che pareva infinita
pure in quel contenitorino, che volava e spariva tirata via dal vento, certi sbuffi rotolando verso terra
e qui confondendosi con la polvere, certi altri involandosi in alte parabole che non si potevano
registrare a occhio nudo, ma che, per la velocità del volo leggiadro, per l’immediatezza
dell’invisibilità sopraggiunta in sorte fin al più grande pugno di granelli, faceva pensare che,
rilasciate dalle dita aperte di Mari, innalzate dall’accorato gesto lanciatore del polso, avessero
acquisito una nuova leggerezza, più lieve dell’aria, della sua assenza, dell’ossigeno scarso.
Pollo e Croce avevano visto quel che c’era da vedere: tennero poi, fino alla fine, gli sguardi sul
livello della polvere che progressivamente s’abbassava dentro l’urnetta.
Mari all’ultima manciata. Qualcosa da dire? S’è fatta sacerdotessa, in fondo. Non le importa se le
diranno se è drammatica e sciocca e quant’altro.
Tanto i suoi amici sono degli stupidi coglioni no?
Comunque sa che non diranno niente. Non se lo aspettano forse no, non si aspettano che lei si senta
abbastanza a suo agio da fare una cosa criticabile identificabile come insincera come inutilmente
cerimoniosa come il più possibile distante dalla morte che invece loro dovrebbero riconoscere,
guardar dritta nei non-occhi, celebrare così com’è e così come si conviene al suo linguaggio cioè in
desertificato silenzio, rispettare dunque, come si fa con la natura intima d’un animale selvaggio cui
non si attribuiscono i sentimenti umani.
Epperò Mari parla lo stesso: tanto sono stupidi coglioni no?
(e io sono peggio.)
(ma so che me lo dico solo perché non posso dirmi, dentro di me, che sono degli stupidi coglioni e
arroganti senza poi punirmi, senza che mi si pari davanti l’immagine di un batuffoloso animaletto
disegnato su un quaderno che piange e mi fa “perché hai detto che non ti piaccio?, perché, perché,
non odiarmi!”, e in fondo non è questa l’amicizia? Allora buon per te caro S. che non sei stato
nostro amico fino in fondo., ti giuro che ti amo profondamente come profondamente s’ama un
conoscente superficiale)
Giunge le mani in preghiera. Tra i palmi, serrato un foglio di polvere, l’ultima manciata, stretta nel
bacio dei palmi nudi e impolverati prima d’essere liberata assieme agli altri resti già spazzati via,
assieme agli stormi, ai soffi del vento sulla vetta che sparge sentori di ginepro e mirto e cose erbose
che vivono ancora, faticando nella calura per misere gocce d’acqua nascoste.
L’elegia:
-addio S., e speriamo che ti faccia piacere. Speriamo non sia solo un’altra cagata delle nostre. E se
lo è, allora… “la vita è una cagna e poi muori”, e questo è quanto. Come diceva in quel disco…
oddio…
-Illmatic.-, suggerì Croce con un mugugno, per non alzar la voce, come per paura di svegliare con
un belato troppo ruggente qualcosa che dorme nei paraggi.
-sì quello. C’erano le luminarie nella piazza delle compere nostre. E non mi dispiacevano, porca
troia. E non mi dispiacevano gli altri che facevano compere sotto il cielo delle cinque già nero, non
mi dispiaceva la fiumana colorata sui sampietrini e i tram e tutto. Uscivo dal negozio del tè buono e
delle cioccolate e dello zenzero, quello dall’altra parte della strada, con la busta piena di tisane
natalizie. Tu uscivi abbracciandoti al petto il vinile nuovo tutto contento, ti sorrisi, sorpresa e felice
di incontrarti, e mi dicesti che te l’eri regalato da solo. Eri molto contento.
Era suonata, più che come un ricordo del defunto, quasi come una confessione di fatti personali.
-che intendi fare con quelle?-, chiese Pollo indicando le mani. La polvere ormai aderiva anche alla
pelle, mescolandosi al sudore, sempre più sprofondava nei pori, silenziosamente, convertendosi in
un naturale, forse soltanto un pomalaticcio, grigiore sottocutaneo.
-mmh.
Mari sorpresa: forse non l’aveva considerato quando aveva immerso la mano in un cadavere
incenerito.
Altre nuvole dense di polvere si sollevarono da battiti delle mani. Tossirono di nuovo, più forte:
ogni volta che le nuvolette di S. s’erano alzate gonfie e dense, sin dall’inizio, tutti avevano avuto la
sensazione di aver inghiottito una cucchiaiata del contenuto di un posacenere. Le gole continuavano
a prudere e probabilmente non avrebbero smesso fino all’indomani. Era indescrivibile il modo in
cui il saporaccio riusciva ad annullare tutto quanto, e nei primi istanti dall’ingestione, a
spadroneggiare su tutte le sinapsi preposte anche a tutt’altro, distribuendo a ciascuna delle
operazioni coscienti il proprio analogo di quella sensazione di apnea strangolata.
-facciamo così.
Da uno zainetto, una bottiglietta di plastica. Un podi polvere passò dal polpastrello alle zigrinature
del tappo. L’altra fu sciacquata da rapide e ansiose ondate intermittenti di un’acqua dalla
temperatura di minestra, che dalla bottiglietta sbrodolò e permise alle mani di Mari di liberarsi della
patina attaccaticcia.
-oh, senti. Vuol dire che una parte se ne va pure con l’acqua e innaffia la terra. Mica tutto al cielo.
Croce scuoteva la testa, senza commentare.
Molto in alto sopra le loro teste volavano strani corvi: per tutto il giorno non facevano altro che
rotolare sospesi nelle correnti d’aria, dandosi slancio tra di loro, sghignazzando per un nulla che
parevano trovare estremamente comico, gettandosi in improvvise picchiate verso punti del cielo in
cui dovevano aver visto volare qualcosa d’invisibile.
.
Mari aveva insistito. Valla a capire. Che poi non è da escludere che tra di loro cominciassero a
capirsi sempre meno, una di quelle cose, uno di quei fenomeni in sviluppo che si manifestano in
silenzio e s’allungano dentro un certo tubo di tempo e invadono l’intero labirinto delle tubature che
scorrono sotto i pavimenti e le pareti della vita e d’un dato periodo, il rumore lo si sente quando ci
si accosta l’orecchio, certo non è che si possa fare sempre questa cosa di fermarsi e auscultare,
comunque sia, qualcosa s’è ficcato a sua volta in queste tubature, qualcosa di strano, forse solo
perché è un essere sconosciuto, che ha preso ad abitare tramite adattamento ipogeo i normali canali
e modificarne l’interno passaggio di cose, informazioni abitudini interazioni, il che comunque non
impedisce all’acqua di uscire copiosa dal doccino e frangersi in rivoli, iridescenti nello scontrarsi
con le montagnole di schiuma adagiate sul pelo di Croce.
Mari, se fosse stato necessario, l’avrebbe obbligato con la forza a mettersi nella vasca, ma non
aveva ritenuto necessario nemmeno spiegare, giustificare, dire che puzzava peggio dell’animale che
era. Era stato solo un “ma perché”, “tu fallo e bastadall’inizio alla fine, e Croce, che vallo a capire,
non era da escludere che si capissero sempre meno eccetera eccetera, insomma Croce aveva ceduto
e si stava facendo fare il bagnetto. Fermo in piedi con gli zoccoli sulla maiolica rosa della vasca, il
pizzetto intriso d’acqua saponata che gocciolava in corrispondenza dell’occhio metallico un po
arrugginito dello scarico.
Pollo stava in piedi sulla soglia a braccia conserte, appoggiato alla cornice della porta scricchiolante
sotto il suo peso. Sembrava guardasse divertito, ma senza sorridere. Mari insaponava con dedizione,
con foga quando c’era da strofinare: le mani sparivano sotto il folto pelo e qui si tramutavano in una
nebulosa frizione, una specie di piccolo temporale localizzato che si lasciava dietro bolle di sapone,
che affiorando da stretti cunicoli nella pelliccia avevano vita breve, si dissolvevano presto, senza
neanche scoppiare.
Croce lasciava fare. Croce se ne stava buono e zitto. Sulle labbra, soltanto una smorfia fissa da
capra o da tursiope. Animale buono: la sua pastorella degli alpeggi lo lava, con premura. Sotto le
ciocche grondanti e appesantite, allungate dal fardello dell’acqua, la pancia di Croce tremava: le
zampe, ferme sui loro quattro punti d’appoggio, avevano delegato al ventre il tremore scaturito da
ciò che Croce, guardando ritto avanti a sé il confine in cui la maiolica passava dal rosa del bordo
della vasca ai quadrati bianchi mosaicanti la parete del bagno, sentiva di vedere davvero.
Non stava buono. Croce, nella vasca, era come un selvatico che s’imbatte in un presagio famelico e
lì in mezzo a un sentiero s’arresta completamente in un istante prodigioso, e ogni parte del corpo
disimpara tutti i movimenti, regredendo a un’immobilità precedente alla vita, primitiva più d’ogni
altra cosa, e la paura soltanto sopravvive cauta a quel temporaneo totalitario impero della stasi,
mimetizzandosi inosservata dietro la forte parvenza della stasi stessa. Convogliandosi in un punto
soltanto, impercettibile. Concentrata, trema da sola.
Ma Croce lascia fare. E Mari esegue, l’ha scelto lei del resto, e Pollo sta là a guardarli, ancora in
piedi dopo una giornata in piedi, è quasi mezzanotte e il resto del bungalow è vuoto, gli ospiti sono
concentrati nella stanza in cui il fruscio dell’acqua corrente subito echeggia grazie all’acustica delle
pareti. Si assiste all’abluzione.