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(pezzi di ninfa galleggiano in un magma di indistinzione opalescente. Una coda di pavone spiovente
adagiata su onde, uguale a cristallina armonia tracciata da rugiada che scivolando giù lungo trame vegetali
si sfrange e a da ciascun globo vitreo reciso spara raggi di luce, nuovi soli. Pezzi di regina si mescolano a
quel cielo blu e verde e giallo, quella coda, quella notte vasta: lei è una coscienza che smette di vedersi, pur
sapendosi esistente, lei affoga in una specie di mare. Io sono una regina e sono un’isola. Tutte sono isole.
Ma le altre isole, che sono a forma di pesce, che sono a forma di tartaruga di mare, da me vengono, e
chiedono che io pronunci delle parole che possano chiamare saggezza. Dovrei dischiudere un forziere
attorno al quale a lungo ho attorcigliato draghi di fondale, murene, re d’aringhe. Il mio petto è senza vita
mobile, il mio petto è non-vita furente: vulcani subacquei che mandano incandescenze fino alla superficie
lontana, placche -qualcosa che nessuno sa nominare, qualcosa che è numerosi giganti dormienti sotto i più
profondi strati della terra, e sposta i continenti, e decide quanti maremoti uccideranno gli esseri del giorno.
Loro vengono a me: annego in questo incanto, come isola, mentre divento le piume dell’uccello del cielo e
del mare che ha disteso la coda sul mondo, facendone un velo che una regina può vedere, in cui una regina
può entrare. Sono la casa reale dell’isola e le sue vene salate, sono l’isola, sono le acque intorno, sono i voli
alti nel cielo sopra, fino alle montagne, sono sui picchi la neve, l’acqua, dentro, falde, vene, sangue, sono un
bagno nel mio stesso sangue e a ciascun respiro ogni cosa vibra e avviluppa in suoni d’abisso come fossi in
gestazione dentro al cuore di una sirena che canta ininterrottamente. Un cuore di pesce, fatto di squame e
branchie. A volte ricoprono anche me. Se mi ferisco con le spine degli arbusti, nascono sul mio corpo altri
buchi da cui respirare. Se il sale graffia la pelle, facendone tessere cadenti, nasce su di me una livrea che mi
farebbe luccicare se m’inabissassi. Ma sono ancora una bestia di terra: mi accarezzo la faccia con una mano,
una zampa, per pulire gli occhi. Io sono i miei occhi mentre raccolgo con le mani, con gli artigli che nei
polpastrelli tengo nascosti, questa vanagloria di non aver gloria né nome né io. Perché coloro che mi
cercano e chiamano loro regina non vedono che sono come loro? E perché accetto che mi vedano così?
Queste domande nei miei occhi che diventano pesci che diventano alberi le conservo ancora, da un tempo
in cui me le ponevo, ero una creatura chiamata ragazza, una creatura che adesso è morta. Trovavo in
passeggiate di giorni di malinconia quasi tenebrosa, quasi generatrice di vere nubi sopra di me, segni su
spiagge e scogliere di devastazioni avvenute in nidi di sule, e i frammenti di uova, nidiacei, piume -ciascuna
una coda intera, ciascuna lo stesso cosmo di arabeschi di cui l’uccello integro è messaggero. Significa che
ogni essere chiamato ragazza, chiamato nidiaceo, chiamato uovo, chiamato individuo cresciuto, chiamato
ali che ora sanno volare, chiamato respiro palpitante che si vede sotto il gozzo anche quando è immobile,
chiamato pulsazione inspiegabile che continua nel petto, prima o poi si disintegra. Io sono regina e non
sono più là, io sono serena. Ma vengono da me a chiedere che dischiuda il forziere che dovrebbe esistere
nel mio petto, o nel mio cranio, in ciò che è visibile. Vengono da me, sia sorelle che figlie, e sono foche che
hanno timore del latte che le gonfia dentro, e sono pesci che non vedono l’acqua e non capiscono come
possa essere il loro respiro. Ho mani che possono accoglierle? Le vedranno, un giorno, aprirsi, enormi, sono
giganti di dita che un giorno sorgeranno spalancandosi sull’isola, corolle roteanti di carne per ricevere la
lenta cerimoniosa caduta del sole. Questa è profezia e rivelazione, l’unica per tutte loro, povere creature di
quest’isola. Non hanno che una speranza: vedere il giorno in cui il sole tramonterà per l’ultima volta,
vederlo diverso da come apparirà in tutti gli altri regni del mare. Perché la regina che ci sarà allora -io, una
mia discendente, ciò che divento quando credo che siamo la stessa cosa- esisterà per accogliere. La caduta,
la fine, e tutti i pianti che ci sarebbero stati nella fine, tutto bagnato dal fuoco. E grazie a questo, grazie al
sole che comodamente può entrare dentro lei, nelle sue mani di gigante sull’isola, nelle sue ferite, nelle sue
cavità, vedranno la fine come fosse nient’altro che un ultimo, bellissimo tramonto. È questo che sono per
loro? Un bellissimo mostro di leggenda? Una ragazza viene da me, no, viene dal mostro, che è l’isola stessa
che è il cielo stesso. Mi chiede qualcosa, anzi mi parla di qualcosa. Che accadrà. Oggi vengono tre uomini.
Noi li attendiamo.)
(sorella, madre, regina. Le tue mani un giorno si apriranno sull’isola per far addormentare il sole?)