stranezze inimmaginabili, arcigno in tutte le lingue conosciute dalle microespressioni facciali del
metallo -che era stato pietra in un tempo lontano, scolpita a ondulare capelli arborei.
Scusa eh ma devo andare, dice Pollo voltandosi e lasciandosi dietro un cenno di mano, in questo
modo approfittando del suo dubbio -falso dubbio, giacché è certo che Mari non può averlo chiamato
con il clacson (non l’avrebbe mai fatto), ma quel suono era stato così irruento e fastidioso che
poteva anche sembrare che fosse successo, e poi… e poi non c’è niente di male nei pretesti
d’evasione; e poi, che diavolo, Pollo si agita, in situazioni simili. Tipo quando uno potrebbe aver
detto una cosa e lui non ha capito, e non è sicuro, e non si può certo star fermi allora, a meno di non
venir divorati dal prossimo, dalle sue domande, dall’ansia pressante che anche quello si porta in
petto, speculare al petto proprio, il che innesca un perverso gioco di reciproca amplificazione di tutti
i possibili disagi inerenti alla situazione, e in tutto ciò altre domande e commenti e
scusapuoiripetere e ohmacheseiscemo e altri prolungamenti d’interazione che sono sempre infausti,
meglio evadere finché è indolore per tutti, meglio…
Ciaoehciaociaociao, faceva Pollo mentalmente mentre quello se ne stava fermo sotto il gazebo
sfilacciato, monolitico in eterno lungo la strada torrida, immobile con le spalle alle erbacce
pungicanti oltre il filo spinato, e gli occhi rivolti al lato opposto, ora al traffico intenso, ora al nulla.
E continuava a inveire, di “scassinatori” che rubano “la perla e il fulcro delle energie vitali…”, e di
una roba, un’energia preziosa che lui chiama “La Linfa”, e altre deliranti insensatezze.
Linfa? L’ultima merda appiccicosa di cui Pollo avrebbe tollerato di sentir parlare in quel momento.
Ragazzo, figliuolo, attento a te, attento allo scassinatore, che c’ha degli occhi come due piccole
stelle fisse, e guardati bene da questo e quello, eccetera eccetera…
Sìssì come no.
Quanto sarà stato? Due minuti? Meglio dimezzare il tempo di percorrenza da qua alla macchina.
Sensazione granulosa sulle mani. Si erano fermati prima di tutto per controllare una fontanella
accostata a un distributore di snack vuoto e in disuso probabilmente dagli anni ’90, o da un loro
analogo capitombolato in uguale squallore di vetri rotti e graffiti sbiaditi, come circoli Arci spolpati
da avvoltoi che prima o poi calano su tutte le feste ridanciane finto-spensierate. Ovviamente dal
rubinetto che dal finestrino avevano visto luccicare come un faro menzognero non usciva nemmeno
il rumore strozzato dell’acqua che non esce: tubature completamente svuotate da chissà quanto. Non
funzionava, Mari se n’era accertata mentre lui stava là a cazzeggiare.
Avrebbero dovuto insomma ricorrere alla solita alternativa: sciacquarsi con l’acqua delle bottiglie,
la brodaglia. Da centellinare, perché chissà quando cazzo finiscono ‘ste strade. Inevitabile: un
casino sbrodolante di acqua trasferita nel tappino per non sprecarne troppa e per non fracicarsi più
del voluto, ma non c’è niente da fare, casca sempre, per via di mani tremolanti o strattoni inconsulti,
casca su pantaloni e su apparecchi elettronici e su tutto il mondo cane e bastardo.
Stormi di bestemmie in volo tra le onde sonore delle cicale, in migrazione sulla campagna.
Le montagne lontane erano azzurre, quelle vicine marroncine. In modo un po’ inquietante, entrambe
sembravano disegnate, ugualmente intangibili.