5
Ci si dimenticava presto di molte cose. Come se diventasse possibile processare soltanto una cosa, o un
insieme ridotto, alla volta. Qualcosa che distraeva, disciolto e amalgamato all’aria. La producevano gli
alberi. Qualcosa che forse apparteneva a questi, una miscela dalle radici nel mondo circostante. Sempre più
a fondo nella foresta, sempre più intense certe singole impressioni, che finivano col riempire il mondo.
Ci sono foreste di questo mondo in cui è possibile ferirsi il naso con un odore, prese nota mentalmente Dii.
E non è una ferita piacevole. Nella natura nascono numerosi veleni e antidoti, controbilanciati in reciproca
perfezione. Un odore, a metà tra ammoniaca e arbusto aromatico simile a lavanda, viene trascinato in
flessuose e sottili frange dal venticello improvviso sotto un determinato tunnel di alberi. Tre uomini
estranei che si muovono in un’area segnata da fenomeni di questa specie, mentre tentano in fila di
mantenere la stessa andatura spedita di quella ragazza. Un velo di capelli viene tinto leopardato dalle
maculature delle chiome sovrastanti. Solo caviglie scalcianti che ondeggiano sotto il bordo di quel velo
soffice di chiaroscuri. Scompare la ferita, e per un po’ rimane solo la sensazione di fresco balsamo che si è
versata immediatamente al suo interno, inspiegabilmente per il medesimo pungente odore. E sparisce
anche la ferita, e per un po’ rimangono solo le caviglie che saltano. I granelli di terra sollevati. O quella
morbidezza dei capelli. Camminare dritti nella foresta per chissà quante ore come in discesa dentro un
tunnel immaginario temprava la concentrazione in percorsi univoci. Dii sentiva un senso alla volta. Sentiva
che la foresta lo rendeva placido. Pareva gli posizionasse in maniera non forzosa i passi all’interno delle
forme predisposte nel fogliame, così che in un secondo momento, quando fosse giunto il turno adeguato,
avrebbe potuto inalare dai pori della pianta del piede nudo le fragranze degli altri passi che avevano
calpestato quel punto. Pollini caduti, vita di funghi perlopiù nascosti, deiezioni di piccoli mammiferi. Spine e
residui cristallizzati di materia vegetale crepitavano spezzandosi contro la callosa e inscalfibile pianta del
piede di Dii, e si univa all’insieme frusciante di rumori che faceva pensare a tanti bisbigli segreti pronunciati
tra le ombre del folto per non alterare eccessivamente un certo silenzio naturale e sacro.
I rumori di Hr erano ansimare, erano i fracassi attutiti da muscoli e grasso dei vari dolori che andavano a
ficcarsi sotto trapunte di strati profondi per non farsi più sentire. Forse ci riuscivano. Camminava più veloce
di quanto gli facesse male il ventre, neanche stesse consapevolmente sfuggendo all’inseguimento da parte
di questo disagio. E nella foresta si vedevano poche cose alla volta, forse tutto faceva meno male. Si
strusciò su di lui la danza suadente di un vento odoroso, piscio di gatto e lavanda, una mistura
sorprendentemente lenitiva. Anzi, non era opportuno parlare di lenitivo: appoggiandosi ai tocchi freschi
della brezza si veniva sospinti in un territorio diverso, in cui non si poneva la necessità di medicarsi. Hr
pensava che in quello stesso luogo ci fosse il lato posteriore della ragazza, completamente nascosto dai
capelli. Forse non erano capelli, pensò. Forse si trattava di un copricapo speciale, intrecciato con maestria
artigiana soltanto dalle abitanti di quest’isola. Creature non umane, altrimenti se ne sarebbero accorti,
avrebbero percepito che c’erano i loro simili… era un po’ che pensava a capelli e copricapi, non era da lui:
era la foresta a pensare per lui. Molto a lungo su singoli desideri. Desiderava toccare i capelli, scostarli, e
vedeva nei seguenti minuti o forse ore coloro che, accasciate su rocce roventi in pose da sirena,
intessevano quelle fluenti trame. Desiderava toccare ciò che era sotto i capelli: la diversa consistenza del
fisico, nato e cresciuto di nutrimenti e luci solari che non è possibile conoscere, se non le si segue fino a
dove si generano. Dove un naufrago che geme nella disperazione lanciando dalla bocca lampi di fantasia
rivivificata prima della morte crede che risieda la loro essenza. Seguire la ragazza in fondo alla foresta.
Desiderava seguirla e allora tutti gli alberi insieme desideravano che lo desiderasse ancor più forte, e allora
con più decisione affondava le gambe nel suolo, lui che era il primo della fila. Hr desiderava una sola cosa
alla volta. Hr non ebbe nemmeno tempo, tra le tante cose singole che aveva da concupire
ininterrottamente per ore fino a sentire d’aver spremuto ogni succulenza, di pensare con disgusto che
quella foresta ti trasformava in un tipo come Kiy, con le sue fissazioni e monomanie.
Kiy in mezzo alla fila. Kiy con Dii dietro e Hr davanti, e una ragazza oppure un ammasso di colori particolari
filtrati di tanto in tanto, da movimenti irregolari, da tronchi distanti. Miraggio di selvaggina in fila tra i
bagliori di una foresta. Doveva aver “sognato” qualcosa del genere, ma non era convinto. Riusciva a sentire
un odore, come d’un prato d’alta quota, e riusciva perfino ad avvertire negli impatti delle caviglie gli
sporadici rialzamenti del terreno. Salite, fatiche del corpo, cose che dimenticava presto. E invece sognava,
intensamente, una cosa alla volta. Come fossero gli alberi a sostituire la sua mente, fino a quel momento
unica possibile madre e sovrana dei suoi contenuti. Anche lui come Hr sognava qualcosa che non era
possibile vedere se non sfrangendo una coltre. Capelli della foresta: il fogliame nascondeva il cielo. E Kiy
immaginava che dovesse essere il cielo del popolo della regina. Non c’era timore per l’autorità, per essersi
introdotto nel regno come intruso. Ma questo era: un regno di un luogo strano, in cui lui era finito per
cercare qualcosa. Un luogo che aveva cieli diversi. E allora immaginò che nel cielo s’aprissero incalcolabili
occhi, che con la linea infilzante dello sguardo incidevano mappe sulle schiene delle ragazze sedute sulle
spiagge, sui confini di quel mondo. Plasmava così le loro coscienze, il loro intero mondo.
La ragazza, un passo alla volta, agitava braccia e fianchi, senza mai far crollare quella fondamentale
indecisione tra paura e dovere rituale. Venite, venite a farvi uccidere. Era una formula, un modo di dire.
Essere uccisi uno alla volta, prima di poter proseguire. Era una delle regole dell’isola. Ma non era un’isola
speciale, non per lei. Era solo un’isola ch’era sempre stata sotto un cielo fatto in un certo modo. E allora
non si capiva più se il cielo era l’anima dell’isola o l’isola l’anima del cielo. Ma era un discorso complicato
che non le piaceva, preferiva altri tipi di discorsi complicati. E in ogni caso erano i tanti occhi dentro il cielo
ad aver detto che si dovesse fare così, e la regina lo sapeva meglio di tutte le altre.
La foresta diradava, diradava. Strani platani poco ravvicinati, si separavano formando due filari quasi
paralleli, una specie di viale cresciuto selvaticamente. Non c’erano popoli che conoscessero la silvicoltura,
nelle vicinanze. E anche ci fossero stati, le strutture che cominciavano a far capolino dietro quegli alberi
relativamente ordinati davano l’idea che su quell’isola, qualunque cosa fosse posta sotto le forzose
direttive d’una mano intenta alla razionalizzazione dell’ambiente circostante, si dirigeva intrinsecamente
verso un dissesto autonomo. Una confusione spontanea dell’intento originario, che finiva col confondersi.
L’ordine respirava un principio selvaggio, il caos era perfezione di regole. La foresta da sola diradava,
diradavano gli alberi che la componevano, creando spazi. In salita, gli uomini accompagnati da questa, da
tutti i capricci della conformazione terrestre, si sollevavano dal livello normale del suolo, cosparso di foglie
e cortecce di frutti. Marciavano silenziosamente, i passi attutiti dall’erba rada e cotonosa, su un
impercettibile pendio di prato abitato. Capanne messe in file caotiche come alberi. Gente che usciva dai
lati, dalle ombre delle pareti come se fossero lì collocate tutte le loro porte e i collegamenti con l’esterno.
Ammucchiamenti di paglia, malloppi di fibre dall’aspetto umido e compattato in tondeggianti tumuli dal
colore e consistenza di sabbia bagnata si disponevano attorno a un fascio d’assi centrali. Legno e qualcosa
di simile all’avorio. Zanne, alcune dritte alcune ricurve frammiste ai pali. Spuntavano dai tetti di steli
resistenti, quasi metallici. Se esisteva una stagione di venti e tempeste, quelle abitazioni -o templi, forse-
certamente conoscevano una stagione in cui periodicamente dovessero riaffermare la loro resistenza, una
natura di strutture senza eguali in tutto il territorio sottomesso dal terrore della bufera. Senza che per
questo, facendo un fondamentalismo delle proprie strutture inamovibili, diventassero montagne, e
irrigidissero il proprio superiore sdegno nei confronti di quanto ha fondamenta deboli. Erano anzi d’aspetto
che poteva apparire soffice, ma di indubbia forza. Corpi di donne, molti quasi del tutto denudati e coperti
da una indefinibile patina di pigmento offuscante, sembravano allora nascere spontaneamente dai fianchi
di queste case, figlie o proiezioni di una stessa forma vivente. Curiose sulla scena, tenevano le dita ben
avvinghiate alle poche parti più spigolose delle strutture, e sporgendo di poco avanti i busti si tendevano
verso quella che era diventata la strada centrale. La loro messaggera avanti, gli invasori dietro. Gli sguardi
attorno, occhi nocciola che sarebbe stato impossibile decifrare, o ricondurre a qualcosa.
Il cielo all’improvviso s’aprì vasto sopra le loro teste e ci piombò sopra come se fossero prima inconcepibili i
suoi spazi ariosi, dimenticati nella boscaglia che, pur non essendo fitta, doveva aver inoculato nei suoi alberi
una misteriosa proprietà d’attirare la penombra con più forza e ritenzione che altrove. E sotto l’azzurro che
faceva da cupola al villaggio la vegetazione appariva rimpicciolita, così che la foresta diventava soltanto
qualcosa che cingeva, uno spirito di presenza vaga, ma non ancora separato dal territorio. Più incorporeo di
prima. Avanzare nella foresta, uscire su una sua radura, era forse come avanzare nella storia, veder
scomparire progressivamente qualcosa che lascia sue vestigia nell’atmosfera, e in misura minore nella
materialità. Rocce, sassi. Steli che sembrano incise, ma no, sono solo disegnetti lineari. Qualcosa di meno
volgare di un linguaggio. Così penso Kiy all’improvviso, non comprendendo bene il significato del proprio
pensiero. Non possedeva un particolare odio per la scrittura né per la sua assenza. Ma in quest’isola era
forse spinto a comprendere il pensiero delle sue creature in questi termini. Rocce belle e purificate da
cuneiformi senza significato. Chissà se erano imparentate al masso che separava la via, che avevano
incontrato in spiaggia. E probabilmente con la stessa intensità d’intenzione, corroborata da un silenzio
minerale, univano anziché separare. Una vista dall’alto non avrebbe composto un disegno perfetto, ma
delle figure, fatte di punti, rocce specifiche. Unione nel villaggio. Vista dall’alto non ostruita da chiome.
Senza le chiome era scomparso l’impulso misterioso a sprofondare in cose singole, una per una, in piccoli
gruppi. L’ombra, vista ridotta la sua influenza, poteva al massimo sfiorare i passanti, ancora disposti in fila.
Non riusciva a imporre il suo dominio di percezioni atrofizzate. Tornavano a una primitività in cui era però
possibile recuperare certi elementi capaci di sconvolgere nel profondo, paure ed emozioni antiche come
genitori ancestrali. Recuperare, raccogliere ossa da impiegare nella costruzione delle colonne portanti così
ben visibili nelle costruzioni abitate dalle donne locali. Non sentivano però che quello fosse un villaggio
primitivo. Si limitava a nascondere in sé qualcosa che si caricava dello stesso mistero capace di far
sprofondare proprio delle cose antiche. E attraversando la via tra i filari, con i bordi di foresta distanti, e lo
spazio intermedio disseminato di case singole qua e là, qualcosa d’ancor più lontano, molto confuso nel
cielo, si profilava. Lo sguardo di una catena montuosa puntato alle vicende degli uomini, anzi delle donne,
le isolane. Difficile dire se fossero monti mitici o di dure rocce, di duri inverni mortali.
Per Hr c’erano molti sguardi da intercettare. Non sprofondava soltanto in uno, per brevi istanti si tuffava in
tutti. Se non avesse forzato un certo controllo su di sé, sarebbe diventato un assetato disperato, intento a
gettarsi indiscriminatamente in ogni pozza per cercare una cura alle membra languenti. Guizzava da un paio
d’occhi all’altro, cercandovi scintille: non scorgeva mai lucentezze nel fondo degli occhi nocciola, ma
avrebbe potuto trovarli belli. Non sapeva d’averne bisogno, e non si interessava della scoperta. Colori
paglierini di tetti e capelli si mescolavano mentre guardava le varie direzioni. Due teste spuntano, un lato e
l’altro d’una capanna. Paura, curiosità, indifferenza, studio, chi avrebbe potuto dare un nome a queste
cose? Qualcosa lo inquietò, equivalente fatto di sguardo del passo improvviso d’una minaccia tra i rami del
sottobosco. Allarmato scattò cercandone la fonte, e a mezz’aria arrestò il frenetico movimento, come
salvato al volo da qualcosa: capì che era lei, davanti a lui. Lo indirizzava, gli faceva seguire una linea simile al
sentiero di reliquie per ritrovare una via del ritorno a casa, o all’ormone di una madre seguita da cuccioli.
Guardava le spalle di lei, le immaginava sotto i capelli, ricordando quasi con nostalgia tutto quello che
aveva imparato in quella sensazione di perdercisi dentro che risaliva appena a… quando?
Quando, quando, dove, tempo e foresta, convinzioni dentro la foresta e fuori dalla foresta -così più o meno
pensava Kiy nel momento in cui si accorse che canti, cinguettii, gracchi dalle legioni degli uccelli avevano
cominciato a incrociarsi in musiche sempre più piene, sempre più vicine. Non se ne vedevano né sui rami né
sui tetti. C’erano, i loro colori affidati al suono, alla capacità di modularlo. Sapevano controllare un
elemento, e forse tutti gli elementi. Far strisciare il colore dal proprio interno e farlo confluire altrove,
affidarlo a delle vibrazioni: di questo era fatto il loro canto di seduzione, canto di vita lanciato spesso come
a voler ferire qualcosa, a ferire un istante inerte della giornata che non s’aspettava di veder sfregiato
dall’improvviso emergere d’una voce il cui solo scopo sia dire: ci sono, ci sono qua, in quest’assurdità,
l’assurdità chiamata io c’è. Kiy visualizzò il colore dentro sé, s’immaginò quale forma potesse assumere se
trasformato in piumaggio esterno, in vibrazioni, in melodie: Kiy provò a usare la stessa tecnica degli uccelli.
Nessuno udì niente, nessuno si voltò. Numerosissime ragazze guardavano un po’ dappertutto, e
guardavano loro, forse credendoli escrescenze diverse ma appartenenti a uno stesso gruppo unito,
esistenze identiche, corallo, colonia batterica.
Uscivano dai lati delle case. Tutte donne, venivano partorite da qualcosa che non aveva vita. Porticine in cui
entravano abbassandosi, quasi gattonando. Scomparivano, ricomparivano quando era necessario che
qualcuno entrasse o uscisse. Soltanto una casa, al centro del viale, presentava un ampio ingresso aperto a
bocca di caverna nella parte frontale al loro cammino. Dalla distanza vedevano la penombra appartata
lungo i bordi visibili della porta, e simile a un alone che circondasse l’alta figura della persona seduta
davanti all’ingresso. Sopra la sua testa, per un inganno prospettico di in un punto più a fondo dentro
l’abitazione, si gettava verso l’alto un corno, quello che probabilmente era il pilastro centrale della casa,
fatto d’un bianco osso capace di incorporare particelle fosforescenti rispetto all’oscurità circostante. Pareva
trafiggere centralmente e senza dolore il cranio di lei, e poi il tetto, e svettare dominante lassù. Forse nel
villaggio dell’ampia radura nella foresta, abitato da quelle donne che non sembravano umane, era tuttavia
condiviso un basilare principio che gli uomini estranei conoscevano molto bene: il tetto più alto è quello
della persona più alta, e la persona più alta è una persona che qualcuno chiama regina.
La regina è una persona che acconcia i suoi capelli, li controlla. Lacci, o altri capelli anneriti, cristallizzati in
coroncine rovose e crepitanti, coordinano le masse di ciocche in modo che assumano una certa forma
nell’aria sovrastante la fronte, per poi ricadere all’indietro e carezzare il dorso in una linea perfettamente
controllata di tende lisce e fruscianti. Le ondulazioni sono quasi assenti, smuovono solo lievemente il colore
biondo come a filtrarlo in una traballante coltre di calura. Le orecchie, visibili, s’appuntiscono e incurvano
all’indietro, dando alla fronte scoperta e alla forma affusolata del volto un aspetto aereodinamico. In
attesa, lo rivolge all’aria che penetra con lo sguardo come vedesse attraverso interessanti e gelidi cristalli,
riflettendo se stessa nella loro fascinosa indifferenza. Un solo cenno, intermittente, sembra un tic: lieve
inclinazione del volto. L’avvicina al dorso della mano lunga e quasi scheletrica, che si porta alle labbra, e
sembra leccare tre volte. La posa poi sul grembo. La risolleva, lecca tre volte. Fa ticchettare le unghie
perlacee, spaventosamente lunghe, sul sistema d’intrecci di corpi solidi simili a conchiglie e gemme
scolorite che le ricopre la maggior parte del corpo a sostituzione d’un vestito regale. Il sesso scoperto è solo
parzialmente ostruito da una conchiglia tagliata centralmente da uno schizzo verticale d’inchiostro, simile a
un occhio, e in un atteggiamento che ha qualcosa di teatrale calibra la distanza delle gambe in modo tale
che la scelta, estetica o rituale o comunicativa, non passi inosservata. La parte inferiore del corpo accoglie
l’espressività e l’emozione che si prosciugano in quella superiore, scendono attraverso arti e ventre,
trovano appendici capaci di dar loro sfogo. E per forza di cose si circondano di sfarzo, quello che nel mondo
degli uomini estranei è chiamato un “trono”: si aspettano di veder ossa della stessa specie di quel
prodigioso corno, con la punta ricurva minacciosa sul tetto, spuntare qua e là per cingere il sedile in
eleganti gabbie. Ghirlande di conchiglie e sassi sconosciuti calano dalla vita e ricoprono, cozzano forse
seguendo il ritmo dei volteggi della terra. Non si vede bene il trono, neanche una volta avvicinati. Sarà un
masso. Forse un masso importante, forse una specie di pozzo. Kiy immagina fiati segreti che aggregandosi
in geyser sotterranei si gettano dalle profondità della roccia verso l’alto per raggiungere lei, la invadono
entrandole nell’ano e nella vulva, recandole ispirazioni assemblate da laboriose vitree particelle in acque
del sottosuolo. Lei non è un mero ricettacolo: quella che vedono è solo la forma fisica di un pensiero
generato dall’isola stessa, da lei stessa che si fa uguale all’isola: tutto ciò che le accade e che accade intorno
è simbolo. È allegoria di una cosa che sogna conservando la capacità ingenua di sognare d’una creatura
umana che un tempo doveva esser stata.
Fu lì, in piedi e con le caviglie sfiorate dalle ombre dei suoi due compagni anche loro in piedi accanto a lui,
che Kiy ricevette per la seconda volta l’occhio dell’uccello, e con lui tutti i fantasmi trascinati dal suo mondo
oscuro.