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-guarda. Sta stornando Dii.
Dii usciva da quella che avevano chiamato, senza decidere niente, “foresta”. Alberi piuttosto spogli, non
troppo vicini tra loro. Specie da frutteto, non raggiunge grandi altezze e non disegna ampie ombre. Più fitta
era l’erba alta che cresceva irregolare nei pressi delle radici e stormiva con biondi pennacchi
semitrasparenti per palesare e accogliere il vento nei corridoi tra i tronchi. Da quando avevano cominciato
a distinguere, pur con un certo senso d’irrealtà, varie forme sotto la luce del sole, avevano visto quegli
alberi ricoprire l’isola a perdita d’occhio. Cominciavano a spuntare già dalla più bassa peluria d’arbusti
spinosi e fragranti non appena i molti complessi sentieri a reticolo attorno alla spiaggia, solcati da chissà
cosa, cominciavano a prendere una leggera pendenza nel dilungarsi verso l’entroterra. Lì, presumibilmente,
c’era qualcosa. E nelle isole è sempre un ottimo segno, anche quando è un cattivo segno. Questa era una
regola che alcuni conoscevano bene, in maniera precisa e formulaica: l’avrebbero potuta ripetere in questo
modo, con un certo sforzo. Altri la conoscevano e non sarebbero mai stati in grado di farne una legge.
(Convinzione numero ***: un’isola è un luogo in cui si trova qualcosa. Anche se fosse il nulla, sarebbe
comunque qualcosa. Un nulla circondato dal mare è un qualcosa. Puoi andare a prenderlo e usalo per
accendere un fuoco. O per farci una zattera.)
Dii sarebbe stato in grado di trovare qualcosa. Occhi svegli e rapidi, testa funzionante, braccia ancor più
funzionanti. Era facile ricordarselo nell’atteggiamento mantenuto costante durante le notti di tempesta e
quelle di festa. E qualcuno ricordava alcuni discorsi uditi, chiacchiere sputate da gente di passaggio, che Dii
aveva ascoltato con apparente interesse, acquattato forse dall’altra parte della sua espressione talvolta
indecifrabile. Discorsi riguardanti molluschi che sono fatti in un certo modo, e non c’è niente da fare. Ci
sono quelli che le ventose le usano per attaccarsi agli scogli e quelli che invece ne fanno un esempio di
forza, da imporre al mondo, o ancora un esempio di intelligenza. Dii avrebbe anche potuto trovare un
punto di contatto tra la sua natura e quel discorso universale, premiante le capacità d’adattamento. In
realtà però era rimasto un po’ infastidito da quella tendenza ossessiva della “gente di mare” a produrre
massime servendosi soltanto di cose prese dal mare. A forza di pescarci non facevano che depredarlo,
anche farci l’amore, ed erano smancerie estranee al suo carattere. Voleva limitarsi a usare le braccia
indifferentemente in tutti i luoghi, così che tutto nel mondo diventasse della stessa maniera, che ci fosse la
costa vicina o che si trovasse nel cratere di un vulcano, nella pancia di un demone sconosciuto. Dii era in
una boscaglia, battezzata foresta, a sparpagliare con i movimenti dei quattro arti tutti interi, spessi e
abbronzati, le cose che la natura aveva lasciato a crescere e intrecciarsi reciprocamente. Convoluti nodi,
pareti fibrose. Avevano nel centro degli intrecci qualcosa di suadente ma quasi malvagio, e nel momento in
cui il passaggio indiscriminato attraverso il folto recideva gli intrecci, pareva che corresse sull’allungato
fogliame un grido, insieme di sofferenza e di godimento, tutto il godimento che s’era riversato nelle fibre in
una vita trascorsa a pascersi del sole. Dii passava, calpestava, trovava che nell’isola c’era “qualcosa”.
-ma che porta in braccio? Si muove.
Hr, il corpulento, scrocchiava i muscoli e si allungava, si faceva ombra con la mano, volendo superare i limiti
della propria vista. Dii si avvicinava senza fretta, con qualcosa che gli si agitava davanti al petto. Proiettava
un’ombra, ora tonda ora magra nel traballare dell’aria torrida, sul suolo che in fasce di confine mescolava
sabbia ed erba rada, incolore. Vederlo disegnarsi sul paesaggio, entro i confini del corpo solido e affidabile,
faceva chiedere a Kiy una domanda sciocca: ma chi è, che cos’è? Faceva sentire a Kiy la stessa cosa che
aveva sentito quando erano giunti, fuoriuscendo dalla nebbia solare di giorni irreali, a vedere l’isola e le sue
cose. Kiy a volte non distingueva più le nature diverse delle cose che erano vissute nel suo stesso tempo e
di quelle ancora sconosciute, perciò in un momento vide guardò Dii e la sua ombra come se fossero uguali a
un albero nuovo. Kiy, ovvero l’inerte, si ricordò attraverso, la forma incerta di quell’ombra, di quei stessi
discorsi da marinai che un tempo Dii aveva ascoltato, e aborrì il determinismo della natura e dei molluschi.
Aborrì la situazione: andare in giro per un’isola, come centinaia di altri prima di loro, a cercare giacimenti
d’un qualsiasi materiale (materiale isolano: da riverire, distruggere, idolatrare per farne una divinità.
Possibilità isolane). Era talmente stupido. Talmente insensato. Operazioni di sopravvivenza in cui tornavano
comode le capacità, la storia evolutiva. Tornava utile Dii che era nato mollusco con le braccia forti e
l’attenzione per i dettagli, le variazioni repentine dei paraggi.
-Dii, brutto figlio di puttana! Che ci dobbiamo fare con quello?
Dii portava in braccio un animale leggero, di stazza corrispondente allo spazio tracciato dalla curva delle
braccia protese a forma di cesta davanti al torace. A pochi passi dai suoi compagni si fermò, e la bestiola
smise di contorcersi. Con un balzo si gettò sulla sabbia sollevando nuvole marroni attorno ai quattro punti
quasi perfettamente verticali delle zampe, parevano toccar terra soltanto in una singola piccola particella di
pelo. Poi, invece di fuggire, si scostò leggermente dall’ombra delle gambe di Dii e si sedette, la coda
attorcigliata in una cintura serpentina alla base del corpo, a osservare indifferentemente loro tre e il mare,
o qualcosa d’invisibile nell’aria. Una specie di strano gatto selvatico. Gli occhi d’ambra circolavano sulle
cose senza curiosità o timore, il taglio verticale della pupilla ostentava quanto poco le importasse che lì
vicino ci fossero certe cose -vive o morte- anziché altre. Non provava, palesemente, alcuna paura nei
confronti degli esseri umani, e dava l’aria di non averli mai visti. Animale forte: cose mai viste non lo
spaventano.
-cos’è questo coso? Un gatto?
Dii annuì, senza pensarci troppo o accompagnare il gesto con espressioni superflue che potessero
deturpare la compiutezza d’un momento in cui si sta semplicemente dicendo: sì. Ignorando ciò che questo
sì significa. Kiy chinava la testa e si soffermava sulle vibrisse attraversate da riflessi d’argento. Kiy rimaneva
in trance, impossibile dire se esaminasse con intensità o se fosse in tutt’altro luogo.
-noi avevamo un gatto.-, disse Dii nel modo in cui si parla della forma di una nuvola.
-lo so che avevamo un gatto. C’eravamo.
Il felino ruotò il collo verso il rumore ruvido della voce di Hr, per poco gesticolante tra il meravigliato e
l’irritato, e immediatamente rinunciatario. Dii era quello che lo faceva arrabbiare di meno.
-hai visto, Kiy?-, fece inasprendo un po’ la voce -l’ha portato per te, non vedi?? Un bel giocattolo contro la
depressione.
-mi piaceva il gatto che avevamo.-, disse Dii con lo stesso tono. -i gatti sono molto utili in mare.
-sì, i gatti sono utili in mare. Infatti ne avevamo uno. Ma qua non siamo in mare, Dii.
-no?
-no.-, chiuse Hr, quasi a voler imitare il fragore delle onde nel modo in cui sapeva rimescolare il catarro per
fargli produrre fonemi.
Era simile a un normale gatto in molte caratteristiche, ma era inequivocabilmente rivestito da un’aura
selvaggia inafferrabile. Il fatto che non fuggisse, invece di farlo assomigliare a qualcosa d’addomesticato,
paradossalmente non faceva che intensificare quest’aura, che se osservata a lungo avrebbe generato un
sudore insistente, freddo, una specie di soggezione quasi reverenziale. Eppure, il volto sarebbe stato
proprio quello di un comune gatto, se spogliato di alcuni radi ciuffi discendenti dalla base delle orecchie un
-po’ più lunghe del normale- alla collottola, come a mantenere residui d’un vago ricordo di una criniera
preistorica, perduta nelle voragini del tempo. La pelliccia omogenea color foglia secca subito evocava i suoi
scatti striati nel sottobosco, lunghi agguati nell’intrico d’erbaccia dell’isola, da cui Dii l’aveva raccolto.
Soltanto in certi momenti la luce faceva emergere attorno alla gola e il petto sbiadite macchie selvatiche,
che davano così l’impressione d’esser vive. E sotto questa vita, vibrava tesissima una muscolatura
sviluppata, spesso elusivamente cancellata dall’agile sinuosità dei contorni.
Kiy se lo scavò nello sguardo. Kiy ricordava il gatto, il primo morto: un giorno l’aveva trovato sul ponte,
gonfio, il pelo grigio strappato in più punti. L’aveva visto gonfiarsi, aveva anticipato con la mente, in lampi
d’emicrania, una scena di gabbiani e corvi, punti neri e punti bianchi, che s’accalcavano attorno alla massa
lievitata per strappare lunghi e rossi fili di carne. Non ricordava se effettivamente era rimasto tanto a lungo
da vederla manifestarsi davanti a sé, corporea e puzzolente. Ma ricordava la schiuma bianca e il tonfo che
aveva visto spargersi di là dalla prua -qualcuno doveva aver gettato il gatto in mare quand’era ormai gonfio,
un funerale a un compagno d’oceano oppure semplicemente un natante ricoperto di pelo, senza più il
volto. Biancheggiò, sotto la vitrea trasparenza dei flutti spiacevolmente verdi, la pancia del gatto, simile a
una mollica spappolata, un attimo prima che i gas pestilenti dentro il corpo non lo sospingessero
nuovamente in superficie. Una palla, zampe morte alle estremità.
Kiy in quelle notti era sempre più spesso visitato da incubi molto intensi, e gli sembrava ogni volta che li
conoscesse da tempo. Accadde prima che vedesse la morte brutale di molti suoi compagni.
Comparvero delle nuvole, o così si sarebbe detto dalle ombre grandi che avevano cominciato a sorvolare le
chiome della foresta. Un flusso gregario le sospingeva in migrazione, e parevano dirigersi secondo una
volontà o legge incontrovertibile verso un punto che conoscevano, occultato nel profondo della
vegetazione. O forse erano solo le ombre a doversi dirigere verso quel posto, che fosse una radura segreta
o altro: le nuvole non erano altro che veicoli, mezzi che servivano a proiettare delle ombre, i veri ricettacoli
della loro coscienza. In ogni caso, gli uomini non alzarono gli sguardi al cielo. Sarebbe stato naturale farlo.
Sarebbe stata naturale la curiosità per tutto quanto era insolito, improvviso all’interno d’un ambiente
inesplorato, e in qualche modo sublime. Erano ombre grosse, veloci, un volo più svelto e rettilineo di
quanto potessero aver visto in tutte le formazioni aree di varie specie volatili che erano stati soliti seguire
per orientarsi. Perché non lo facessero, non si interessassero, non avrebbero saputo dirlo, ma davvero un
simile interesse non era minimamente nei loro pensieri in quel momento, che si trattasse di nubi o d’uccelli
nati soltanto nel cielo di quell’isola.
Guardandosi i piedi credevano d’appesantirli come se gli sguardi fossero incudini, e appesantendoli
facevano in modo che calcassero con più forza i solchi sul fazzoletto di spiaggia e prato morente. C’erano
impronte sull’isola, le loro. E un attimo dopo non erano più sicuri che fossero le loro.
Forse significava che se in quell’isola comparivano delle nuvole, non era affatto scontato che nascessero un
temporale o delle piogge. E da un cielo completamente limpido poteva da un momento all’altro cadere
pioggia nera, generatrice di notti improvvise.
“non significa niente!”, aveva detto Hr. In realtà non l’aveva detto: era soltanto Kiy a immaginarsi che lo
dicesse. Ma era un’imitazione del suono di quella voce così verosimile, e un insieme di parole maggiore
della somma delle sue parti… suonava carico allora di un’intensità, una greve disperazione in groppa ad aliti
d’aggressività e tartaro, come se provenisse davvero dal fondo di quel largo diaframma, spesso rauco,
palpitante d’ansia e nerbo in egual misura fino a ricordare uno strumento a fiato fatto di stomaci. Kiy aveva
sentito Hr dire così, intruso nella sua mente o forse inconsapevolmente invitato. Kiy aveva letto nelle parole
immaginarie di quella specie d’amico un timore, se non un presagio. Non si voleva che nulla potesse
significare qualcosa, da quelle parti. E chi fosse a volerlo, se lui, l’intruso, o una volontà segreta dell’isola,
manifestata da bestie e divinità locali, non riusciva a decifrarlo. C’erano esseri viventi su quell’isola. La voce
gli aveva scosso le orecchie con un trillo dettagliatamente vibrato, più che se dai rami sempre più vicini ai
loro fianchi destri fossero provenuti i gracchi istrionici di pappagalli, o d’altri esotici uccelli che si raccontava
esistessero su certi alberi di mare. No, non c’erano pappagalli, non era quel genere d’isola. Nemmeno altri
uccelli che si posassero a quell’ora del giorno, nelle loro vicinanze e sulle ombre passeggere delle nubi. Solo
un brusio lontano di quelli che forse erano loro canti, e canicola cicaleggiante, miraggi ondulatori traballanti
verso l’alto dal cuore lontano della foresta. Solo il silenzio che da solo riempiva se stesso di dialoghi,
composti di nulla.
-non voglio incontrare gli altri. Rimandiamo il momento in cui ci disturberemo a vicenda.-, disse un vero Hr
di carne, ossa, sporcizia sugli abiti logori e sulla superficie dei denti.
Dii aveva preso a guardare avanti a sé, in apparenza il più intenzionato a camminare, a fare quello che
stavano facendo tutti e tre. Tronchi liminari degli alberi, sempre più vicini. Ombre che avrebbero potuto
toccarli fuoriuscendo dai contorni del legno grigio, così da aggirarne i pilastri dritti e cilindrici in movimenti
di serpi nere. Invece si rivolgevano solo all’interno della foresta, riempendola di fruscii e penombra
ramificata, forse perché così doveva essere a quell’ora, con quella collocazione del sole nel cielo. Tre uomini
avevano avuto un mestiere e conoscevano gli astri, il loro interagire con le cose solide, le cose liquide. Ma
in quel momento non se ne interessavano. Nemmeno Dii, che ormai non si tratteneva più dallo scrutare
con attenzione, aveva più voglia di proseguire dentro certe domande. Chiedersi l’ora, l’orientamento, la
posizione delle ombre in quel momento, lo avrebbe soltanto confuso -così almeno sentiva. Invece, quello
che osservava più meticolosamente, quando alzava il collo dalle spalle tarchiate e lo faceva ruotare verso
destra, era la vicinanza progressiva ai tronchi, i loro dettagli, le forme che anticipavano gli odori. Quasi
secondo i metodi dei montanari. Il mare, alla loro sinistra, pareva produrre gli stessi scrosci, ritmici e
ripetitivi secondo uno stesso schema. Così erano i canti delle balene, così erano le preghiere, così erano le
ballate marinaresche, in cui un eroe che si sapeva morto tornava a rivivere all’inizio d’ogni strofa, per poter
essere memorizzato. Dall’altro lato l’isola cambiava tipo di canzoni, canzoni di suolo.
-non fare quella faccia.
Dii non aveva fatto nessuna faccia particolare. Non la fece nemmeno sentendosi dire così.
-lo sai che non parlo di te. Parlo degli altri e non parlo di noi tre. Noi continuiamo ad andare di qua. Non è
così, Kiy? Non è forse quello che dobbiamo fare, andare di qua? Dovunque sia. Oh, diccelo, profeta. Dicci
cos’è questo “qua”, dicci se andarci non è forse quello che dobbiamo fare.
Kiy sollevò a fatica le palpebre. Erano belli i solchi attorno alle sue orme. Curve di statue femminili, poste a
guardia di fontane. Visioni di un lontano passato. Forse a bordo di sfrenate fantasie scendevano infine lì,
erano presenze che giravano selvatiche sull’isola. Ma non si vedevano e invece, davanti a lui, voltato per
guardarlo, c’era Hr che aveva svuotato la sua espressione del solito colorito giallo, per sostituirlo con un
pallore che non segnalava spavento. Era un’espressione svuotata per poterci mettere qualcosa d’indistinto,
dall’astio al rimprovero a una freddezza notevole di cui non lo si sarebbe ritenuto capace. Dalle guance un
po’ rotonde era scomparso il sangue giallognolo, le macchie semitrasparenti incastonate sotto il sottile
strato superficiale della pelle. Ed era diventato il volto d’una montagna all’orizzonte, di cui è difficile
quantificare la capacità di provare misericordia per le cose più basse.
Si riferiva alla mappa, che avevano visto un tempo, e ridisegnato sulla spiaggia. C’erano stati giorni,
successivi alla morte della vecchia nave, dei vecchi giorni. Giorni nuovi in cui, come in preda a una febbre
inspiegabile, avevano girato qua e là, avevano raccolto voci, leggende, missioni. S’erano messi in tasca
missioni. Ma quando, trascorsa una settimana, due settimane, il delirio e la malattia avevano lasciato i loro
corpi simili a sarcofaghi scoperchiati e riempiti solo della desolazione del vento, s’erano ritrovati quelle
tasche piene di cartacce pesanti, inutili. Che parevano essersi ficcati lì agendo nei corpi d’altre persone, che
non erano loro, e che erano sparite. Senza piangere e dormire, avevano vissuto l’alba successiva alla morte
di tutti in maniera tanto astratta che li rendeva lontani da sé, da quanto vedevano, dal loro agire. Un agire
che cercava un rimedio, e credeva di trovarlo. Come si crede alla meta d’un pellegrinaggio, a un forziere
sepolto, a un continente che appare e scompare oltre le brume lontane. Ai significati delle poesie in cui
unicamente era vissuto tutto questo.
La mappa disegnava quella curva d’alberi improntata nella memoria, non c’era dubbio. La spiaggia sulla
sinistra si sporgeva, si ritirava, si sporgeva, tante passerelle di sabbia sul mare: formavano dei “3”
affastellati lungo il prosieguo della riva. Percorsi numerosi “3”, avrebbero trovato la baia della grotta,
avrebbero sentito l’odore. Era l’unica mappa in cui fosse stato imprigionato un odore, compiutamente
tracciato e comunicato nei disegni sulla pergamena. Ma non se n’erano stupiti in quei giorni di febbre e
ispirazione defunta.
-li incontriamo dopo?-, disse Dii, continuando a fissare un corridoio tra i tronchi grigi e biancastri, quasi
s’aspettasse di veder uscire da lì i pochi altri compagni sopravvissuti oltre a loro.
-non hanno trovato niente. Non c’è nemmeno bisogno.
-Rihf, Rir, Loj, e altri, loro erano alla costa nord… rocce scure, buone per le cozze. E quelle tridacne sporche
che abbiamo visto. Di certo ne avranno raccolte molte, oltre al kelp buono per cordame.
-è la stessa cosa. Come ti può confermare il signorino, non siamo qui per poter sopravvivere. E poi,
riusciremmo comunque a farlo. Fa tutto schifo, il mangiare e il bere, e non manca nulla. Ideale per
sopravvivere.
Kiy non li ascoltava, Kiy poteva aspettarsi di sentire i suoni gutturali delle loro conversazioni in altri
momenti, in cui non stessero veramente parlando. Magari nella notte, nei pressi di un falò di legname
rotto, sale d’alghe. Doveva esserci il silenzio perché li sentisse, interrompibile solo da specie di grilli aliene.
-senti, piuttosto. Questo coso per quanto tempo ancora vorrà seguirci? Mi mette i brividi.
Era raro che Hr ammettesse di credere a una superstizione. Il gatto selvatico, dopo esser stato seduto per
un po’ sulla spiaggia con loro, aveva cominciato a seguirli, a passo lento e muscolare, senza dare l’idea che
s’aspettasse qualcosa da loro. Molto diverso dagli animali che gironzolavano per cibarie e attenzioni.
Sarebbe parso, dal modo di muoversi e dalle decisioni che prendeva, che non li vedesse nemmeno, che gli
fossero invisibili o del tutto indifferenti; eppure, quegli occhi dai riflessi paglierini, solamente a guardarli
restituivano uno specchio: lì dentro, si era perfettamente visibili, nell’attimo di disperata vulnerabilità in cui
uno sguardo d’animale e un cervello d’animale sondavano fino ad attraversarla la propria carne, le proprie
pareti più spesse. Isola di gatti che vanno in cerca delle anime… per fortuna l’avevano trovata tardi e non
c’era stato il rischio che diventasse una salmodia da cantare ubriachi. Questo almeno era il pensiero di
alcuni dei più superstiziosi. E del meno superstizioso.
-sciò, e via!-, sollevò un geyser di sabbia con un gesto violento del piede. Un modo fisico e immediato per
non credere alle anime e a qualcosa che vuole rubarle. Il gatto continuò però a camminare, schermendosi
appena il muso con una zampa sollevata.
-Dii, ti avverto, gli faccio male.
-pensavo solo che sarebbe stato utile. Riavere un gatto, come in nave. Equipaggio.
-non ci sono ratti qua. Non lo vedi? Guardati intorno: umani e ratti, qua non c’hanno mai messo piede. Non
ci serve.
-ma, lo stesso…
-Dii, vallo a liberare. Facciamo così: io non gli do un calcio sul muso, così tu non ti offendi. Anzi, vado a
bagnarmi i piedi laggiù. E se mi riesce raccolgo una vongola o un latterino o qualcosa del genere, visto che
avevi questa preoccupazione del cibo. Ci sgranchiamo le gambe, una pisciata, quello che volete. Tu, Kiy, fa
un po’ come ti pare, anche se credo che hai perso la capacità di pisciare e cacare e addormentarti sdraiato
per terra come gli uomini. Comunque: quando ci voltiamo, per ritornare vicino a questo masso, niente
gatto.
Non era un ordine, e nemmeno una cosa da prendersi troppo sul serio, ciononostante eseguirono tutti
spontaneamente. Dii, il più avvezzo alla compagnia degli animali, afferrò con la grossa e bitorzoluta mano il
ventre chiaro del gatto, che si avvoltolò al palmo in morbidi lembi come gli strati di pieghe d’un profumato
lenzuolo. Hr andò verso il mare, come aveva detto, sfiorando con le dita per gioco la superficie del grosso
masso attorno al quale la via si biforcava definitivamente, un particolare loro sfuggito. Kiy rimase a
guardare lì per terra. Se ne sarebbe accorto poco dopo. In quel momento aveva solo una strana
impressione tattile nei dintorni del cuore. Oltre la base del grosso masso, a tratti rotonda e a tratti
spigolosa, si dividevano più nettamente la spiaggia e il prato: sulla sinistra la sabbia si riempiva
progressivamente di sassi neri, finché questi non lambivano come tanti idolatri inginocchiati le pendici di
una sporgenza di roccia scura d’aspetto vulcanico, ostruente del tutto i passi umani e gettata a forma di
rostro nel mare, quasi frangente la terra a metà; sulla destra invece la via s’inerpicava appena, coprendosi
d’erba, e un chiarore poco netto ma decisamente visibile sotto questa tracciava un magro sentiero ricurvo
verso un’apertura tra gli alberi. Pareva che entrando lì e camminando per un po’ si potesse aggirare
l’ostacolo, attraversare i boschetti e giungere oltre il minaccioso costone minerale, sbucare dall’altra parte
della spiaggia. Un simile cancro era disegnato sulla mappa. Non c’era invece nessuna indicazione di quel
masso, segnalatore e guardiano della separazione della strada. Kiy pensò che s’avesse disegnato lui quella
mappa, gli avrebbe perlomeno dedicato qualcosa, simboli. Un disegno d’un altare, dove si compivano
sacrifici, e attorno al quale un tempo, forse, qualcosa danzava… c’era perfino un sottile strato di muschio
sulla cima di quel masso grigio-celeste, quel grande masso molto bello. Dio di roccia.
Kiy si voltò a sinistra e vide Hr a gambe divaricate verso le onde verdi e grigie. Si voltò a destra e vide Dii che
tornava indietro. Aveva posato il gatto a un margine della foresta leggermente più fitto. Assorto, come
appena scosso dai suoi pensieri riguardanti il masso e ignaro di quanto tempo gli avesse dedicato, si diresse
secondo istinto incontro all’amico che ritornava. Ovviamente, non si scambiarono nemmeno un cenno. Kiy
lo superò e divenne chiaro che andava verso il gatto. Erano diversi: per Kiy gli animali erano soltanto
simboli, allegorie di fiabe della terraferma; Dii sapeva che era possibile toccarli, sapeva prelevarli dal suolo,
collocarli su altri punti del suolo, addomesticarli, liberarli. Ma non disse niente. Fu il primo a ritornare al
masso.
Evidentemente era un gatto destinato a rinselvatichirsi, dopo averli accompagnati per un certo tempo. Ma
aveva avuto un senso, quel tempo? Hr aveva sentenziato che non dovevano ricreare le cose come erano,
niente più gatti al seguito dei marinai. Kiy era giunto vicino al punto in cui le ombre dei tronchi ritornavano
al loro interno, orobori, tenebre solipsistiche. Il felino era seduto come lo era stato in spiaggia. Nelle vicine
ombre qualcosa si mosse: forse degli uccelli c’erano, a ben sentire. Uccelli neri, raggi di sole, contrasti di
colore sul margine degli alberi. Kiy ascoltò in silenzio, lo sguardo sempre più vitreo posato sulla presenza
enigmatica del gatto. Che si mise a fissarlo. Lo vedeva, non c’era dubbio. Cicale ingrossavano agitate il
proprio fragore dal fondo lontano d’un polmone nascosto oltre l’intrico, sentendo l’approssimarsi di
invasori dell’isola. Una musica d’accoglienza oppure un allarme. Kiy ascoltò in silenzio, sparendo dentro di
sé. Si svegliò e vide il gatto che, dandogli le spalle, deambulava con la perfezione d’un predatore
specializzato, senza alcuna mossa superflua, verso il fitto d’arbusti più vicino. Ondeggiava ipnotica, destra e
sinistra, la punta nera della coda. Prima di sparire, si voltò. Un’ombra rabbuiò all’improvviso la parte
superiore di quel piccolo volto triangolare. Un’ombra che a fissarla a lungo avrebbe reso folli. E insieme a
questa, quasi fosse un’estensione della stessa misteriosa oscurità, appariva un impercettibile fremito di
vibrisse parallele preannunciante l’apertura della bocca rosa. La bocca si aprì e non ne uscì un miagolio.
-voglio dirti solo questo: fra poco incontrerete le donne. E, forse, dopo di loro altre cose ancora. Ti saluto,
può darsi che ci rivedremo. Ma non importa.
Con un solo balzo fu dentro le piante, dissolto nelle ombre, plasmato al silenzio. Quasi senza tracce. Il felino
selvatico aveva parlato. Ma Kiy non si allarmò: sapeva benissimo che poteva chiamare quella cosa
“allucinazione”. Si voltò però con una certa apprensione e si sentì sollevato nel vedere Dii che, rivolto al
masso e inscritto goffamente nella sua sagoma solenne, gli dava le spalle. Non si era mai girato a guardare
la scena della separazione dal gatto, non aveva visto il momento in cui Kiy l’aveva visto e sentito parlare, o
gli era sembrato che così fosse successo (parlano, non parlano? Loro, i miei compagni. Loro altri, gli animali
che non dovrebbero poter parlare). La figura di Hr usciva dall’indistinzione incolore e acquosa della
distanza, risaliva la spiaggia e anche lui ritornava al masso.