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L’intrico di paglie intrecciate geometricamente a formare i soffitti sembrava esercitare una pressione di
stringhe taglienti sulle palpebre rivolte all’insù nella penombra morbida dei giacigli. Si faceva visibile fin
nelle sue trame filiformi simili a fanoni di balena e imponeva una striatura anche al mondo interno e
teoricamente protetto dell’interno palpebra, un mondo che voleva essere una capanna assai più robusta di
quella esterna, una capanna dove recuperare un sonno fatto in realtà d’una perenne veglia di piaceri
stordenti: dentro le sue palpebre, nella capanna che aveva fatto per se stesso e costantemente rendeva
inespugnabile con fili spinati di berciante diffidenza e linguaggio sprezzante, vedeva vorticare in veli e danze
del ventre la voluttà, di reminiscenze o di qualsiasi cosa potesse reiterare l’oblio di quella sensazione. Nella
sua capanna, che si trovasse nell’abbraccio di bruni arti nudi, o ammantato soltanto dall’umidità dei
pavimenti delle capanne che senza avvisaglie e con rapidità spietata asserragliava in notti fosche come una
torma di coccodrilli di nebbia in unisona emersione da sotto i piedi, che fosse in mare o sull’isola, era solo,
per quanto rumorosa rendesse quella solitudine, per quanto seppellisse tutto quanto gli procurava dentro
un fastidio quasi lancinante come di denti che gli crescessero in punti del corpo che non avevano nulla in
comune con la bocca.
A un contorcimento di labbra e naso affidò l’espulsione di un grumo, composto per metà da un grugnito
significante un intero spettro di emozioni dal fastidio alla pulsione demolitrice, e per l’alta metà d’un muco
grigio. Una metà si sparse nell’aria e l’altra affondò con un tonfo appiccicoso sul confine tra il giaciglio,
nient’altro che un tappeto, e il nudo pavimento di terra battuta. La donna, con unghie e dimensioni d’un
folletto, si rannicchiò ancora, le ginocchia premute al suo petto e i piedi puntati al fianco di lui. Si limitò a
sollevare lo sguardo per un brevissimo istante d’interesse, subito evaporato, verso il flegma che ancora
parve ribollire d’odio per qualche secondo prima di disfarsi e lasciare soltanto una macchia dal fetore acido
sul suolo che da giorni aveva cominciato per la prima volta nella sua storia a conoscere i passi di un uomo,
di un estraneo.
Rimanendo sdraiato e intontito dalle trame del soffitto, giocava a sentire il mal di mare, rappresentato dalle
vacillazioni del mondo: con il sottomento gonfio appiccicato al sudore della base del collo e del petto,
cercava di sollevare la testa e osservare il suo sputo, e lei, e le rotonde gambe nude di lei. E la scena
diventava nausea visiva, si rimescolavano quelle paglie che, ci giurava, dovevano contenere un principio
ipnotico. Certamente dalla prima alba della terra e ogni giorno e ogni sera, il tetto impollinato dal sole o il
cerchio affannoso delle candele striavano e abbronzavano la pelle di quelle donne raggomitolate in una
semincoscienza gravida d’una lascivia per nulla intenzionata a dissipare i residui di sonnolenza con fretta
non necessaria. Ma pensare alle implicazioni rituali nella vita d’un popolo di donne che probabilmente
possedeva una sua religione, rimanendo isola ignara rispetto a un materialismo fondamentale proveniente
dal continente lontano e di cui era per ora il soldato più tenace tra tutti gli uomini che avesse conosciuto, gli
provocava nell’impetuoso arrossamento dei lombi nudi un pericoloso calo della libido. Allora rinunciò.
Si disse che sarebbe rimasto soltanto un po’ ancora a lasciar entrare grossi e contemplativi respiri nella
sacca rigonfia del suo ventre, luccicante alle candele. A sentire il filo del confine tra la pelle e l’aria, e quella
patina diaframmante lungo il sudore appiccicoso, prossimo a scomporsi in rugiada nella notte. Ma questi
momenti non potevano diventare ore, settimane. Quanto era passato? Si fosse trattato di una settimana,
allora, non ne sarebbero bastate altre cento per soddisfare gli impulsi che gli erano emersi dentro uno dopo
l’altro, una volta approdato lì con gli altri. E quanto alla notte? Non l’avrebbe sprecata in quel modo.
Doveva fare qualcosa. Un veleno salato gli corrodeva le vene. Usciva attraverso una moltitudine di
secrezioni. Gli altri, ovvero, le donne del villaggio, potevano toccarle, sentirle. Mandò un secondo grugnito:
gli venne in mente Kiy che aveva parlato, dopo esser stato accolto dalla regina e tutto il resto. Dopo che le
donne si erano avvicinate a loro. Dopo che una a lui spontaneamente (e perché dubitarne?? Perché non
posso dire cosa è spontaneo e cosa non lo è, in donne che non parlano, che si muovono e basta??) gli si era
accostata, e lui aveva esibito la prassi di risposte implicite ed esplicite incastrate in un singolo enigmatico
magnetismo di corteggiamento, Kiy, quasi mutando l’espressione malinconica, e tingendo quella
malinconia d’una contrizione da bestia da soma, gli aveva detto: avrà tredici anni. E lui per poco non gli
spezzava la faccia in due. Ne avrebbe spiluccato arilli di anonima roba di sangue e pelle raggrumata. Grugnì
più convinto, e nell’esasperazione produsse una riflessione fulminea: a Kiy non importa nulla di niente, gira
convinto d’avere un cuore che non ha; si oppone a qualcosa solo per provocare, ovvero, si oppone a me. Da
non crederci!, scosse la testa Hr. Si decise ad alzarsi. Il corpo di tredici anni o forse duecentomila della
donna che gli stava accanto rotolò impassibile via dal suo fianco. Si tenne pronta a seguirlo, non come
un’ombra ma come un’allegoria della curiosità, di una curiosità sviluppatasi soltanto su un’isola. Vaffanculo
Kiy e le sue opinioni, giudicanti nel silenzio: queste qua, che hanno tredici anni o sono più vecchie di questo
mondo perché nate in un posto dove non si capiscono l’ora e la rotta nemmeno dal cielo, non sono capaci
di subire violenza. Pertanto non sono toccate da problemi morali e non possono toccare con questi. Solo
dita e gambe, tonde e lunghe, e unghie che fanno crescere brividi quando scavano minuscole cicatrici,
immediatamente rimarginate. Sulla soglia sentì la libido resuscitargli dentro, sentendo anche dietro sé lo
sguardo curioso della piccola donna che lo seguiva, spostandosi a sinistra e destra, sinistra e destra.
La notte fresca gridava eternità nei banchi d’umido vento che simili a sgombri viaggiavano sotto le fronde
vicine, smuovendole in un ritmo che sarebbe continuato fino all’ultima estinzione del buio. L’alba graduale
che avevano già visto, diverse volte, diverse notti svegli, in cui era scomparsa la necessità di dormire.
Dormivano nel corso della giornata, nei risposi dopo i banchetti, nei sonni storditi della sazietà e del riposo
che ricevevano fino a indurli a fabbricarsi da sé un intenso senso di soddisfazione, quasi credibile,
all’interno di un’estenuante ricerca. Trovava così una pausa, giorni di siesta, letarghi che parevano
attraversare intere stagioni in pochi fremiti delle ciglia catturate da inaccessibili processioni oniriche
dall’altra parte degli occhi, mentre la luce li velava con carezze melliflue, manipolatorie forse -ma in quel
torpore le membrane del sonno erano un guscio, e un guscio era piacevole, volontaria ed efficace ignoranza
dell’inganno. Ma contro il giorno, che avanzava a forza di respiri di sazietà e riposo, nella notte -solo nella
notte- perché era lunga, potevano uscir fuori altre parti di loro. Non sazie e non riposate. E di nuovo, ciò
che trascinava Hr sotto i banchi serpeggianti del vento e sotto la luna piena, enorme, con mille occhi a
cratere nel cielo e altri mille duplicati in un multiforme e gentile fremito della distanza acquatica, ciò che
rendeva le sue gambe simili a cani affamati sui percorsi già calpestati o ancora da percuotere coi tonfi
eccessivi dei piedi era ancora una volta proprio il mare. Giunse al suo confine, ancora. In piedi affianco a
uno scoglio, pericolosamente vicino alla riva in cui gli esseri non si bagnavano, spalancò le braccia e se
stesso rivolto alla distesa nera, sconfinata, profonda: ingrossò la sua figura e la oppose. Gridò, ruggì,
spalancò la gola con le pareti incrostate di sale microscopicamente cristallizzato esponendola alle fredde
sferzate dell’aria frizzante, incapace di vomitare altro che rumore, maestosa tortura di corde vocali. Il
malessere ingerito rimaneva nel suo organismo, ritentivo d’ogni minimo disperato elemento che sembrasse
colmare una sete di nervi. E il mare, riverberando infinitamente, senza mai tempestarsi laggiù, accoglieva
l’unico sfogo, l’unico sé nato da quel processo. Hr gridava e non si sentiva urlare. Su una roccia, la ragazza
seduta agitava alternativamente una gamba e l’altra, le mani tamburellanti ai lati. Il grido usciva e trovava
le onde.
Non sentiva -e non sentendolo non se lo chiedeva- ma non poteva sapere che solo lei e il mare sentivano e
ascoltavano quel grido. Nel cielo della notte, sotto l’influsso della luna tramutata in un glaciale titano
cosmico d’indifferenza dal pallore spettrale, perfino sterile di maree, il grido si disperdeva e finiva attutito
dai banchi di vento, nemmeno troppo compatti; nella tessitura profonda e fitta dell’umidità, che era il
respiro unisono d’ogni filo d’erba vicinissimo alla sabbia, e di tutti gli altri che conducevano al bosco. Tutto
respirava più forte e più fresco nella bellissima notte dell’isola, privata quasi di stelle da lastre lattiginose di
luce lunare. Formiche affondavano passi puntiformi in goccioline impercettibili del suolo. Passi d’altre
piccole creature inumidivano i tocchi delle dita. E un grido sorvolava confondendosi e cancellandosi,
rimanendo a rimbalzare tra gola e mare in un inconcludente ma appassionato ricircolo. Fu sovrastato in
ultimo dallo sgradevole strombazzare di una specie di uccello, lo stesso che l’aveva destato più volte dai
brevi frammentari riposi che avevano spezzato il ritmo di molte notti ormai, senza mai eguagliare i torpidi
burroni in cui precipitava sotto la tirannia illuminata del sole. Uno sgradevole e goffo raglio, una specie di
sula che era diventata uccello notturno. Tutti i gridi e tutti i rumori divennero camminatori inetti sulla
terraferma, ostacolati da piedi enormemente palmati. Tutto divenne squallido -come è sempre stato e deve
continuare a essere-, aggiunse Hr, per come poteva aggiungerlo in un vuoto di parola e pensiero. Lì nudo
orinò al cielo e alle onde del mare sulla battigia, che gli restituirono un miscuglio delle reciproche schiume,
caldo sulle dita dei piedi. Si voltò e prese la ragazza per un braccio, dicendole così di voler andare in un altro
punto a contatto col mare, di condurlo su un’altra spiaggia e bere il vino che producevano, e insieme
produrre sulla sabbia viscidi rumori strofinando l’incredibile squilibrio dei loro corpi.
.
-cos’è stato?
Si alzò di scatto, contro i suoi naturali impulsi e contro i suoi principi. Lei gli mise allora una mano sul petto,
una mano chiara che si scontornava appena nel buio. Una cosa viva e respirante appena.
-stai calmo… ecco. Qui ci sei tu. Dietro questa parete. E tu non vuoi perdere il tuo controllo.
Aveva ragione. Non voleva. Kiy inghiottì la saliva, sentì il crasso gracidio della glottide. Poi tutti i rumori
tornarono ad attutirsi nelle pareti invisibili dentro i suoi padiglioni auricolari, come sarebbe sempre dovuto
essere.
-credevo di aver sentito un rumore. Un rumore non di qui.
-ma certo.-, lo accarezzò ancora la regina. Sembrava contenta di assistere al processo in cui ritornava, al
tempo stesso, rigido e stanco ben oltre i limiti della mollezza. C’erano in lui l’abbandono di un fisico
incapace di adoperarsi, e la fermezza che lo fortificava basandosi soltanto sull’immobilità di questo
principio, e di molti altri limiti. C’erano nella barba e nel suo baluginio di pelame lucido che mescolava a
quello degli occhi, entrambi flebili nella notte tra bagliori distanti e occhi veloci di pipistrelli e insetti, la
fermezza della sua “scelta”. La vita gli aveva rovesciato addosso imprevedibilità, sgradevolezze massime,
nel modo in cui non si può decidere cosa le onde restituiscono alla riva; ma lui aveva deciso, in un
imperturbabile e altissimo silenzio simile a un faro alto come il cielo a perforare una nebbia da fine del
mondo, aveva scelto e subito reso inconsapevole la scelta -così da fortificarla e inciderla nei più irreversibili
automatismi- del modo in cui avrebbe interpretato questa realtà. Vivere come viveva, soffrire come
soffriva, solo ed esclusivamente in quel modo, mai lontano dai contorcimenti più ingarbugliati di una
mappa di regole interiori: era così che raggiungeva certi posti. Otteneva accessi.
Qualcosa si era mosso nella notte. Oltre gli alberi che si agitavano. E il vento cominciava a sollevarsi, nella
notte fonda, caricandosi di nuovi sali che cominciavano la loro millenaria sintetizzazione sotto i bagliori più
misteriosi della luna. Bella, potentissima. Mia regina, diceva qualcuno in silenzio.
-tu sai che era il tuo amico, vero?
Alla regina piaceva parlare con lui. Lo facevano, ogni tanto. In quelle notti lunghe, che da tempo li avevano
chiusi in un incantesimo. A lei piaceva parlare nella notte con l’unico che ne sentiva la fine imminente,
costantemente, erroneamente. Anche quando era lontana da finire, anche quando, la prima sera del loro
arrivo, il sole era appena tramontato. Kiy vedeva se stesso -e non sapeva più dire se fosse da quel giorno di
tempesta e morte, con rinnovata intensità, o da tutta la vita- come uno che sa scorgere meglio le fini che gli
inizi. Nel buio dell’inizio di quella notte aveva annaspato, era emerso da un sobbalzo del torace che la
regina gli massaggiava, delicatamente, senza che lui se n’accorgesse, senza nemmeno che gli altri suoi sensi
indipendenti dall’attenzione captassero un simbolo in quel gesto. Sotto la mano di lei, come fosse cosparsa
di vibrisse ricettive a ogni fenomeno di movimento vicino e lontano, scorrevano tangibili le correnti
ascensionali del fiatone che espettorava in quei pochi e strani momenti di inspiegabile affanno.
-..il… mio amico?
-e sai anche che domattina avrà dimenticato tutto quello che ha fatto e detto.
-..stiamo venendo stregati, vero?
La regina rise. Qualcosa si mosse, di nuovo. Ombre, ombre minuscole che rispondevano a certe vibrazioni
indigene. Era lei a comandarle? Doveva pur essere regina di qualcosa. Non di un popolo, di donne senza
madri e senza padri, o della loro lingua usata per leccarsi ferire, confortare animi spossati da una
stanchezza connaturata al possesso di un’unità di corpo e mente e senza legami col mondo. Nemmeno
regina di cerimonie reiterate. Regina invece di sommovimenti d’ombra, passetti e fruscii, risacca. Quando
rideva allora qualcosa nell’aria tintinnava. Per pochi istanti una mezzaluna di denti tagliò l’aria, e lui
condusse due occhi-falena su quel luccichio. E vide per poco, dritto in faccia, il volto che dava nome e
sembianza alla regina.
La forma che lei assume per te, per farsi capire da te, per dare un messaggio a noi.
-voi uomini del mare amate parlare di queste cose, vero? Stregati… anche se non vi biasimo.
Lei non biasima nessuno.
-ci sono stati altri uomini del mare?
-attento. Tu non vuoi drizzare le orecchie, non vuoi che dei sobbalzi incontrollabili quanto poco percettibili
si impadroniscano della tua testa, della pelle della faccia, e attorno alle orecchie. Non vuoi mostrarti
interessato.
-..non capisco.-, mentì Kiy.
-neanche io.-, mentì la regina, di nuovo ridendo. Amava conoscere un uomo venuto dal mare incappato in
una malattia diversa da quelle che colpivano gli equipaggi. Cercava e rifiutava la sua identità in un continuo
tirar di fune, una lenza a pesca nel vuoto. Questa era una malattia che più di ogni altra poteva indebolire le
mani toste di un marinaio. E quando colpiva, non era possibile non capire certe cose. Non quelle, le uniche
di cui lei parlava.
Sotto l’ombra, indistinta nella tenebra, di un boschetto sacro alle donne dell’isola, continuarono per un po’
ancora a giocare a mentirsi, come due bambini incantati dal cielo notturno. La notte brillava in più punti, la
luna si allontanava, enorme sul mare. Che apriva sulla sua superficie un occhio uguale, una luna cetacea
subacquea, inafferrabile in questo e in quell’altro mondo. Kiy non conosceva la sacralità del luogo. Poteva
solo inavvertitamente respirarla coi pori della pelle, quando forme fumose assimilabili a fibre raminghe di
tarassaco, rifulgenti nel farsi attraversare da impalpabili residui respiratori d’ormai estinti fuochifatui,
circolavano e scomparivano attorno a loro con delicatezza, come un concerto di lucciole. E c’era perfino
qualche sparuta lucciola vera, nella sera insolitamente umida.
Così, Hr, qualunque cosa facesse, l’avrebbe dimenticato la mattina seguente. Kiy da un po’ aveva capito che
c’erano delle giornate in cui questo accadeva. Qualcosa non andava, e ne restavano orme, orme innocue
sulla spiaggia. Hr e Dii non preoccupati, indifferenti, ubriachi forse di quelle sieste o di qualcos’altro. Lui lo
sentiva, e il sentire gli faceva capire, solo in certi momenti della veglia, che aveva degli organi interni per
qualche motivo non ignari di quanto di disarmonico accadesse in un mondo, in un sistema, in un apparato -
dolori momentanei. E aveva accettato con rispettoso silenzio. Ma rimaneva un vuoto fastidioso, una
disarmonia da qualche parte non colta. Lei gliel’aveva detto, in una notte intima di loro strani discontinui
discorsi: c’erano notti nel corso delle quali, prima d’arrivare al giorno, questa amnesia accadeva.
-il tuo amico questa notte apre il suo cuore a una donna, e lei lo ascolta. E lui dimentica. Lei no, non ha
bisogno di dimenticare: non può parlare altro che del presente. Mantiene segreti meglio di qualsiasi
creatura, così direste voi.
Kiy scosse la testa. Hr non poteva aprire il suo cuore, Hr era sgradevole.
-che c’è?
Scosse la testa.
-tu non ti fidi del tuo amico, vero? E pensi a lui in un modo di cui tu stesso diresti “è male”.
Kiy non seppe che rispondere. Il rumore che per primo lo aveva destato era stato forse un grido di Hr,
irruento come una pantera balzata dalle fronde vicino alle loro, molto lontane anche dalla capanna più
vicina e in cui, in silenzio e guardandosi negli occhi e all’insaputa del creato, avevano conversato
segretamente e concluso nulla.
Continuarono, una parola in pochi istanti, separati da mari interi. Mari neri. Il mare nero soffiava, cantava
nella risacca. Attutito, azzerato, un grido simbolico. E padre di mille altri gridi simbolici che dovevano
lanciarsi in quel momento contro le rive di tutto il mondo. Un uccello notturno, una sula deforme del buio,
faceva strozzare dal gozzo rumoroso il suo goffo e lugubre pianto.
Sedevano sotto il boschetto sacro, con le dita che si sfioravano poggiandosi al confine tra erba e spiaggia.
Senza rumore e strisciando come nettare opaco, la notte si muoveva alta nel cielo, retrocedendo, facendo
rotolare la luna giù, verso le profondità.