Ep.4,5
Stando alle leggende che circolano, il compositore Brian Wilson portava davvero tanta sofferenza in
animo.
Il mondo surfava. La gente scivolava sul mare aggrappandosi a numerosi supporti che
s’equivalevano ad altrettante tavole da surf -nulla e nessuno avrebbe potuto estirpare le tavole da
surf dalle coste delle terre emerse in quel momento storico, nessuno avrebbe bandito uno stile di
vita.
Gente scivolava sulle onde, sperando d’aver controllo del proprio equilibrio, proprio sulle onde che
come banchi di grossi pesci indomiti nuotavano contrarie a ogni idea d’equilibrio, e invece no, il
tempo giovane prima di venir inghiottiti da ore d’occupazioni ostili a qualsiasi significato lo si
trascorre così, ostentando la non-caduta. Oppure per i più attempati, nella carne ma non nello spirito
comodamente equalizzato come una bell’aria condizionata, alla stessa maniera si trascorre il tempo
già marcescente, quello che resta negli spazi conquistati tra quelle summenzionate ore di laborioso
nonsenso, così che quando si torna a lavorare e lasciarsi putrefare lentamente lo si fa almeno
essendocisi cambiati d’abito e di cadavere, un cadavere che ha sfogato certe energie inutilizzate e
che ha ancora indosso un certo sentore di sale marino che tutto sommato non è niente male eh, c’è
da apprezzare la vita per queste sue piccole cose, sì c’è da sorridere della fatica che concede almeno
d’essere dimenticata per due giorni all’anno di galattico spendacciare e di baldoria che danno senso
a tutto il resto prima che tutto il resto, tutto il resto che ha sapore di medicina soffocante nel
mandarla giù ritorni a prendersi la grossa parte della vita.
Questa era la fiabesca vita dei tempi d’oro.
Scivolavano coi piedi saldi su tavole e ciambelle a forma di plesiosauro fumettoso e di pubblicità di
bibite e di stecchi del gelato e di ricordi modificati dalla memoria personale e da quella collettiva
plasmata da cinema e radio e dalle voci di ragazzi da spiaggia che, armonizzandosi melodiose,
avevano incitato per prime a surfare. Era stato il manifesto musicato del partito post-edonista che
era in fondo la versione smerciabile d’un ben più complesso tomo comprensivo dell’intera nuova
filosofia retrostante -mai rilasciato al pubblico, perché troppo ostico per il pubblico, meglio
lasciarlo lì, nei vuoti della storia, ché in quest’epoca s’è deciso che certe cose, certi nostri modi di
disfacimento o d’adattamento allo stesso vanno lasciati impliciti, per non rovinare la grigliata in
famiglia.
Proprio come non fu rilasciato “SMiLE”, il grande progetto di Brian Wilson che avrebbe dovuto
ancora una volta rivoluzionare il modo di concepire la musica pop.
(Lo trovi su Spotify registrato nel 2011 in una forma che non si saprà mai quanto distante dall’idea
concepita nel ’67, castrata dell’impatto che avrebbe forse avuto, perduta ogni sua aura divina dal
momento in cui infine è nata.)
Comunque, tutto questo era il tempo raccontato dalla leggenda, decenni partoriti dai grandi caos di
inizio secolo, in vigile attesa di altri caos da venire, in attesa nascosta, o forse già in bella vista, già
ignorati, già dimenticati e lontani dal cuore.
La voce di Brian Wilson era stata tra quelle fila, la sua era La Voce anzi, sempre secondo certi
cronisti che vivono di leggende e dell’abitudine a magnificare umani realmente esistiti attraverso la
parola coi suoi inganni e le sue bellezze e il suo rigor mortis.
Ma leggende dicono che anche quella voce a un certo punto, un punto corrispondente all’uscita sul
mercato del capolavoro dei Beach Boys, smettesse di surfare e, di conseguenza, di farsi surfare, di
far da tavola sotto i piedi di coloro che assaltavano gli stabilimenti balneari.
Tanta tanta sofferenza in animo a Brian Wilson.
Un noto aneddoto vuole che il compositore Brian Wilson, vessato internamente da sofferenze senza
sbocco e risoluzione, si ritirasse sempre più in un suo antro mentale in cui, distaccato, poteva
ascoltare una musica che spirava dentro di lui, che necessitava separazione dai rumori del mondo, di
amici e fratelli e ragazze sempre più come gente estranea, della costa californiana, della stessa sua
voce registrata che ancora rimbombava da un passato in cui a piede libero erano circolate
precedenti, forse imbarazzanti, forme di sé.
(Non possiamo sapere se ne fosse davvero imbarazzato o se vi pensasse già con affetto come a
ingenuità immature, non potremmo saperlo nemmeno collezionando tutti i possibili aneddoti
leggendari intrecciati a formare la storia della musica leggera del novecento; ma sappiamo che la
sua voce non lanciava più lo stesso richiamo: non era una voce stando in piedi sulla quale si potesse
credere di vivere in equilibrio, su di un’onda o su una qualsiasi altra cosa che nostro malgrado si
muove e può ribaltarci: s’era trasformata in una voce che piangendo timidamente forse proponeva,
timidamente, che si potesse perfino piangere nei microfoni senza che ciò arrecasse disturbo a un
ritmo di cose del mondo che mal tollera le lacrime: per trentasette minuti questo disco non ti aiuta a
dimenticare e invece ti porta le orecchie e la faccia a osservare certe cose che, impensabilmente,
non sono brutte, è assurdo cazzo ma non lo sono, anzi, quasi quasi ti ci fai un abitudine a questo
sentimento strano, e poi com’è ben registrato, è la cosa meglio registrata e arrangiata che ti sembra
d’aver sentito girare su un ottimo apparecchio audioriproducente collaudato, di fabbricazione
giapponese o di quella stessa west coast, comunque sia del Pacifico…).
Lo stesso aneddoto sopracitato vuole che il compositore Brian Wilson si facesse portare autentica
sabbia di autentica spiaggia del Pacifico per poterci affondare i piedi nudi quando sedeva al piano,
cercando grazie a questa ispirazione tattile di varcarsi, attraverso un buio suo personale, un canale
che connettesse i suoni che aveva in testa e la tastiera.
E si dice che nulla potesse ascoltare, in quei momenti, di quanto lo circondava.
La sofferenza di Brian Wilson. Per questo era riuscito a cantare i capolavori di Pet Sounds.
Sebbene, a dire il vero, alcuni testi non fossero stati scritti da lui.
Ma non c’era dubbio, che anche quella sofferenza nei testi di qualcun altro, fosse la sua.
Così vogliono credere coloro che credono alle leggende. Devono crederci. Altrimenti nulla ha più
senso.
Se non fosse stato così, non sarebbe riuscito, Brian Wilson, a comporre e cantare e registrare “Until
I Die”, contenuta nell’album “Surf’s Up”, sulla cui copertina il surf appare in realtà morto da un
pezzo, è un cavaliere scheletrico che quasi s’accascia e secca in un crepuscolo limaccioso. Quella sì,
l’aveva scritta lui, senza dubbio, sedendo davanti al vero Pacifico inchiostrato da un crepuscolo che
gli ingrossava le onde, che lo riempiva, lo riempiva sempre più, innalzando il livello dei mari del
mondo, per ingoiare tutti i Brian Wilson seduti sulle spiagge della terra a contemplare nelle acque
vaste dell’oceano un’illusione ottica di infinito, oppure per condurre da loro ciò che dorme sul
fondale, imparentandolo a ciò che veglia sulla terraferma, mostrando quanto si somiglino, tritoni e
terrestri.
Tutto questo fa parte della leggenda, dell’aneddoto, un aneddoto molto noto.
Esiste invece un fatto storico così poco noto che si può quasi dire essersi ritirato dall’esistenza.
Brian Wilson fu un navigatore vissuto a cavallo tra i secoli diciottesimo e diciannovesimo, fedele
alla corona britannica e devoto alla sua storia. Solcò i mari meridionali quando già si credevano
ormai tracciate tutte le terre, esplorato il globo intero, gli atlanti colorati da bandiere europee
ripetute più volte attraverso gli angoli più remoti degli oceani lontani dalla cristianità. Ma una
segreta intuizione manovrava la vecchiaia di Brian Wilson, che alla metà esatta del secolo si imbatté
in isole sconosciute, un arcipelago remoto e tempestoso nella fascia antartica dell’Oceano Indiano
che sarebbe stato battezzato con il suo nome.
Le Isole di Brian Wilson (B.W.I, Brian Wilson’s Islands) sono un gruppo di scogli e isolette
completamente disabitate, la cui origine, secondo alcune ipotesi, è da attribuirsi alla probabile
attività di vulcani sottomarini spenti approssimativamente da due o tre millenni.
Sebbene la conformazione dell’arcipelago sia di grande interesse per il geologo, l’impervietà del
clima ha continuamente ostacolato l’avanzamento degli studi sul campo. L’ultima significativa
raccolta di dati risale agli anni ’80 del ventesimo secolo.
La temperatura si mantiene costante intorno ai 7 C° nel corso dell’anno, non superando mai la
massima registrata di 10 C° e non scendendo al di sotto degli 0 C° durante le tempeste dei mesi
invernali nei punti più elevati. L’entroterra, ripido e roccioso, è per lo più inagibile, nonostante i
maggiori rilievi si aggirino sui 300 m slm. Sono presenti tuttavia anche lievi pendii erbosi, provvisti
di scarsa vegetazione di tundra. Il vento soffia forte e costante su queste zone. L’idea di costruirvi
alloggi per la ricerca temporanea non è stata mai presa in considerazione, e gli studiosi che presero
parte alle spedizioni passate ricordano quanto fosse snervante il quasi quotidiano, quasi
interminabile tragitto per mare dal porto più vicino. Nessun edificio è stato eretto nel territorio delle
B.W.I., e l’unica struttura antropica è il molo della maggiore delle isolette, ricavato a partire da
frequenti modifiche applicate allo stesso porticciolo utilizzato negli anni successivi alla scoperta,
nella seconda metà del diciannovesimo secolo, quando gli inglesi vi portavano il bestiame con
l’intenzione di predisporre approvvigionamenti per le lunghe spedizioni sulle rotte vicine.
Com’è tipico degli arcipelaghi di questa zona, la flora e la fauna sono povere e contano le specie
che normalmente si incontrano lungo le coste della medesima fascia oceanica. Muschi e licheni
prosperano sulle sporgenze. Non vi sono specie arboree. Le ossifraghe nidificano sulle scogliere. Vi
sono inoltre una colonia di otarie orsine e una di pinguini crestati; già nei diari di Brian Wilson se
ne fa menzione, e vi è un breve accenno all’antipatia che i marinai, probabilmente ubriachi e
stremati dalla solitudine del clima antartico, serbavano nei confronti di questi animali, frequenti
vittime dei loro giochi di morte e brutalità. Brian Wilson menziona inoltre passaggi di elefanti
marini e di balene franche australi, sebbene non siano mai stati registrati casi attuali o d’età
contemporanea.
Il navigatore e scopritore delle isole riferisce inoltre che un’insolita fauna abitava le colline erbose.
Al suo arrivo, spronandosi come in ogni altra intrapresa col pensiero di quella che egli considerava
la primaria missione dei suoi tanti e gloriosi predecessori -non la conquista: la missione d’avere gli
occhi-, tracciò degli sketch a carboncino, in parte conservati. I fringuelli e persino i mammiferi di
ignota provenienza, raffigurati da Brian Wilson al massimo delle sue abilità di disegnatore e in
mancanza di approfondite nozioni di scienze naturali, probabilmente sono davvero vissuti sulle
isole ma, come spesso è accaduto, l’arrivo degli europei e soprattutto degli animali da macello e da
lana, che essi portarono con sé e lasciarono liberi di pascolare nei nuovi territori, comportarono una
fulminea estinzione, e con essa l’impossibilità di studiare le misteriose origini di tale vita isolata.
Non vi sono certezze riguardo al numero odierno degli esemplari di razze suine e caprine in stato
rinselvatichito. Si nutrono di muschi e delle uova degli uccelli marini.
Si registra una notevole attività sismica.
Le precipitazioni sono molto frequenti ma non favoriscono la crescita della vegetazione.
Il vento è forte.
Già detto questo… sì.
Del clima si era già parlato. Anche della vegetazione, tra l’altro.
Le precipitazioni nevose sono rare.
Che altro…
Sulle isole di Brian Wilson non c’è niente.
Eppure questo è impossibile.
Sulle isole di Brian Wilson non potrebbe mai vivere un essere umano.
Eppure, è impossibile che un essere umano non ne sia attratto.
Guardando le fotografie. Sentendosi respinto da esse. E al tempo stesso risucchiato al loro interno,
come da un vortice. Un vortice è una roba mossa da due forze contrarie e chissà da quante altre e
chissà in che rapporto stanno tra loro e se ti prende sei risucchiato e finisci in un nulla o un altrove
che chissà com’è fatto.
E se non lo fa continui comunque a pensarci, alla spirale ipnotica.
Perché un essere umano continua a pensare alle isole semisconosciute dopo averne letto le
caratteristiche?
Forse una parte della sua anima è finita là. Come ci finì casualmente Brian Wilson, navigatore
vissuto a cavallo tra i secoli diciottesimo e diciannovesimo.
Sì, forse c’è una chiave, laggiù da qualche parte, un pezzo mancante e finalmente risolutivo della
coscienza umana.
Eppure laggiù non c’è niente.
Eppure, ciò è impossibile: per esempio, è impossibile che non vi siano grotte, caverne, un
sottosuolo.
Già questo rende le isole simili, uguali, a tutti i luoghi della terra.
Perché il resto è soltanto superficie. Erbetta di superficie.
Alla terra, non è questo che interessa… la terra è altro. Tutte le terre emerse sono le terre emerse di
laggiù, di B.W., sì, ovunque ci troviamo laggiù, in quelle isole.
E il vento antartico viene da ancor più giù e ci tormenta, nostro vicino di casa.
Ci attraversa col suo freddo boato.
Ogni tanto si vede qualcosa nell’oceano grigio, poi sparisce e non si rivede più per decenni, forse
per secoli, e finisce per sembrare che non s’è visto proprio niente.
Questi sono fatti storici e scientifici. Non leggende.
.
Pollo ripassava queste informazioni nella sua testa dopo averle immagazzinate durante il traghetto
d’andata. Aveva letto un libro sul musicista e compositore. Voleva ascoltare la stessa musica che
egli udiva sul finire dei ‘60, quella che udiva stando male sia nella sua pelle che assieme agli altri.
Sperava prima o poi di trovare dentro di sé uno spazio simile, come una sala da concerti con sabbia
del Pacifico e un pianoforte al centro, e zero ascoltatori, e zero di tutto il resto, galleggiante nel
vuoto e nel nero, zero totale di sola musica uguale a silenzio.
Poi, steso sul letto col cellulare in mano sopra la faccia, aveva letto la pagina Wikipedia sul poco
conosciuto navigatore.
Fu come aver trovato un libro in una stanza vuota della nave. Come se non fossero semplici
informazioni lette per noia da uno schermo. Come se fosse sceso attraverso gli strati concentrici
dell’imbarcazione e gironzolando fosse sgattaiolato dietro una porta socchiusa, e qui scoperto i
volumi che qualcosa, richiamandolo, sperava che trovasse e leggesse, la nave forse.
Maledetta da spettri di navigazioni antiche, delle generazioni passate che avevano infine partorito la
generazione corrente delle navigazioni.
Ogni navigazione è maledetta.
Ha un’eredità pesante.
Non può non attraccare laggiù, alla fine, a un arcipelago di scogli e isolette disabitate e gelide per il
vento e la pioggia, tutto attracca alle B.W.I.
Ma se tutte sono maledette, è come se non lo fosse nessuna. Non c’è ragione dunque di sentirsi
inquieti.
Fa parte della vita.
Sì.
Ed è affascinante leggere degli spettri e voler a loro assomigliare.
Così pensava Pollo dopo aver letto mentre pensava a Brian Wilson e mentre pensava all’altro Brian
Wilson.