-sì, sono passati di qua, e avranno fatto un fuoco. Ci siamo separati, ognuno percorre l’isola come vuole.
Non è detto che ci raggiungano alle grotte, e mangiano pasti diversi.
-sì. Oppure..-, bofonchiò Kiy. Credeva forse di non parlare ad alta voce. Dii e Hr si guardarono, il primo
impassibile e il secondo digrignante i denti in un tic circolare, costante, fatto solo per macinare secondi.
Oppure, pensava senza continuare a pronunciare, non erano stati i loro compagni a mangiare i pesci e
lasciarne uno lì a terra, a coprirsi di granelli dorati. Forse era stato un abitante dell’isola, di una specie che
s’era evoluta con mano prensile. Capace di infilzare una creatura catturata, sottratta alle onde, tenerla in
un equilibrio perfetto fino a diventare una cosa sola col bastone. Fino a sembrare naturale. Kiy vide che il
pesce non aveva un singolo morso, eppure era stato consumato. Non era una lisca, ma non era nemmeno
intero. Pareva che il corpo fosse dimagrito gravemente, o rimasto completamente privo di organi e fluidi
interni, un nucleo polposo risucchiato da una forza invisibile, di tracce discrete o quasi inesistenti. Solo il
cranio svuotato manifestava in maniera evidente come non fosse rimasto nulla dentro il pesce, nessuna
fonte di nutrimento, nulla che potesse far pensare che un tempo le pareti di pelle gommosa costituissero
un involucro attraversato da sangue e acqua, fluidi di vita.
Lasciarono dietro di loro, preda d’altri granelli dorati, anche quella fiaccola e la sua puzza di pescheria
bruciata, fumigante in alto come un segnale. I chicchi di sabbia che in masse quasi formicolanti, quasi
senzienti imperversavano sulle bruciature che un tempo erano state squame, alle prime ore del mattino
s’impregnavano di barlumi appena nati, entusiasti di spargersi ovunque, con zelo germinante di rinascita.
Sarebbe durato poco, la luce presto infiacchita, avrebbe solo incarnato la vuota apparenza della forza solare
nelle ore calde del mezzogiorno, priva d’anima. Tante cose si lasciavano già dietro, su pezzi di spiaggia ed
erba, in quella marcia d’un giorno.
Kiy voltandosi s’immaginò per un istante un felino selvatico dell’isola chino a nutrirsi del pesce lasciato lì.
Alzava la testa, e con brandelli tra le zanne, orribili a vedersi, gli rivolgeva un ghigno, palesemente nella
volontà di comunicargli qualcosa. In quel lampo era assomigliato, in qualcosa d’insolito all’illustrazione che
aveva visto una volta della manticora, bestia leggendaria dal volto umano. S’immaginò allora, senza farci
troppo caso, un veleno che si diffondeva dalla punta nera della coda, infettando perfino l’aria circostante e
coloro che la respiravano. Era già in circolo. Un’isola non tropicale, un’isola piuttosto blanda, con alberi
familiari. Ma anche un’isola del genere poteva essere maledetta, come insegnavano i miti deliranti, coliche
della ragione, concepiti nei tempi antichi di penisole e isole del mare vicino, il mare non esotico.
Lo scenario era ritornato simile a quello che era prima di scavalcare il promontorio nero. Quasi
indistinguibile. Quasi….
-magari ci muoiono pure, su quest’isola.-, disse Hr mentre camminavano, come da un giorno facevano, tra
spiaggia e foresta. Riferendosi ai compagni in giro di perlustrazione, per i punti cardinali dell’isola. Evitando
di ficcare loro tre in quel plurale. Ci teneva affinché il loro gruppo fosse separato da tutti gli altri.
I due lati si assomigliavano, certo: presto, come dicevano i disegni sulla mappa, sarebbero ricomparse
quelle insenature ricurve, a ripetizione, quelle sagome rientranti della costa. E allora avrebbero trovato le
grotte. C’era qualcosa di diverso? Un promontorio come quello non poteva limitarsi a essere una comune
escrescenza rocciosa. Semplice frutto di millenni di pazienza geologica. Azione d’acque, sali, pressioni,
agenti atmosferici… era troppo netto, troppo oscuro per essere semplice. Ma gli alberi, senza dubbio, erano
gli stessi. Dii li aveva osservati. Aveva concluso che erano della stessa famiglia dei platani. Tronchi chiari,
foglie però tendenti spesso al giallo, d’autunno perenne. Mancavano i tipici frutti avvolti in ricci vispi come
piccoli soli. Lasciavano invece cadere dai rami liscissime sfere lignee, noci che urtando il suolo s’aprivano
assumendo già, senza frapporre altri processi di vita e rigenerazione, la forma di cocce vuote. Frutti senza
frutto. Magari questi platani si riproducevano in maniere complicate, non immediatamente visibili. I tre
uomini non si erano consultati, non ne avevano bisogno. Sapevano che questi alberi potevano risultare
familiari per tutti e tre, e che tutti e tre, se avessero voluto, avrebbero potuto associar loro un nome, per