Ma, fermo a mezz’aria in volo come se fluttuasse piuttosto che volare, si volta con guizzo da fantasma,
sovrapponendo la fulminea visione del volto brutto e sconcertante (arpia!, griderebbe l’uomo) a quella
delle penne caudali. L’uccello è diventato grigio e nero, sfumature e macchie di presagi si sparpagliano a
marroncina lentiggine tra le caudali, le remiganti e la linea del dorso, per poi sprofondare nella tinta di base
scura come una gola montana ogni qualvolta la luce dentro quel mondo di nuvole viene ostruita da
qualcosa -nuvole fluttuano sopra altre nuvole, consimili ma d’ordine superiore. E allora non rimane altro
che seguire quell’uccello, la testa ancora sconvolta dalla faccia apparsa e scomparsa. Barbigli, barbe nere
aguzze a spunzoni fanno corolla inanellando il becco protuberante dal cranio piumato in modo osceno,
come un pugnale metallico, un arrogante membro. E occhi diventati neri, all’improvviso. Sono gli stessi,
indubbiamente. Sono,… due? E anche ammettendolo, nonostante questo rimane impossibile credere fino
in fondo nell’assenza d’un altro esemplare, l’altro occhio che era apparso all’inizio, alla genesi. Potrebbe
essere già volato via, lassù, lontano.
L’uomo cammina già, seguendo il volo radente dell’uccello, totalmente capace di controllare la sua
fluttuazione a piacimento, un dio della sospensione. Cammina già ma volge lo sguardo all’orizzonte
circostante: oltre il rialzamento naturale del suolo, modellato da sconvolgimenti del profondo, si respira
l’altitudine che cala in masse d’ossigeno rarefatto dalle frastagliate e violacee forme di montagne
imponenti, tutt’intorno al visibile, a guardia del prato d’alta quota. E nel cielo sbiancato che precipita nelle
loro gole, sui contorni e al di sopra, fin dove il chiarore non si fa lancinante e permette ancora di vedere,
volano lontanissimi punti scuri. Altri uccelli, ma non è detto. Quassù potrebbero anche volare serpenti, cose
lucertolesche, e forse appartengono a loro quelle sibilanti e rauche grida. Echeggiano, il suono riesce a
giungere sui prati della vetta. Impiegando chissà quanti anni.
Virate dell’uccello ingiungono di non porre domande. Fremito di penne, significa: abbi coraggio e getta i
residui di meccanicistico impulso al conteggio che informa ogni più profonda fibra e vena blu cadaverico
dentro il tuo dito. Nella tua stessa pelle e nei tubicini gommosi dentro te, così fragili che il solo trascorrere
d’un istante basterebbe a spezzettarli, nei fluidi che ti pervadono… in ogni parte tu conservi millenni di
abitudini al calcolo, perfezionate, sigillate nelle sinapsi per erigervi muraglie simili a spire di immobili
dragoni che serbano sotto le squame un’irritazione cui proibiscono di fuoriuscire e liberarsi. Sei fatto di
catene. Sei l’unico che possiede queste cose, qui.
Queste cose. Queste cose. Queste cose. Conservare forma di corpo solo come simbolo, non c’è veramente.
Ma il simbolo si porta dietro molte cose superflue. Che appartengono alla cosa che simbolizza, la cosa che
in un certo altrove è detta “reale”. La cosa che quando marcisce viene beccata da nuvole intere d’uccelli,
scese appositamente dal cielo, e succhiata da larve di mosca che sono tante tenere bianche dita neonate
partorite dalla terra. Quanto accade invece su questa montagna, dove fantasmi piumati soffiano in te una
soggezione quasi vergognosa per il fatto d’avere un centro solido, è ciò che accade quando è l’entità
marcescente a salire incontro a dove stanno gli uccelli, senza attendere il momento del rito funebre della
loro discesa.
Succede che viene guidato. In cima a una scarpata. Fiori arancioni, fiori bianchi, fiori rosa. Un’ombra che si
profila. Non conosce, lui, gli animali di quelle parti, se non da leggende. Non vede un dio caprino, una capra
di montagna che con gli zoccoli sa scalare ogni cosa. Non un umanoide di legno e fronde e rocce aguzze.
Qualcosa che ha il ventre tormentato dalle aquile. Profumi alpestri che lacerano. No, non c’è niente da
lacerare: l’ombra è proiettata da un alto scheletro. Elegante, conserva una sinuosità che ispira rispetto nelle
ossa grigio-verdastre, evidentemente vecchie ma in qualche modo preservate dall’azione conservatrice di
una qualche fragranza d’unguento che è parte intrinseca del paesaggio, probabilmente sparsa dal naturale
respiro della vegetazione.
-ah.