magnetismo di corteggiamento, Kiy, quasi mutando l’espressione malinconica, e tingendo quella
malinconia d’una contrizione da bestia da soma, gli aveva detto: avrà tredici anni. E lui per poco non gli
spezzava la faccia in due. Ne avrebbe spiluccato arilli di anonima roba di sangue e pelle raggrumata. Grugnì
più convinto, e nell’esasperazione produsse una riflessione fulminea: a Kiy non importa nulla di niente, gira
convinto d’avere un cuore che non ha; si oppone a qualcosa solo per provocare, ovvero, si oppone a me. Da
non crederci!, scosse la testa Hr. Si decise ad alzarsi. Il corpo di tredici anni o forse duecentomila della
donna che gli stava accanto rotolò impassibile via dal suo fianco. Si tenne pronta a seguirlo, non come
un’ombra ma come un’allegoria della curiosità, di una curiosità sviluppatasi soltanto su un’isola. Vaffanculo
Kiy e le sue opinioni, giudicanti nel silenzio: queste qua, che hanno tredici anni o sono più vecchie di questo
mondo perché nate in un posto dove non si capiscono l’ora e la rotta nemmeno dal cielo, non sono capaci
di subire violenza. Pertanto non sono toccate da problemi morali e non possono toccare con questi. Solo
dita e gambe, tonde e lunghe, e unghie che fanno crescere brividi quando scavano minuscole cicatrici,
immediatamente rimarginate. Sulla soglia sentì la libido resuscitargli dentro, sentendo anche dietro sé lo
sguardo curioso della piccola donna che lo seguiva, spostandosi a sinistra e destra, sinistra e destra.
La notte fresca gridava eternità nei banchi d’umido vento che simili a sgombri viaggiavano sotto le fronde
vicine, smuovendole in un ritmo che sarebbe continuato fino all’ultima estinzione del buio. L’alba graduale
che avevano già visto, diverse volte, diverse notti svegli, in cui era scomparsa la necessità di dormire.
Dormivano nel corso della giornata, nei risposi dopo i banchetti, nei sonni storditi della sazietà e del riposo
che ricevevano fino a indurli a fabbricarsi da sé un intenso senso di soddisfazione, quasi credibile,
all’interno di un’estenuante ricerca. Trovava così una pausa, giorni di siesta, letarghi che parevano
attraversare intere stagioni in pochi fremiti delle ciglia catturate da inaccessibili processioni oniriche
dall’altra parte degli occhi, mentre la luce li velava con carezze melliflue, manipolatorie forse -ma in quel
torpore le membrane del sonno erano un guscio, e un guscio era piacevole, volontaria ed efficace ignoranza
dell’inganno. Ma contro il giorno, che avanzava a forza di respiri di sazietà e riposo, nella notte -solo nella
notte- perché era lunga, potevano uscir fuori altre parti di loro. Non sazie e non riposate. E di nuovo, ciò
che trascinava Hr sotto i banchi serpeggianti del vento e sotto la luna piena, enorme, con mille occhi a
cratere nel cielo e altri mille duplicati in un multiforme e gentile fremito della distanza acquatica, ciò che
rendeva le sue gambe simili a cani affamati sui percorsi già calpestati o ancora da percuotere coi tonfi
eccessivi dei piedi era ancora una volta proprio il mare. Giunse al suo confine, ancora. In piedi affianco a
uno scoglio, pericolosamente vicino alla riva in cui gli esseri non si bagnavano, spalancò le braccia e se
stesso rivolto alla distesa nera, sconfinata, profonda: ingrossò la sua figura e la oppose. Gridò, ruggì,
spalancò la gola con le pareti incrostate di sale microscopicamente cristallizzato esponendola alle fredde
sferzate dell’aria frizzante, incapace di vomitare altro che rumore, maestosa tortura di corde vocali. Il
malessere ingerito rimaneva nel suo organismo, ritentivo d’ogni minimo disperato elemento che sembrasse
colmare una sete di nervi. E il mare, riverberando infinitamente, senza mai tempestarsi laggiù, accoglieva
l’unico sfogo, l’unico sé nato da quel processo. Hr gridava e non si sentiva urlare. Su una roccia, la ragazza
seduta agitava alternativamente una gamba e l’altra, le mani tamburellanti ai lati. Il grido usciva e trovava
le onde.
Non sentiva -e non sentendolo non se lo chiedeva- ma non poteva sapere che solo lei e il mare sentivano e
ascoltavano quel grido. Nel cielo della notte, sotto l’influsso della luna tramutata in un glaciale titano
cosmico d’indifferenza dal pallore spettrale, perfino sterile di maree, il grido si disperdeva e finiva attutito
dai banchi di vento, nemmeno troppo compatti; nella tessitura profonda e fitta dell’umidità, che era il
respiro unisono d’ogni filo d’erba vicinissimo alla sabbia, e di tutti gli altri che conducevano al bosco. Tutto
respirava più forte e più fresco nella bellissima notte dell’isola, privata quasi di stelle da lastre lattiginose di
luce lunare. Formiche affondavano passi puntiformi in goccioline impercettibili del suolo. Passi d’altre
piccole creature inumidivano i tocchi delle dita. E un grido sorvolava confondendosi e cancellandosi,
rimanendo a rimbalzare tra gola e mare in un inconcludente ma appassionato ricircolo. Fu sovrastato in
ultimo dallo sgradevole strombazzare di una specie di uccello, lo stesso che l’aveva destato più volte dai