Ep1
Accostarono, ricavandosi a forza con la carcassa rovente della macchina una piazzola di sosta. Sotto
le ruote e le intrecciate tubature che formavano la pancia del veicolo scivolò incerta, per fermarsi
infine, l’ombra, i cui contorni parvero tremolare, e farsi di consistenza illusoria, anche dopo che il
motore fu spento. In effetti, a voler render giustizia al luogo che l’ombra scelse per arrestarsi,
qualcosa che un tempo si sarebbe potuto chiamare “piazzola”, o persino “parcheggio”, doveva
essere esistito là; una lastra fatta d’asfalto, cemento, erbacce giallognole e verde urinale strisciò
proprio sotto all’auto parcheggiata, accogliendone la forma con la stessa permeabilità di un liquido
quando ingloba o è inglobato.
-mi fa sempre un popaura quando il motore faquesto odore. Come se il sole l’avesse arrostito, e
stesse per scoppiare.
-cosa scoppia, il sole o il motore?
Ci pensò su.
-entrambi.-, sospirò stanca.
Anche la terra, opaca, riusciva ad accecare. L’ombra degli arbusti spogli non ci arrivava nemmeno.
Ma l’acqua nelle bottiglie di plastica era ormai già ridotta a brodo da viaggio: non c’era da
disperarsi poi tanto dell’eventualità di una sosta prolungata con annesse conseguenze indesiderabili
nel delicato ambito della temperatura di effetti personali e generi alimentari.
L’ombra rachitica di un rovo, per un attimo fugace, cadde mollemente sulla busta dell’autogrill
accasciata alla leva del cambio, senza deporre una sola oncia di refrigerio; moschino impercettibile
alla pelle, ininfluente; vola via, come mai ci fosse stato.
Va bene anche ustionarsi le mani ritrovando gli sportelli di metallo come lastre di lava. Per prima
cosa, quelle mani, dovevano lavarle. Era una pausa prioritaria.
La sensazione della sabbia tra le dita si era fatta insopportabile.
Tre sacchi di sabbia buttati sul sedile posteriore. Le bocche mezze rovesciate a vomitare tra gli
interstizi che nessun autolavaggio sarebbe stato in grado di riportare alla morbidezza originaria,
priva di imperfezioni, di granelli. La macchina materializzata direttamente dalla brochure: addio per
sempre, sogni effimeri da concessionario.
Ma che dovevano farci con quella sabbia?
-a qualcosa potranno servire.- queste, ma forse si trattava solo di un falso ricordo, erano le parole
che associava a quell’avvenimento, senza troppi sforzi per ricordarselo. Le aveva messe lui in bocca
a lei nella sua immaginazione? Non ricordava davvero altro che l’arsura, l’insopportabile ruvidità e
viscosità frammiste in una transustanziazione di tedio estivo che aderisce ai polpastrelli, marchia le
impronte digitali di indefinibile pulviscolo. La necessità di fermarsi e sciacquare è tutto. Una pausa
tra le viscere dell’estate e del manto stradale interregionale, insomma. Tra tumori brulli di
Appennini anonimi simili a tumuli ocra piazzati tra vene incandescenti d’asfalto, il catrame si
scomponeva secondo dopo secondo in microparticelle ed evaporava in onde verticali dal suolo
annebbiando le cose visibili, per mezzo di schermi ubriachi di vertigine trasparente.
C’era un altro brutto odore. Vomito dei sacchi, misto di vero rigurgito e di quella miscela -sole,
crema solare, cialda spugnosa, spiaggia prodotta in serie- che un tempo gli graffiava l’interno del
naso, fino al cervello, durante le vacanze allo stabilimento balneare.
In un delirio iconoclasta avrebbe potuto collocare in quel nonluogo una sdraio, con accanto un
secchio di palette e secchielli, facendone una grottesca installazione in grado di connettere tutte le
superfici del mondo sulle quali il sole batteva con la stessa intensità, per evidenziarne le
contraddizioni. Erano alle prese con una di queste.
La sabbia non odorava di doposole e non era rinfrescata da ombrelloni in fila.
Poco da fare. Macchina, sedili, tutto compromesso per sempre. Granelli ritrovati fino al giorno della
rottamazione…
Un pezzo di Tirreno era ormai entrato nello scheletro lucente, nella stoffa, nell’arbre magique.
-merda da farmi sognare i pescecani la notte.-, aveva borbottato lui a un certo punto, forse qualche
ora prima, non certo sperando di generare un qualsiasi tipo di contributo significativo. Erano, in
quel momento, in fila per il casello autostradale, e i sacchi di sabbia si erano da poco aggiunti come
passeggeri al loro vagabondaggio sparpagliato tra i pedaggi dell’entroterra, che avevano conosciuto
e poi dimenticato e poi reincontrato in altre occasioni, altre vacanze.
-pescecani... tipo trauma da visione prematura de “Lo Squalo”?-, aveva chiesto lei tamburellando
sul volante con le lunghe dita.
-macché squalo e squalo. Roba più sporca. Pescecane, hai presente? È una specie di squaletto di
fondale, credo, che morde e striscia. Hai presente, fondali fangosi, marroni. Mare nero di notte che
fa paura.
-mmmhh..-, poco convinta, ma in ascolto, sempre.
-e c’è una locanda sul lungomare che puzza di quei cosi, là…
-cirripedi.
-eh, sì. Ah… ti ricordi ancora quel discorso…
-l’hai ripetuto in più occasioni e ogni volta non eri certo di aver già detto le stesse cose. Si vede che
ci tenevi.
-comunque hai capito che voglio dire.- sbuffò, con l’aria d’aver concluso, senza girarsi mai a
intercettare le sue espressioni, che credeva di poter decifrare, all’occorrenza, anche soltanto
sentendosele dietro alla nuca, mentre lei guidava e lui rimaneva a contemplare fuori dal finestrino le
concavità delle ringhiere al bordo della carreggiata che letargicamente scorrevano, fermandosi di
scatto quando qualcuno pagava il pedaggio e l’asta giallonera si alzava, spargendo fin là un cigolio
stremato da decenni di mancata manutenzione.
Sbuffò di nuovo: parve dire “oh, chi se ne frega”, come se fino a poco prima fosse stato a valutare
nervosamente al centro di un bivio: me ne sto zitto?, ma sapeva già che, per come stavano andando
le cose, alla fine avrebbe svuotato tutto il cervello della spazzatura verbale in eccesso.
Basta trovare un avvenente accondiscendente cassonetto uscito da una fantasia, che già comincia a
puzzare di pelle, sudore, motore che sta per esplodere al centro del sistema solare.
-Il mare di notte che è un inchiostro annacquato. Nero e marrone e basta, ovunque. E le totanare che
puzzano. Le rane pescatrici appese, che vomitano acqua salata. E altre barche lerce sgraffiate.
Mari si sporse, sbilanciandosi tutta tra il sedile e le inferriate che tenevano strette le macchine in fila
al casello, infilando nello spazio sotto una vetrata semiaperta un foglietto, forse dei soldi, o uno
scontrino, qualcosa che sicuramente non aveva meritato la preziosa attenzione di Pollo, da dosare in
vista di questioni di diversa caratura che un pedaggio o una scartoffia cacacazzi.
Gallo, o Pollo, stava zitto a rimuginare e rodersi, teso tra quella specie di spinoso orgoglio che
provava per la riuscita estrinsecazione del proprio sentire (sempre condotto fino allo sdegno, anche
forzatamente se necessario) e una stanchezza macina-ossa, annienta-muscoli, saponificatrice di
tessuti vitali.
Se un qualsiasi sforzo fosse stato richiesto in quella strada torrida sperduta tra tutti gli spiazzi senza
nome dell’entroterra, il suo corpo sarebbe crollato come una torre di burro ancor prima di entrare in
contatto con un oggetto.
-però sì, è forse è vero.- Mari gli diede corda o fece finta di dargliela. -uno come Pinocchio, per
esempio, non è che se ne può uscire dalla bocca del mostro marino come una qualsiasi Venere tutta
schiuma effimera e tettine bianche nella brezza, coi talloni in equilibrio su un’ostrica. E che capelli
sinuosi sciolti ci può avere in testa un burattino, con quella testa di legno? È tutto zozzo di sabbia
bagnata e fango e cose sporche e sgradevoli al tatto che gli si infilano dalle dita. Giusto? Vado bene
così?
-vedi che capisci.-, brontolò. Altro che squalo. Anche se quello, quello sullo Squalo, è esattamente il
tipo di film che vedrei con te. Che potrei vedere solo con te. Su un divanetto verde, usato solo in
vacanza. In una casa che esiste solo per la vacanza e il resto dell’anno sta in una infreddolita
letargia, in fondo a un inverno lungo nove mesi che sembra un ripostiglio in cui si scende di rado.
In altre parole: potrei farlo solo con te, per te. A tollerare assieme tutto, un villino abusivo in una
via che in agosto è soffocante di corpi e gomma arroventata di salvagenti d’ogni colore, dinosauri
verdi e giraffe e mandala inconsapevoli in ode al segreto Buddha patrono dei tappi di plastica in
cui si butta il fiato per gonfiare oralmente, eterni difettosi; tollerare noi che in quella casa ci
entriamo in un periodo diverso, quando la via è deserta e fredda e tira un vento invernale anomalo
come se l’acqua delle onde che sentiamo scrosciare, invisibili ma soltanto a qualche via di distanza
e sempre più nervose, ce l’avessero iniettata dentro prendendola direttamente da quegli abissi, di
china a temperatura zero, o forse abissi d’inchiostro che mi porto io in capoccia. Tollerare la luce
che solo per quella notte del mese imprevisto torna a circolare nel frigorifero, dopo che tu hai
schiacciato un paio di pulsanti, la vedo accendersi iraconda, si sparge, bollore dopo bollore
trasmesso attraverso quella spirale elettrificata e incastonata in un rigonfiamento di plastica
trasparente che vibra d’illuminazione con un millesimo di secondo di ritardo ogni volta che apri lo
sportello, e che pare uno zampirone sepolto nel ghiaccio (quali zanzare vogliono sopravvivere in
questo gelo? Sarà mica, oddio no, anche quello zampirone un oggetto che rivedrò in sogno?).
Tutto questo pensò senza dire. Non tutto può entrare nei cassonetti o nelle orecchie, nemmeno se
sono recipienti che possiedono l’esclusiva, il privilegio. Certi contenuti rimangono nel primo
contenitore.
Comunque sia avevano tre sacchi di sabbia in macchina. E maneggiare la sabbia che esce dai sacchi
non è per niente come maneggiare una sabbia di sola immagine. Non è affatto una cosa pura.
Comunque, il casello era superato da un pezzo. Nessuna direzione indicata dalle montagne
inconsistenti dell’orizzonte, dalle pozzanghere di miraggio scuro che andavano affastellandosi su
discese e salite dell’asfalto. Nessun segnale che dica: scaricare qui i propri sacchi di sabbia.
Non restava che scendere al primo scintillio accecante, la possibilità d’un rubinetto che riflette raggi
solari. Per questo avevano parcheggiato in quella che altrimenti sarebbe stata un’estenuante
mancanza di variazione nella terra spoglia, che si srotolava identica ormai da chilometri. Pareva
dunque che la piazzola fosse stata un tempo equipaggiata, provvista di cianfrusaglie per la
sopravvivenza -“vale a dire, per prolungare l’agonia”, avrebbe brontolato qualcuno.
Lei, dopo essersi sgranchita le gambe e aver grondato altro sudore sotto i raggi impietosi, per prima
cosa aveva fatto una deviazione per andare a buttare qualcosa in un cestino di rifiuti misti. Mistura
che straborda e fermenta dalle fauci, tipicamente. Ma lei riesce a trovare in quel bordello di patine
viscide e alluminio bagnato di zuccherine gocce residue un tunnel in cui far passare il suo involucro
di cartacce, appallottolate e untuose: in un istante sparisce nel secchio, cade in una nera tubatura,
senza tonfo né conseguenza.
Come non fosse mai esistito.
Eppure continua a occupare uno spazio, in quel suo altrove, quella prigionia anonima che si ripete
ogni giorno, ogni mattino triturata o incenerita o riciclata. A me chi è che mi ha accartocciato e
buttato?
Pollo Gallo si sentiva sempre più irrequieto, come se tante bocche stessero mordendo lungo delle
cuciture invisibili che solo adesso si accorgeva di avere sulle spalle, tracciate a linee tratteggiate
fino alla base del collo, pruriginose.
Se lei andava a buttare un involucro sporco, passando sotto ombre sottili -praticamente inesistenti-
di roveti e vegetazione da lato stradale, e ora stava ritornando, passo dopo passo, lenta, che pareva
uscita da una tangenziale in bianco e nero di un’avanguardia cinematografica fine anni ’60… lui
che poteva farsene di quello stesso intervallo?
Non è che non sia uno che sa aspettare. Sa aspettare a lungo, anzi.
È che… aspettare in quel modo… quel giorno in particolare… vedere quella scena in particolare,
eccetera.
Ogni passo di lei pareva innescare una reazione per effetto della quale veniva esteso di un tot il
pomeriggio già interminabile, infinito nello spazio e nel tempo, su quella terraferma dilatata dal
calore. Come se piedi e asfalto, combaciando, azionassero un congegno a tastiera di pianoforte, per
produrre una musica che non c’entrava niente con le assordanti e complesse poliritmie orchestrate
dalle cicale e dalla canicola che sollevava dal suolo un pentagramma oscillante di bollente
trasparenza.
Non c’era vento.
Qualcosa di diverso portava il fetore impiastricciato al labbro della pattumiera fin là, dove, quasi
per caso, si trovavano le sue narici.
È solo che è nervoso, è solo che sono nervoso.
Per questo si allontanava di qualche passo. C’era un telaio, un gazebo sfilacciato. Fatiscenti trame di
plastica verde simili, per consistenza e aspetto delle linee intrecciate, a una massa di canapa assalita
da un muschio parassitario. Le dentellature del sottile tessuto petrolchimico, laddove erano state
strappate dalle intemperie e continuavano a sfilacciarsi, lasciate a penzoloni lungo le aste
metalliche, sembravano i pezzi sbriciolosi dell’alga nori che avvolge il riso di prodotti pseudo-
nipponici prossimi alla scadenza dormienti su scaffali Esselunga.
È una specie di ombra quella che si trova là sotto, sotto posti del genere?
Come un esemplare tra innumerevoli bestie stremate, Pollo andò in direzione di nient’altro che una
banale tregua dal sole, quella che il corpo si muove a cercare da solo ben sapendo che nessun reale
refrigerio verrà somministrato. Massì, vatti a cercare un angoletto sotto l’ombra di un gazebo
bucato, sgretolato dallo star qua, dallo spazio più che dal tempo.
Fili di plastica smossi dal vento e, in sua assenza, come in quel momento, soltanto dallo sfrecciare
forsennato e superfluo delle macchine. Ma già da un poin questo deserto il traffico è diminuito, e
l’ondeggiare residuo di quel morto tessuto verde-sediadagiardino racconta il passaggio ormai
remoto di un camion stracarico lanciato oltre il limite di velocità consentito, a bucare l’orizzonte
visibile in fondo alla carreggiata, dove forse avrebbe trovato i coyote e i cactus, o più probabilmente
un’altra carreggiata identica, lanciata dentro uno specchio, ugualmente caldo, di certo in procinto di
squagliarsi.
Massì, riposati un po all’ombra, polletto. Riposa, anche senza un trespolo, le tue penne stanche.
-che è?-, chiese lei da lontano.
-niente, niente, una cosa…-, fece Pollo sporgendo una mano aperta dietro sé, procedendo a
camminare verso l’ombra in cui non si registra alcun cambiamento di temperatura.
Sia maledetta l’alga nori e con lei il suo mare sporco, un altro ennesimo mare sporco, agonizzano
intanto i suoi neuroni inviperiti ricollegandosi a precedenti -ma evidentemente non del tutto
dimenticate- riflessioni che aveva riferito alla sua compagna di viaggio.
Pescata direttamente nelle acque di Yokohama, grondanti di schiume nere d’ogni specie. Luci di
altri pescatori dalla pelle ruvida, dall’accento sdentato sghembo sputazzante, coi piedi oscillanti su
barche notturne, su onde nere. Pelle uguale a lingue di squali.
Il frastuono delle cicale era una nota singola. Difficile valutare in quanta parte si unissero all’ondata
che schiacciava, quasi spingendo all’asfalto i corpi dei bipedi. Forse non avevano affatto un peso.
Forse ce l’avevano tutto. Un peso identico a quello del sole.
Pollo è arrivato e trova un carrello vuoto, una cintura con la fibbia rotta zigzagante a terra che
ricordava il disfacimento di una vecchia pelle di saettone, la linguetta di una lattina di alluminio, e
in fondo, a ridosso di uno dei pali metallici del gazebo, un vecchio parchimetro in disuso.
Ah, nota, ci sono strisce bianche sbiadite. Qua si parcheggiava. Per andar dove?
Oltre l’inferriata e gli arbusti spinosi c’era solo un campo incolto. Solo graffi alle caviglie e spine
che entrano in circolo. Nessun rudere che rechi tracce di una vita estinta, nessuna spoglia antropica
eccetto che per una lontana torretta elettrica con le rampicanti che le entrano nelle finestre infrante e
salgono fino a intrecciarsi ai cavi.
Vabbè.
Mari lo guardava ancora mentre tornava alla macchina.
-sì sì moarrivo.
Fu in quel momento che Pollo si ritenne così scoglionato e irrequieto da farsi andar bene pure di
rispondere al parchimetro, che nel frattempo lo aveva interpellato.
-oè!-, esclamò il parchimetro spalancando una bocca tutta distorta. -che fai, eh??
-ma niente..-, fece pollo. Magari averci una sigaretta, tornare in macchina accanto a lei dopo
essersela fumata, avendola già schiacciata e dimenticata assieme alle chiacchiere con questo arnese.
Invece così c’è da giurare che gli resteranno in testa. Si affacceranno ancora, le bastarde, durante la
notte, in qualche sogno degno della più duratura emicrania.
-niente?? Non sei tu, lo scassinatore?
-scassinatore?
-mmmhhh…-, il parchimetro sguscia da palpebre di metallo flessibile due occhi perfettamente
sferici. Sono arcigni nella stretta di flessuose pieghe del viso, come se il metallo della sua
carnagione malleabile esagerasse apposta il calore patito nel corso di quella giornata, imitando ciò
che sarebbe successo approssimandosi al punto di fusione. Doveva trattarsi dell’espressione che
sfoggiava ogni volta in cui occorreva valutare se un debosciato tra tanti giunto là sotto fosse
sincero, quando aveva l’aria di rimanere perplesso alle sue parole.
-quindi non sei tu, eh?
-credo di no.
-mmmmhhh… credi…
Pollo vide che Mari cominciava a rabbuiarsi, sola sul sedile. Controllava qualcosa sul telefono.
Guardava scorrere qualcosa sullo schermo con occhi spenti.
-va bene. Non sembri tu, dopotutto.
-mmh. Lo apprezzo. È tanto che lo cerchi?
Ma che sto facendo?
-chi? Lo scassinatore?? Boia, saranno millenni.
Millenni? Il parchimetro non sembrava proprio il tipo di persona/coso/demone che spara una cifra a
caso per gusto iperbolico. Il prezzo da pagare è quello, il tempo residuo pure, e i millenni sono
millenni. Non è concepibile figura retorica, da queste parti.
-come, millenni… e anche millenni fa eri un parchimetro? Ti ci hanno messo i romani accanto alla
strada per i carri?
-macché! Un uomo verde, ero. E stavo fermo qua. Dritto e orgoglioso! Certo, è pur vero che adesso
sono un parchimetro… ma rimango sempre un uomo verde!
-ah, l’uomo verde. Di quelli di pietra, tipo Bomarzo. O forse proprio l’uomo verde, che se ne va in
giro per i boschi e così via…
-va… in giro….??- il parchimetro ponderò per qualche secondo la questione e venne presto assalito
da un palese imbarazzo, lancinante a vedersi. Borbottò grumi sconnessi di frasi polemiche,
tergiversò.
Tanto ormai il danno è…
-e che ha fatto ‘sto scassinatore?
-ah!!-, si rianimò il parchimetro, lieto di cambiar discorso e di potersi sfogare a proposito del suo
unico, immenso cruccio. -mi ha rubato la foglia mentre dormivo!!
-la foglia.
-già, già, la foglia. Vedi, io ci avevo una foglia, sulla punta della lingua. E tenevo la bocca aperta,
che i passanti per la via la vedevano, pure i tuoi romani che costruiscono le strade eccetera… e che
fa lo scassinatore? Riesce a forzare le labbra di pietra mentre io dormo, e non mi accorgo di niente,
si frega la foglia e sparisce! All’alba mi sveglio e le mie labbra sono chiuse normalmente, come
sempre al risveglio, eccetto che, quando le riapro, sento che la foglia non c’è più, e mi basta
cacciare la lingua un popiù all’infuori per guardarmela e avere conferma. Un lavoro da autentico
maestro del furto, non gli si può dire niente, ma fa che un giorno lo acchiappo quello là, ti faccio
vedere come va a finire
Questo fantomatico criminale si era dileguato, quindi, come un animale notturno -un tratto degno di
uno scassinatore professionista. Inutile specificare che il parchimetro non aveva nessuna prova del
passaggio dello “scassinatore”, tantomeno della sua esistenza. La foglia poteva benissimo essergli
caduta dalla lingua, ed esser stata trasportata via dal vento di quell’ormai lontana notte di duemila,
tremila anni fa…
-e che ci voleva fare lo scassinatore con la foglia?
Oh ma la finisci? Che ti prende? Che continui a fare tutte ‘ste domande?
-AH!!-, sbottò fortissimo il parchimetro, tanto che a Pollo venne il dubbio che Mari potesse in
quello stesso istante aver suonato il clacson, spazientita, ma che il suono fosse stato sovrastato
dall’esclamazione e dalla conseguente invettiva in cui il parchimetro si era lanciato, nominando
stranezze inimmaginabili, arcigno in tutte le lingue conosciute dalle microespressioni facciali del
metallo -che era stato pietra in un tempo lontano, scolpita a ondulare capelli arborei.
Scusa eh ma devo andare, dice Pollo voltandosi e lasciandosi dietro un cenno di mano, in questo
modo approfittando del suo dubbio -falso dubbio, giacché è certo che Mari non può averlo chiamato
con il clacson (non l’avrebbe mai fatto), ma quel suono era stato così irruento e fastidioso che
poteva anche sembrare che fosse successo, e poi… e poi non c’è niente di male nei pretesti
d’evasione; e poi, che diavolo, Pollo si agita, in situazioni simili. Tipo quando uno potrebbe aver
detto una cosa e lui non ha capito, e non è sicuro, e non si può certo star fermi allora, a meno di non
venir divorati dal prossimo, dalle sue domande, dall’ansia pressante che anche quello si porta in
petto, speculare al petto proprio, il che innesca un perverso gioco di reciproca amplificazione di tutti
i possibili disagi inerenti alla situazione, e in tutto ciò altre domande e commenti e
scusapuoiripetere e ohmacheseiscemo e altri prolungamenti d’interazione che sono sempre infausti,
meglio evadere finché è indolore per tutti, meglio…
Ciaoehciaociaociao, faceva Pollo mentalmente mentre quello se ne stava fermo sotto il gazebo
sfilacciato, monolitico in eterno lungo la strada torrida, immobile con le spalle alle erbacce
pungicanti oltre il filo spinato, e gli occhi rivolti al lato opposto, ora al traffico intenso, ora al nulla.
E continuava a inveire, di “scassinatoriche rubano “la perla e il fulcro delle energie vitali…”, e di
una roba, un’energia preziosa che lui chiama “La Linfa”, e altre deliranti insensatezze.
Linfa? L’ultima merda appiccicosa di cui Pollo avrebbe tollerato di sentir parlare in quel momento.
Ragazzo, figliuolo, attento a te, attento allo scassinatore, che c’ha degli occhi come due piccole
stelle fisse, e guardati bene da questo e quello, eccetera eccetera…
Sìssì come no.
Quanto sarà stato? Due minuti? Meglio dimezzare il tempo di percorrenza da qua alla macchina.
Sensazione granulosa sulle mani. Si erano fermati prima di tutto per controllare una fontanella
accostata a un distributore di snack vuoto e in disuso probabilmente dagli anni ’90, o da un loro
analogo capitombolato in uguale squallore di vetri rotti e graffiti sbiaditi, come circoli Arci spolpati
da avvoltoi che prima o poi calano su tutte le feste ridanciane finto-spensierate. Ovviamente dal
rubinetto che dal finestrino avevano visto luccicare come un faro menzognero non usciva nemmeno
il rumore strozzato dell’acqua che non esce: tubature completamente svuotate da chissà quanto. Non
funzionava, Mari se n’era accertata mentre lui stava là a cazzeggiare.
Avrebbero dovuto insomma ricorrere alla solita alternativa: sciacquarsi con l’acqua delle bottiglie,
la brodaglia. Da centellinare, perché chissà quando cazzo finiscono ‘ste strade. Inevitabile: un
casino sbrodolante di acqua trasferita nel tappino per non sprecarne troppa e per non fracicarsi più
del voluto, ma non c’è niente da fare, casca sempre, per via di mani tremolanti o strattoni inconsulti,
casca su pantaloni e su apparecchi elettronici e su tutto il mondo cane e bastardo.
Stormi di bestemmie in volo tra le onde sonore delle cicale, in migrazione sulla campagna.
Le montagne lontane erano azzurre, quelle vicine marroncine. In modo un poinquietante, entrambe
sembravano disegnate, ugualmente intangibili.
-oh, ma che era?-, chiese Mari, passati due minuti di silenzio dopo essersi rimessi in macchina.
-ma niente. C’era un uomo verde. O un parchimetro pazzo.
Mari non disse niente, mise in moto e ingranò la retro, la faccia un poavvilita dietro i grossi
occhiali da sole color mobile d’antiquariato. Nella radio che prima trasmetteva “Cortez the Killer
aveva preso a scorrere, come un ruscello placido e ignaro, un agrodolce riff di synth di un vecchio
pezzo di Bersani.
A Pollo dispiaceva un povederla così. Ma ormai rimuginava già riguardo a uomini verdi, statue
d’uomini verdi che hanno un destino diverso da quelli che non sono statue, a piede libero, fatti di
pura immagine, arrancanti con sguardi allucinati nel profondo di selve di suggestione che
crescevano rigogliose dentro i crani degli antenati, suoi e di tutti quelli che come loro andavano
senza meta per strade lanciate a perdita d’occhio su e giù nella penisola… e uno scassinatore, che
potrebbe esserci o non esserci stato, e una foglia, “portata via dal vento di una notte lontana.”
Maledisse lo sforzo che avrebbe fatto per estirpare tutto ciò dalla memoria e dal foglio della sua
mente in cui restavano appiccicate tutte le cose che per qualche motivo lo impressionavano.
.
Tasselli di vernice bianca scivolavano uno dopo l’altro sotto il muso della Opel.
Speravano entrambi, per motivi diversi, di poter trovare presto un’oasi in cui sedersi e vedere un
film d’intrattenimento, che avrebbero potuto vacuamente commentare con cose tipo “oh, ma sai che
se lo consideri solo come puro intrattenimento è un gran film?”, eccetera; ma avrebbero avuto la
decenza di lasciarlo implicito.
Comunque se ne andarono da quella piazzola senza altro da aggiungere riguardo a tutta quella
faccenda. Veloci per strada con tre sacchi di sabbia coricati sui sedili posteriori. Non occorre
ribadire che né lui né lei avrebbero ricordato cosa dovessero farci, e non cambierebbe niente se lo
ricordassero.
In ogni caso, adesso i sacchi non ci sono più.
Una patina polverosa aderisce inosservata e inafferrabile ai corpi che entrano oggi nella Opel di
Mari, aggredendo i pori della pelle.