caldo era stato il caldo di città, la loro partenza un nulla, la loro marcia e risalita nemmeno un passo
fatto da dove erano partiti.
Croce avrebbe giurato che se non l’avessero finita presto con quella storia i suoi belati inespressi
avrebbero compiuto una rinascita dentro i suoi stomaci e gli sarebbero risaliti a scalzare i pensieri,
che come quelli degli altri galoppavano, scalciando sassi, che erano poi gli stessi rumori sbriciolosi
improvvisi che ogni tanto facevano eco dai bordi del cratere e scendevano giù giù da dove loro
erano venuti, scivolando lungo le lineari impervietà di una terra verticale sulla quale loro, per
natura, non sarebbero dovuti poter salire -loro altri, senza zoccoli, senza il segreto alchemico del
numero quattro negli arti che poggiano al suolo, presuntuosi bipedi, ignoranti. Che ne sapevano
dello sforzo che ci vuole a trattenersi dentro un irrefrenabile slancio al belato? Una dichiarazione
nuova, un lamento che diventa qualcosa di mai udito… meglio che se ne resti nell’incompiuto
allora, che non s’oda mai.
Non poterono resistere dall’osservare per un po’ l’interno della voragine.
Una gola frammentata in panneggi rocciosi, fori, cunicoli ondulanti a formar la stampa di un
orecchio interno osservato con la lente, s’apriva vasta, e subito stretta, instabile, all’interno del
cratere spento, per poi culminare in un punto di fondo che non ci si poteva sporgere a guardare. Su
una sottostante sporgenza, la stazione superiore -l’unico relitto antropico- posava come una mosca
verdastra su un eroso costone di terra polverosa. Da lì, una salita faticosa che avevano percorsa
ansimando senza profferire una sillaba. Senza voltarsi per non perdere l’equilibrio, avevano sentito
dietro le schiene l’eco dei fili in moto, qualcuno che saliva, e che altri non erano che certuni degli
operatori che erano venuti, perché ci fosse qualcuno anche alla stazione di sopra quando gli unici
visitatori avessero voluto discendere. Lungo le labbra brune del vulcano, da un versante e dall’altro,
nessuna distante macchiolina bianca né colori sintetici di scritte di t-shirt o cappellini o zaini spessi
a segnalare altri invasori di quel silenzio spezzato dal vento, che soffiava un rantolo pruriginoso e
che certamente non soffiava giù al livello del mare, seppure convogliasse anche a quell’altezza
soltanto masse d’aria calda, ininfluenti in fondo, s’annullavano nell’aria circostante, diversa solo
perché statica. Non attraversata da schiamazzi. In silenzio Pollo, più degli altri che pure stavano
zitti, s’ergeva sulle punte dei piedi, sporgeva il collo a guardare, stancandosi dell’azione superflua e
nel simultaneo sforzo di zittire il fischio del respiro suo attraverso le narici, così fastidioso, così
chiacchierone in un mondo che, almeno in teoria, avrebbe dovuto possedere una qualche forma di
pura, incorrotta asprezza, si tratta d’un cratere maledizione, un ingresso d’inferno che dovrebbe
esser buona alternativa al parlare dei vivi. Sembrava che nessuno volesse bene a quel vulcano. Ma
neanche l’assenza di turisti, che pure dovevano essere esistiti in quel luogo, a diventare fantasmi
scoloriti in vecchie fotografie come quelle appese alla bacheca della stazione, a ricordare d’esserci
stati -anche l’estinzione dei loro vestiti luccicanti sulla cima e dei loro rumori che parlavano di tutto
meno che del vulcano non era riuscita a restituire a quel luogo selvaggezza od orgoglio di natura
austera, e più che una montagna ritta in mezzo a quattro elementi sembrava un enorme cantiere, che
scarnifica e buca un quartiere in ricostruzione, che soltanto per caso, per certe erbacce per certi
corvi per certe anarchie minerali, assume vaghe parvenze di selvaggio, ma pur sempre è un cantiere.
Non che lo criticassero. Sarebbe stato troppo anche per il loro cinismo, insultare un vulcano. Ma sì,
glielo concedessero: una minima impressione di lava e di fuoco e di fumo che un tempo si
slanciavano dalla bocca, con uno sforzo, la si avvertiva. E il panorama comunque era bello,