La voce di Brian Wilson era stata tra quelle fila, la sua era La Voce anzi, sempre secondo certi
cronisti che vivono di leggende e dell’abitudine a magnificare umani realmente esistiti attraverso la
parola coi suoi inganni e le sue bellezze e il suo rigor mortis.
Ma leggende dicono che anche quella voce a un certo punto, un punto corrispondente all’uscita sul
mercato del capolavoro dei Beach Boys, smettesse di surfare e, di conseguenza, di farsi surfare, di
far da tavola sotto i piedi di coloro che assaltavano gli stabilimenti balneari.
Tanta tanta sofferenza in animo a Brian Wilson.
Un noto aneddoto vuole che il compositore Brian Wilson, vessato internamente da sofferenze senza
sbocco e risoluzione, si ritirasse sempre più in un suo antro mentale in cui, distaccato, poteva
ascoltare una musica che spirava dentro di lui, che necessitava separazione dai rumori del mondo, di
amici e fratelli e ragazze sempre più come gente estranea, della costa californiana, della stessa sua
voce registrata che ancora rimbombava da un passato in cui a piede libero erano circolate
precedenti, forse imbarazzanti, forme di sé.
(Non possiamo sapere se ne fosse davvero imbarazzato o se vi pensasse già con affetto come a
ingenuità immature, non potremmo saperlo nemmeno collezionando tutti i possibili aneddoti
leggendari intrecciati a formare la storia della musica leggera del novecento; ma sappiamo che la
sua voce non lanciava più lo stesso richiamo: non era una voce stando in piedi sulla quale si potesse
credere di vivere in equilibrio, su di un’onda o su una qualsiasi altra cosa che nostro malgrado si
muove e può ribaltarci: s’era trasformata in una voce che piangendo timidamente forse proponeva,
timidamente, che si potesse perfino piangere nei microfoni senza che ciò arrecasse disturbo a un
ritmo di cose del mondo che mal tollera le lacrime: per trentasette minuti questo disco non ti aiuta a
dimenticare e invece ti porta le orecchie e la faccia a osservare certe cose che, impensabilmente,
non sono brutte, è assurdo cazzo ma non lo sono, anzi, quasi quasi ti ci fai un abitudine a questo
sentimento strano, e poi com’è ben registrato, è la cosa meglio registrata e arrangiata che ti sembra
d’aver sentito girare su un ottimo apparecchio audioriproducente collaudato, di fabbricazione
giapponese o di quella stessa west coast, comunque sia del Pacifico…).
Lo stesso aneddoto sopracitato vuole che il compositore Brian Wilson si facesse portare autentica
sabbia di autentica spiaggia del Pacifico per poterci affondare i piedi nudi quando sedeva al piano,
cercando grazie a questa ispirazione tattile di varcarsi, attraverso un buio suo personale, un canale
che connettesse i suoni che aveva in testa e la tastiera.
E si dice che nulla potesse ascoltare, in quei momenti, di quanto lo circondava.
La sofferenza di Brian Wilson. Per questo era riuscito a cantare i capolavori di Pet Sounds.
Sebbene, a dire il vero, alcuni testi non fossero stati scritti da lui.
Ma non c’era dubbio, che anche quella sofferenza nei testi di qualcun altro, fosse la sua.
Così vogliono credere coloro che credono alle leggende. Devono crederci. Altrimenti nulla ha più
senso.
Se non fosse stato così, non sarebbe riuscito, Brian Wilson, a comporre e cantare e registrare “Until
I Die”, contenuta nell’album “Surf’s Up”, sulla cui copertina il surf appare in realtà morto da un
pezzo, è un cavaliere scheletrico che quasi s’accascia e secca in un crepuscolo limaccioso. Quella sì,