Il cielo all’improvviso s’aprì vasto sopra le loro teste e ci piombò sopra come se fossero prima inconcepibili i
suoi spazi ariosi, dimenticati nella boscaglia che, pur non essendo fitta, doveva aver inoculato nei suoi alberi
una misteriosa proprietà d’attirare la penombra con più forza e ritenzione che altrove. E sotto l’azzurro che
faceva da cupola al villaggio la vegetazione appariva rimpicciolita, così che la foresta diventava soltanto
qualcosa che cingeva, uno spirito di presenza vaga, ma non ancora separato dal territorio. Più incorporeo di
prima. Avanzare nella foresta, uscire su una sua radura, era forse come avanzare nella storia, veder
scomparire progressivamente qualcosa che lascia sue vestigia nell’atmosfera, e in misura minore nella
materialità. Rocce, sassi. Steli che sembrano incise, ma no, sono solo disegnetti lineari. Qualcosa di meno
volgare di un linguaggio. Così penso Kiy all’improvviso, non comprendendo bene il significato del proprio
pensiero. Non possedeva un particolare odio per la scrittura né per la sua assenza. Ma in quest’isola era
forse spinto a comprendere il pensiero delle sue creature in questi termini. Rocce belle e purificate da
cuneiformi senza significato. Chissà se erano imparentate al masso che separava la via, che avevano
incontrato in spiaggia. E probabilmente con la stessa intensità d’intenzione, corroborata da un silenzio
minerale, univano anziché separare. Una vista dall’alto non avrebbe composto un disegno perfetto, ma
delle figure, fatte di punti, rocce specifiche. Unione nel villaggio. Vista dall’alto non ostruita da chiome.
Senza le chiome era scomparso l’impulso misterioso a sprofondare in cose singole, una per una, in piccoli
gruppi. L’ombra, vista ridotta la sua influenza, poteva al massimo sfiorare i passanti, ancora disposti in fila.
Non riusciva a imporre il suo dominio di percezioni atrofizzate. Tornavano a una primitività in cui era però
possibile recuperare certi elementi capaci di sconvolgere nel profondo, paure ed emozioni antiche come
genitori ancestrali. Recuperare, raccogliere ossa da impiegare nella costruzione delle colonne portanti così
ben visibili nelle costruzioni abitate dalle donne locali. Non sentivano però che quello fosse un villaggio
primitivo. Si limitava a nascondere in sé qualcosa che si caricava dello stesso mistero capace di far
sprofondare proprio delle cose antiche. E attraversando la via tra i filari, con i bordi di foresta distanti, e lo
spazio intermedio disseminato di case singole qua e là, qualcosa d’ancor più lontano, molto confuso nel
cielo, si profilava. Lo sguardo di una catena montuosa puntato alle vicende degli uomini, anzi delle donne,
le isolane. Difficile dire se fossero monti mitici o di dure rocce, di duri inverni mortali.
Per Hr c’erano molti sguardi da intercettare. Non sprofondava soltanto in uno, per brevi istanti si tuffava in
tutti. Se non avesse forzato un certo controllo su di sé, sarebbe diventato un assetato disperato, intento a
gettarsi indiscriminatamente in ogni pozza per cercare una cura alle membra languenti. Guizzava da un paio
d’occhi all’altro, cercandovi scintille: non scorgeva mai lucentezze nel fondo degli occhi nocciola, ma
avrebbe potuto trovarli belli. Non sapeva d’averne bisogno, e non si interessava della scoperta. Colori
paglierini di tetti e capelli si mescolavano mentre guardava le varie direzioni. Due teste spuntano, un lato e
l’altro d’una capanna. Paura, curiosità, indifferenza, studio, chi avrebbe potuto dare un nome a queste
cose? Qualcosa lo inquietò, equivalente fatto di sguardo del passo improvviso d’una minaccia tra i rami del
sottobosco. Allarmato scattò cercandone la fonte, e a mezz’aria arrestò il frenetico movimento, come
salvato al volo da qualcosa: capì che era lei, davanti a lui. Lo indirizzava, gli faceva seguire una linea simile al
sentiero di reliquie per ritrovare una via del ritorno a casa, o all’ormone di una madre seguita da cuccioli.
Guardava le spalle di lei, le immaginava sotto i capelli, ricordando quasi con nostalgia tutto quello che
aveva imparato in quella sensazione di perdercisi dentro che risaliva appena a… quando?
Quando, quando, dove, tempo e foresta, convinzioni dentro la foresta e fuori dalla foresta -così più o meno
pensava Kiy nel momento in cui si accorse che canti, cinguettii, gracchi dalle legioni degli uccelli avevano
cominciato a incrociarsi in musiche sempre più piene, sempre più vicine. Non se ne vedevano né sui rami né
sui tetti. C’erano, i loro colori affidati al suono, alla capacità di modularlo. Sapevano controllare un
elemento, e forse tutti gli elementi. Far strisciare il colore dal proprio interno e farlo confluire altrove,
affidarlo a delle vibrazioni: di questo era fatto il loro canto di seduzione, canto di vita lanciato spesso come
a voler ferire qualcosa, a ferire un istante inerte della giornata che non s’aspettava di veder sfregiato
dall’improvviso emergere d’una voce il cui solo scopo sia dire: ci sono, ci sono qua, in quest’assurdità,