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Hr fece un sogno. La luna splendeva in un mare di perle liquefatte.
Per prima cosa al risveglio seppe immediatamente di doversi alzare e allontanare, per un’esigenza non
meglio specificata. Vomitare nell’acqua, orinare, bagnarsi i piedi… doveva intanto allontanarsi da lì.
Frettolosamente sistemò il contenuto della mente in modo da sistemare di riflesso il contenuto esterno,
intanto che cominciava a ricomparire, emergendo confusamente dalla sfuocatura e l’oscurità. La vista
recuperò quella poca marginale luminescenza, le scintille sotto i carboni dormienti, e la collegò a quei corpi
che si trovavano nelle vicinanze: riconobbe, ricoperta di tenebra, la sagoma di Dii che s’ingrassava del fiato
del sonno, privo d’immagini, completamente vuoto. Presto capì che le scintille residue del fuoco acceso col
kelp fatto disseccare sulle rocce, la cui puzza salmastra s’era impregnata nei vestiti, non servivano davvero.
La luce lunare intensa riusciva a proiettare ombre, sdoppiando gli uomini lì presenti, come intendesse
creare personaggi supplementari a imitazione dei vivi, trapiantati da un mondo di fantasmi. Hr per la prima
volta comprese che la luna non gli piaceva.
Si alzò lentamente, sentì i muscoli cigolare. Battendosi la sabbia dalle natiche si guardò ancora intorno: in
poche falcate avrebbe raggiunto comunque la spiaggia dal loro giaciglio privo di tetto -non avevano voluto
cercare una grotta o un letto tra gli alberi: conoscevano per istinto l’assenza di neve e pericoli. Superato il
costone di roccia su una salitella più accessibile, avevano scoperto che dall’altro lato la foresta dell’isola
allungava di molto il suo dominio, riducendo la spiaggia a niente più che uno strettissimo passaggio di
sabbia, collocato quasi all’altezza del culmine del rostro di roccia gettato a promontorio sul mare. Per
superarlo, l’avevano costeggiato come si fa con la parete di un labirinto, per tenersi in quel tratto di
vegetazione dal quale la sabbia distava pochi passi. Questo non aveva fatto altro che allungare il loro
percorso, costringendoli a fermarsi una notte imprevista. Continuando a camminare, si sarebbero solo persi
nella foresta -certo, priva di pericoli, belve o briganti o demoni, ma era meglio di no, era meglio non star
vicini agli alberi di notte. Si finiva per sentirli rantolare. Inoltre, stando alla mappa, per raggiungere le
caverne dovevano tenersi sulla linea della costa. La mappa… Hr riusciva a comprendere che non era quella
l’esigenza fisica da espletare per ritrovare la pace, ma per sicurezza sputò comunque, benché non ci fosse
nessuno a poter ammirare il suo sdegno, che funzionava meglio e più rumorosamente quando poteva
aggredire gli sguardi altrui. No, non era esatto credere d’essere inosservato: c’era la luna, e c’era l’idea
recondita, ma sempre presente, della possibile erroneità delle sue convinzioni materialiste. Divinità dei
navigatori, spettri isolani, e tanti diavoli di questa risma, magari c’erano. Quasi arrivava a desiderare,
proprio lui, che esistessero, soltanto perché potessero capire, nella spettacolarità mostruosa e trafitta dai
raggi lunari del rivolo di bava appena rigettato, con quanta intensità alimentasse il disprezzo nei loro
confronti.
Sotto quella terribile luna aveva perfino l’impressione di non riuscire a ricomporre i frammenti del tempo in
maniera da aiutarlo. Al contrario il tempo diventava un ostacolo: capiva che tutto era accaduto in pochi
secondi, dal suo risveglio, il recupero delle facoltà violate dal sogno, e il movimento che aveva cominciato;
allo stesso tempo, però, aveva avvertito tutto il logorante peso della formazione di tutti i processi in atto, e
questo aveva fatto sì che percepisse un’irreale distanza tra il momento in cui aveva avvertito l’esigenza
sconosciuta e quello in cui l’avrebbe dissipata. In sostanza, c’era la frenesia del ritmo veloce che gli rovinava
il risveglio, ma c’era anche la sensazione che per ottenere quella soddisfazione passassero ere invece che
mezzo minuto. In quest’annebbiamento, mentre faceva per voltare le spalle, barcollando, a quella radura
confinante tra spiaggia e foresta, riconobbe anche Kiy, addormentato nella posizione d’una bambola di
pezza lasciata da sola su una sedia. Difficile immaginare che dormisse davvero, ma ancor più difficile
immaginarlo sveglio, capace di cogliere rumori e avvenimenti. Hr con l’andatura distorta da qualcosa
d’indicibile prese a correre, per quanto riusciva, verso la spiaggia.
Il suo riflesso sulla superficie nera e schiumosa del mare si distruggeva e rimarginava a ripetizione mentre
con zampate voraci raccoglieva l’acqua in manciate, per gettarsela nella gola. Beveva a ripetizione acqua di
mare. E, per un paradosso che sperava di dimenticare presto, magari favorito da proprietà stordenti d’un
liquido che non era fatto per essere ingerito, percepì nei graffi dei cristalli di sale che scendendo gli
laceravano la gola una certa proprietà dissetante. Con movimenti bruschi e scriteriati d’animale esasperato,
opponeva tonfi e schizzi caotici al ritmo regolare e placido delle onde, le fracassava. La fradicia battigia di
cui s’era impiastricciato i quattro arti sparpagliati al suolo quando s’era tuffato in ginocchio sul confine tra il
mare e la terra, assorbendo la luce lunare, scintillava di misteriosi e fangosi riverberi argentei, ricordando
un enorme vomito di balena che s’era depositato su tutta una parte del mondo, e sul suo solo occupante.
Il rifiuto della luna e dei molti possibili incanti che minacciava di generare lo portò a credere che,
rifiutandosi anche di pensare per immagini, avrebbe costretto l’influenza lunare a ritirarsi, cancellando per
sempre quella notte. Non ci sarebbe mai stata, ed era stato il fatto d’essersi lasciati sopraffare dal buio ad
aver pasticciato il tempo. Ma era anche questo un pensiero troppo spettrale. I dolori di sale e acqua,
scorticanti dalla bocca fin dentro l’addome, risollevavano in lui una dopo l’altra le facoltà di linguaggio, e
approfittando della cosa si decise, per rimediare a tutto ciò, a pensare in frasi. Pensieri verbali per
schiacciare la notte di là dal mare. Per esempio, pensò che se avesse avuto un senso, avrebbe preso a
sputare anche la sua immagine riflessa. Ma per bere, per affondare le braccia, la infrangeva di continuo,
inoltre lo sputo non sarebbe diventato altro che un insignificante grumo di schiuma in un fiume di schiuma
che di continuo sostituiva se stessa, maledetta a lanciare per sempre un fischio d’ira a testimonianza di tale
destino. Sputare se stesso, i suoi sogni e i suoi ricordi. Per esempio, tornare indietro e sputare in ciascuna
delle caotiche impronte lasciate dalla sua corsa folle e barcollante.
Se avesse ingoiato altra acqua, sarebbe riuscito ad annegare stando sulla terraferma. Ma il dolore
segnalatogli dai ricettori interni al corpo era soltanto quello della ruvidità salina, tracce di contorni spigolosi
dei grani. L’acqua di mare era invece assorbita come miele dentro di lui. S’accasciò negli istanti successivi, in
ascolto: sentiva percosse dal torace, il suo fiatone; le onde, sempre le stesse; insetti notturni dietro di lui, e
forse perfino frammenti inafferrabili dei respiri dei compagni addormentati. Fili sottili in cui non avveniva
un vero scambio d’aria, non erano veri respiri ma solo un capriccio delle loro esistenze, ostentanti che
c’erano ancora. Al diavolo!, pensò, con pensieri di parole e non di immagini. Non si compose l’immagine del
diavolo, che aveva un volto. C’erano volti residui nella sua testa, riverberi di sogno che la somministrazione
autoimposta d’acqua salata cominciava però a decomporre, far arrugginire e sprofondare. Ultime tracce di
quei volti annasparono, diventando fiochi bagliori di luci portuali da segnalazione, ed erano disposte in un
cerchio conficcato nel cranio come doccioni draconici cingenti una cattedrale.
Hr pensò che “stava davvero da schifo, che peggio non si poteva”.
Poi lo prese una calma rara. Quasi lo metteva a disagio, perché la voleva estranea al suo carattere. Ma era
in ascolto dell’isola. Erano trascorse altre ore della notte, e non sentiva la mancanza del sonno. Come nei
giorni in cui tutti loro erano stati “malati”, in cerca di qualcosa. Senza però quell’inspiegabile senso di
terrore, annidato nel ventre. Presto sarebbe trascorsa la notte, per intero, e non avrebbero davvero
ricordato niente, come non ci fosse stata. E avrebbero continuato, verso qualcosa di cui non avevano
coscienza.
Non avevano coscienza ed era un sogno incosciente quello che inseguivano laggiù, temporaneamente
scomparsi da qualsiasi rotta, in un altro mondo. A perdere tempo e non ottenere nulla. Sapeva già che,
dissipata quella calma innaturale, lo stesso pensiero lo avrebbe fortemente irritato. Ma per il momento era
solo un rumore, frusciante e morbido al punto da sostituire il sonno vero e proprio, la chiusura delle
palpebre. Era un rumore, era lo scintillio che la forte luce perlacea produceva sfiorandogli quelle palpebre,
era il ticchettio crepitante di crosta dei passetti d’un granchio ricoperto di bava che s’aggirava
diagonalmente su un tappeto di conchiglie.
Presto avrebbe provato odio per tutto. Lo attendeva come altri attendevano il risveglio.
Uno come lui non avrebbe potuto sognare altro che ricordi, cose che aveva già visto, che aveva toccato e
che avevano toccato lui. Ma si augurava che non si ripetesse più. Quella calma giunta dal nulla, se da un
lato era aliena e meritevole d’estinzione peggio d’un morbo tropicale, dall’altro gli conferiva la certezza che
non sarebbe più successo. La sete anomala e le sue conseguenze avevano svuotato tutto il suo corpo di
certe sporcizie, non avrebbe più visto proiettata nella testa la scena di lui e Kiy, sudati e con gli abiti sporchi
qua e là di vomito e fango, seduti al tavolo d’una bettola. Il diavolo lì con loro, dall’altra parte del tavolo, il
diavolo barbuto di biondo e squame di pelle. A disegnargli mappe, raccontargli storie. Sognò di diverso dal
ricordo un cazzotto piantato in faccia a Kiy, nel momento in cui aveva abbandonato tutte le sue tipiche
esitazioni. Aveva accettato di farsi dire tutto quanto era noto sulla sabbia leggendaria, aveva partorito un
leader dentro di sé e gli aveva dato il timone. Dietro le cavità oculari di Hr s’annidava ancora, ultima a
morire, la penombra rischiarata di luridi arancioni da lanterna malavitosa che aveva colorato il mondo in
quel momento. E quel senso d’apprensione che aveva avuto guardando qualcuno che un tempo più
lontano, in rare circostanze, aveva dentro di sé chiamato “amico”.
Si soffiò il naso con la mano, gettò il muco sui sassi e le conchiglie. Il granchio ruotò chele e zampe per lo
spavento, un veleno sconosciuto l’aveva investito, la sostanza più appiccicosa che fosse comparsa in quella
porzione solitaria di pianeta. I passi di Hr tonfavano pesantemente allontanandosi dalla risacca, mentre la
notte di un’isola dal clima mite, piena di vita e al tempo stesso come completamente spoglia, precipitava
lentamente nei bordi nascosti dall’acqua e dagli alberi.
.
Dii sollevò alla luce l’oggetto di cui non erano riusciti a distinguere la forma. L’odore, come venisse bruciato
e intensificato per effetto dei raggi fino a sprigionare un sentore cadaverico, gli aggrediva le narici, l’intera
faccia. Assorta in un’espressione di studio. Aveva già distinto nel momento di raccogliere l’asticella del
bastoncino carbonizzato, più esplicativa della pagina d’un libro, il dorso e il ventre del pesce che
s’attorcigliavano alla parte terminale. Attorno alla lisca si disponeva ciò che rimaneva delle scaglie, e la
testa simile a cartapesta rattrappita s’adagiava svogliatamente, come a voler far colare il vuoto o
qualunque cosa fosse nelle orbite degli occhi, fori desolati su un volto inespressivo.
Strisce rossastre sembravano lasciare sul corpo parzialmente infilzato del pesce tracce del fuoco che
certamente l’aveva abbrustolito. L’asta gli percorreva il ventre con naturalezza. Kiy si avvicinò, con l’aria di
interessarsi all’odore. Notò che quella penetrazione di legno nero e caldo, spietato, nella carne molliccia
non gli trasmetteva alcuna immaginaria sensazione di dolore fisico. Sembrava una scena d’amore. Un
lembo di ventre, nei pressi della pinna anale, faceva sì che la parte posteriore del corpo si tenesse stabile, la
pelle sguisciante che inglobava senza resistenza l’oggetto penetrante; il corpo poi si liberava, abbracciando
il legno in spirali per un certo tratto, e tornava a farsi infilzare alla base della gola. Saldissimi, il pesce e il
bastone s’erano consumati insieme nello stesso fuoco. Rimanevano cinti in un odore unico, di cenere e
affumicatura, con un certo tono fastidioso come di marcescenza.
Dii passò il bastone a Hr con un gesto da portatore di torcia. Certo, quel pesce tinto di incandescenze sulle
poche scaglie ancora d’argento avrebbe fatto luce nelle loro camminate notturne, o all’interno delle
caverne una volta arrivati. Ma piuttosto, forse, Dii si chiedeva se per caso Hr non volesse assaggiarlo,
constatarne la commestibilità. Dii era stato pescatore, ed era stato uno di quei pescatori che sostengono
una specie singolare di rispetto per i pesci. Costoro si convincevano che una parte di questo rispetto
consistesse nel far mangiare agli affamati i corpi dei pesci lasciati incustoditi, prima che imputridissero o
fossero rubati da gabbiani già grassi. Ma non tutti riuscivano a crederci veramente.
Hr gettò l’offerta nell’istante in cui l’ebbe afferrata, senza la solita rabbia o disprezzo. Piuttosto, sembrava
disilluso.
-sì, sono passati di qua, e avranno fatto un fuoco. Ci siamo separati, ognuno percorre l’isola come vuole.
Non è detto che ci raggiungano alle grotte, e mangiano pasti diversi.
-sì. Oppure..-, bofonchiò Kiy. Credeva forse di non parlare ad alta voce. Dii e Hr si guardarono, il primo
impassibile e il secondo digrignante i denti in un tic circolare, costante, fatto solo per macinare secondi.
Oppure, pensava senza continuare a pronunciare, non erano stati i loro compagni a mangiare i pesci e
lasciarne uno lì a terra, a coprirsi di granelli dorati. Forse era stato un abitante dell’isola, di una specie che
s’era evoluta con mano prensile. Capace di infilzare una creatura catturata, sottratta alle onde, tenerla in
un equilibrio perfetto fino a diventare una cosa sola col bastone. Fino a sembrare naturale. Kiy vide che il
pesce non aveva un singolo morso, eppure era stato consumato. Non era una lisca, ma non era nemmeno
intero. Pareva che il corpo fosse dimagrito gravemente, o rimasto completamente privo di organi e fluidi
interni, un nucleo polposo risucchiato da una forza invisibile, di tracce discrete o quasi inesistenti. Solo il
cranio svuotato manifestava in maniera evidente come non fosse rimasto nulla dentro il pesce, nessuna
fonte di nutrimento, nulla che potesse far pensare che un tempo le pareti di pelle gommosa costituissero
un involucro attraversato da sangue e acqua, fluidi di vita.
Lasciarono dietro di loro, preda d’altri granelli dorati, anche quella fiaccola e la sua puzza di pescheria
bruciata, fumigante in alto come un segnale. I chicchi di sabbia che in masse quasi formicolanti, quasi
senzienti imperversavano sulle bruciature che un tempo erano state squame, alle prime ore del mattino
s’impregnavano di barlumi appena nati, entusiasti di spargersi ovunque, con zelo germinante di rinascita.
Sarebbe durato poco, la luce presto infiacchita, avrebbe solo incarnato la vuota apparenza della forza solare
nelle ore calde del mezzogiorno, priva d’anima. Tante cose si lasciavano già dietro, su pezzi di spiaggia ed
erba, in quella marcia d’un giorno.
Kiy voltandosi s’immaginò per un istante un felino selvatico dell’isola chino a nutrirsi del pesce lasciato lì.
Alzava la testa, e con brandelli tra le zanne, orribili a vedersi, gli rivolgeva un ghigno, palesemente nella
volontà di comunicargli qualcosa. In quel lampo era assomigliato, in qualcosa d’insolito all’illustrazione che
aveva visto una volta della manticora, bestia leggendaria dal volto umano. S’immaginò allora, senza farci
troppo caso, un veleno che si diffondeva dalla punta nera della coda, infettando perfino l’aria circostante e
coloro che la respiravano. Era già in circolo. Un’isola non tropicale, un’isola piuttosto blanda, con alberi
familiari. Ma anche un’isola del genere poteva essere maledetta, come insegnavano i miti deliranti, coliche
della ragione, concepiti nei tempi antichi di penisole e isole del mare vicino, il mare non esotico.
Lo scenario era ritornato simile a quello che era prima di scavalcare il promontorio nero. Quasi
indistinguibile. Quasi….
-magari ci muoiono pure, su quest’isola.-, disse Hr mentre camminavano, come da un giorno facevano, tra
spiaggia e foresta. Riferendosi ai compagni in giro di perlustrazione, per i punti cardinali dell’isola. Evitando
di ficcare loro tre in quel plurale. Ci teneva affinché il loro gruppo fosse separato da tutti gli altri.
I due lati si assomigliavano, certo: presto, come dicevano i disegni sulla mappa, sarebbero ricomparse
quelle insenature ricurve, a ripetizione, quelle sagome rientranti della costa. E allora avrebbero trovato le
grotte. C’era qualcosa di diverso? Un promontorio come quello non poteva limitarsi a essere una comune
escrescenza rocciosa. Semplice frutto di millenni di pazienza geologica. Azione d’acque, sali, pressioni,
agenti atmosferici… era troppo netto, troppo oscuro per essere semplice. Ma gli alberi, senza dubbio, erano
gli stessi. Dii li aveva osservati. Aveva concluso che erano della stessa famiglia dei platani. Tronchi chiari,
foglie però tendenti spesso al giallo, d’autunno perenne. Mancavano i tipici frutti avvolti in ricci vispi come
piccoli soli. Lasciavano invece cadere dai rami liscissime sfere lignee, noci che urtando il suolo s’aprivano
assumendo già, senza frapporre altri processi di vita e rigenerazione, la forma di cocce vuote. Frutti senza
frutto. Magari questi platani si riproducevano in maniere complicate, non immediatamente visibili. I tre
uomini non si erano consultati, non ne avevano bisogno. Sapevano che questi alberi potevano risultare
familiari per tutti e tre, e che tutti e tre, se avessero voluto, avrebbero potuto associar loro un nome, per
suggellare il patto di somiglianza con qualcosa che avevano già visto in un tempo differente. In viali
cittadini. Nelle campagne, platani dissolti attraverso la luce e lo strepitio di cavalli e carrozze nella strada tra
il paese e il porto, il pomeriggio di una prima partenza sgretolata in polveri d’un tempo irrecuperabile e
quasi irreale… comunque, non c’era niente di strano: molti marinai avevano fatto la stessa cosa, rinominare
servendosi d’un nome di qualcosa che, secondo le loro fantasie, continuava a esistere in una terra lontana
che avevano lasciato dietro. Questo assomigliava pericolosamente alla nostalgia che certi navigatori
materialisti contemporanei reputavano madre d’insidie, al pari dei fantasmi che infestavano funestamente
le vecchie canzoni.
Anche Kiy ebbe almeno un momento in cui i suoi pensieri, spontaneamente, si dedicarono all’immagine dei
platani. Continuavano, si ripetevano. Quante isole uguali avrebbero potuto riempire, formando uno
schermo omogeneo, simile più al delirio d’un pazzo che a un vero bosco? E chi, pazzo tra i pazzi, sarebbe
stato capace d’attraversarlo tutto? La chiave è nella foresta, pensò anche. La chiave è nella foresta, ma non
era altro che una frase mnemotecnica, un refrain di una qualche ballata cantabile per sentirsi meno piccoli
e soli nel fragore asserragliante delle onde nelle notti di tempesta. Spesso certe frasi non avevano
significato, e se ce l’avevano erano restie a rivelarlo. Il mondo era così: restio a rivelarsi. Altrimenti non
sarebbero state necessarie le chiavi. Altrimenti, non sarebbe stata necessaria una sabbia speciale,
tintinnante in un rumore mai sentito in nessuna clessidra del cosmo, per ricomporre i teschi, le teste degli
amici, le teste dei nemici, delle animosità e delle imperfezioni che erano scomparse, per mano di una morte
ancor più imperfetta e insensata, al punto da far rimpiangere l’imperfetta vita. Se il mondo non fosse stato
un antro ribollente d’enigmi, schermito da strati ostacolanti il significato, la sabbia sarebbe stata vicina,
sotto i piedi della spiaggia vicina al porto più vicino, e non in un’isola segnata da una sola mappa in tutto il
mondo. E quella sabbia vicina con semplicità l’avrebbero raccolta, messa in tasca, versata in anfore di
processi alchemici, perché ricomponessero i volti che qualcosa, d’enorme e inarrestabile e terribile e
maestoso, aveva cancellato. Ma navigavano in un mondo che non vuole gli inerti: a farlo girare sono quelli
con la convinzione, perseguono cose diverse mettendosi sulle navi, solcando tutti i mari, ognuno si sceglie
quello più appropriato a sé, ognuno sceglie l’isola che faccia da meta, che sia lontana, che abbia in sé un
tesoro, una spezia, un legname, una sirena, un tramonto immenso. Ma lui, era un inerte o un sognatore? E
quale degli oceani aveva il suo nome? Oceano Placido, pensò. Oceano Inerte, Oceano che non vuol più
vivere se prima non fa rivivere. La chiave è nella foresta, prima di morire devi generare la vita perduta, e
diventare padre. Frasi del genere si ripetevano, refrain, e nei momenti di più disperata immaginazione, Kiy
rivedeva la manticora mangiare il pesce. Sollevava le vibrisse, tormentate dai tocchi ripetuti della rossa
lingua saziata, ondeggiavano trasparenti rivelando sotto di loro ciò che rimaneva, una lisca spolpata. Poi,
Kiy vedeva subito la manticora morire di vecchiaia, davanti al pesce che era morto, che era consumato. Si
ricopriva anche lei di granelli dorati, come fosse imprigionata nel vetro d’una clessidra. Che accelerava: in
un lampo era priva di peli e pelle. Vedeva le ossa feline davanti alle ossa sottili del pesce, vedeva le ossa e il
cranio vuoto della bestia sprofondare velocemente nella sabbia, mentre in battiti di ciglia giorno e notte
s’accendevano e spegnevano a intermittenza e all’infinito sopra tutte le cose. Era una vita accelerata quella
che immaginava in queste visioni, più veloce di qualsiasi cosa potessero aver visto nei loro numerosi viaggi.
Qualcosa era diverso. Respiri di natura diversa imprigionati nell’atmosfera, da un lato e dall’altro.
Mettevano agitazione. I tre videro il primo stormo di uccelli non troppo distanti. Formazione bianca a V nel
cielo, come il loro passo diretta a sud. Piumaggio e battito d’ali di gabbiani, più grandi. Forse sconosciuti
uccelli palustri. Acque dolci magari rinfrescavano la parte più meridionale dell’isola, creando un’oasi. Non
segnata sulla mappa, come non erano segnate le trascurabili pozzanghere, inverdite e ingiallite dalle foglie
che vi cadevano dentro, usate per dissetarsi fino a quel momento (solo uno aveva bevuto l’acqua del mare.
Si toccava ripetutamente la zona dei reni. Ma si toccava ripetutamente in molte diverse parti del corpo,
l’aveva sempre fatto).
Hr era sempre stato al contempo nervoso e pienamente padrone di sé e di tutto, nell’unico paradosso che
concedeva all’immagine della sua persona poco avvezza alle insensatezze. Concessione dovuta forse al
fatto che non coglieva la contraddizione. Non coglieva nemmeno la contraddizione tra la destra e la sinistra
quando, nel suo misto di nervosismo e controllo, perlustrava ora il mare ora la foresta cercando qualcosa
che potesse confermare il cambiamento palpabile nell’aria, o dentro di sé -i reni tastati di continuo con una
mano ansiosa, intanto che continuava a guardare.
-c’è qualcosa!-, gridò. Dii si era voltato ancor prima di sentirlo.
Un fruscio tagliava il folto distante della foresta e fuoriusciva propagandosi tra le fronde, come il soffio
iracondo d’un serpente con la sua lingua biforcuta che si getta all’aria e poi si ritira, ripetutamente. Uno
scuotersi d’ombre finali, minacciose perché capaci di lacerare, e il rumore assunse una forma e si
manifestò, corporeo e avente peso, in una piccola radura visibile tra due gruppi irregolari di boscaglia.
Kiy notò che, forse, più o meno all’altezza di quella radura, dal lato della spiaggia le linee riprendevano a
frastagliarsi. Formando quei “3”. Ma ingoiò un fiotto amaro di bava, intuendo che dovevano attendere, che
non era lungo quei “3” che stavano andando. Occhi con pupille verticali lo sbeffeggiavano nel folto,
mimetizzati nel fogliame dei platani. O così credeva, perseguitava se stesso con forme conosciute. Già
diventate altre parti di se stesso, persecutrici.
Nella radura procedeva, i piccoli piedi veloci simili a radici senzienti, una ragazza di bassa statura,
completamente nuda. La luce che cominciava ad alzarsi verso il mezzogiorno faceva ondeggiare dentro sé il
respiro incessante della calura, che striava di tratti neri e fluidi il corpo dal colore bruno ligneo della
ragazza. L’addome rotondo un po’ sporgente, correva e arrestava la corsa, con le braccia sollevate all’aria e
agitate in una buffa e in qualche modo angosciante danza d’alghe. I capelli biondo paglia, spessi e ondulati,
l’avvolgevano in un’alcova stopposa, come fosse un’immagine santa intagliata nel corpo dell’equivalente
animale e mammifero d’una mandorla.
Impressioni feline ghignavano, o forse soltanto salutavano e chiedevano di seguire, circondando tutto il
mondo di Kiy.
Hr spalancò la bocca, come volesse ingoiare qualcosa. Dii era rimasto nella stessa posizione, procedente ma
in parte voltata verso destra. Pensava a specie di platano, pensieri disturbati da volti che comparivano nel
legno, levando voci acute e risate. Le cortecce schiudevano volti femminili e lo studio della vegetazione si
sporcava di fiaba e idillio.
-venite!-, gridò lei, boccheggiante. Sembrava aver svuotato il suo intero fiato in quella specie
d’avvertimento, carico d’ansia. Continuava a spalancare occhi e bocca, apparentemente terrorizzata dai tre
uomini, eppure abituata, come impegnata nell’esecuzione di gestualità rituali.
-venite, vi porterò dalla Regina, e la Regina vi ucciderà.
Hr era dietro lei, velocissimo a seguirla. Lei parve rimpicciolirsi quando fu investita dalla voce imponente di
Hr, così vicina.
-ci ucciderà?
-ah, scusa. Noi diciamo così, ma è soltanto un modo di dire. Quello che voglio dire, è che vuole vedervi.
Hr, quasi paralizzato, chiuse e aprì ad alternanza le labbra per qualche secondo, non sapendo che forma o
sillaba dare al proprio stupore, al proprio sospetto. Poi, incredibilmente, sorrise. La ragazza sembrò
disgustata da quel dispiego di denti, che si presentavano più numerosi del normale.
-ah, spero proprio che sia come dici! Hahahahah…-, rise cavernosamente, e continuò a seguirla con più
decisione nel folto della foresta, e con curiosità. Era ovvio, che proprio nella foresta c’era la regina ad
attenderli. Hr era cambiato in un attimo, accogliendo dentro sé un contorto entusiasmo estraneo, di cui era
impossibile leggere intenti e risvolti. Faceva pensare che fosse stato preso da un delirio del sole straniero, o
da un misto di distanza, solitudine, mancanza d’idee su dove andare. Trovava sfogo, sapendo dove andare:
dietro la ragazza, incontro alla regina.
Così, anche Kiy, che non conosceva ancora il modo in cui la sua volontà si sarebbe manifestata nel mondo,
dunque non sapendo se tutto ciò ne fosse parte, varcò la linea tracciata dalle ombre liminari. Vedeva
scurite dalla penombra le spalle e la schiena tarchiate di Hr che non si era posto questo problema. I capelli
chiari della ragazza spuntavano da davanti i fianchi dell’omone, e ondeggiavano a ritmo dei passi. Vedeva
un contrasto, quel colore puro, nutrito di sole e nettari di un’isola. E un arrossamento, che percepiva
appena, sui fianchi del suo compagno, intenso e visibile attraverso i vestiti e la pelle, un fuoco dentro gli
organi. Ma Kiy sapeva che certe cose poteva chiamarle “illusioni”. Ma non tutto di ciò che stava accadendo,
no. Kiy entrò nella foresta.
Dii, senza mai opporsi, teneva dietro. Si fermò però, esitante quasi in bilico, a ispezionare gli alberi prima di
invadere il loro reame. Di regine e principi lui non aveva mai capito niente. Nemmeno entravano nella sua
coscienza e gli suonavano anzi come nomi di mostri poco concreti appartenenti a certe strane fiabe diverse
da quelle con cui era cresciuto lui. Nella coscienza sua entravano altre nomenclature, piccole bandierine o
pinne che fuoriuscivano di tanto in tanto da una schiumante marea di dati d’altro genere. Consistenze,
strutture, intrichi, irregolarità, proprietà organolettiche, impressioni capaci di scavare nel profondo… tutto
questo poteva essere raccontato, per esempio, dagli alberi delle navi, o dagli alberi delle terre: ce n’erano
intorno, visibili e tangibili, in quantità che, almeno a lui, sembrava maggiore e più importante di quella di re
regine o qualunque cosa fossero. Tastò, sospettò, con le punte d’indice e medio, laminate da impronte
digitali come ruvidi musi di squalo, la corteccia del primo platano che s’era trovato sulla destra, nello spazio
che aveva scelto per passare dalla radura alle ombre.
-mh.-, disse. Poi entrò.