14,5 (P.S.:
e adesso?)
Qualcosa
continuava a chiamarlo là dentro, inducendolo a riempirsi ogni istante della
stessa vertigine d’attrazione che pervadeva le falene, sciamanti sotto la
lanterna inarcuata sopra la porta. Attrazione che dilata le pupille.
Attingevano dalla stessa polvere acchiappata a manciate e versata a otturare le
vie respiratorie del volere, sgretolata dalle ali come non smettessero mai di
disintegrarsi. Era mai possibile che esistessero degli esseri così devoti alla
causa del proprio annientamento? E cos’aveva lui a che fare con loro, globi
fluorescenti frazionati dai voli parabolici sotto l’alone giallastro, cos’era
lui che stava continuando ad ascoltare una voce priva di suono? Aveva percorso
la strada deserta, accolto in ogni fibra la spietatezza del vento, così
insensata, esagerato il suo gelo affilato in multiple invisibili lame. Si
chiedeva se potesse mai diventare in grado di comprendere quella violenza
camuffata da spettro, incorporeità soltanto fittizia. Comprendere tutto ciò che
ferisce.
Fermo a
guardare l’ingresso chiuso per quarti d’ora dilungati, vide se stesso come
vedetta, meridiana, un palo confitto nel marciapiede che poco a poco somiglia
sempre più a un gufo, ciuffi di piume come corna e occhi circolari che prendono
vita dalla sua cima. Nell’ora svuotata perfino di ubriachi e nottambuli di
tutte le specie, quando il gelo costiero autunnale costringeva le prostitute
ferite a rifugiarsi sotto introvabili grondaie e i cani randagi a sparire
nell’aria terrea tra i vicoli come uno qualunque degli spiriti gassosi sudati
ed evaporati dagli interstizi tra i sampietrini, Kiy
era stato veglio, vigile quasi più che nelle sue ore diurne di interminabile
agonia, chiamato per vie misteriose dall’uomo che gli aveva chiesto di
incontrarlo. E il singolo lumicino di color fangoso che penetrava il vetro
della finestra della locanda, vuota e dormiente come tutto il resto,
rannicchiata per fronteggiare il freddo -quel singolo fluttuante lucore di una
fiammella continuava a chiamarlo, prolungando il messaggio dell’ombra strana
che nel parapiglia della rissa di quel giorno aveva, prima di sparire, fatto
sgusciare un dito dalla sua forma oscura, per dirgli di tornare lì, donandogli
un incontro segreto; un futuro a cui guardare.
Accadeva
prima della partenza. Mesi dopo il torto subito. Perché sì: lì, in quei lunghi
minuti in piedi là fuori a creparsi di freddo, Kiy,
lucido e sveglio, dissipate solo allora e senza che se ne rendesse conto le
nebbie del dolore che gli avevano invaso giorno dopo giorno ogni istante di
coscienza e incoscienza, Kiy là da solo prima
d’entrare aveva creduto con tutta la forza di cui fossero capaci parti vilipese
e oltraggiate del cuore che la distruzione, lo scenario che era stato mostrato
loro, fosse un torto, qualcosa che meritava una vendetta, lunga, torturante, da
compiersi in silenzio e senza alcuna dichiarazione, in maniera inconscia, da
dimenticarsi presto dentro coloro che l’attuavano per andare in automatico a
galleggiare sul mare nelle quattro direzioni di una bussola invisibile.
Kiy aveva
allungato la mano verso il pomello il cui colore bruno era stato opacizzato da
una patina un tempo viscida e ormai coagulata, come se i marinai passati di lì,
scomposti attraverso gli spettrali flussi delle ore trascorse e irreversibili,
fossero stati i primi della stirpe umana a trovar finalmente il latte di pesce
spada, e recarlo sulle loro mani, ogni singolo spazio dei loro corpi, maledetti
dall’odore del loro viaggio e il loro vivere, identici in tutto alla natura
della solitudine dei vagabondaggi condotti, dove ogni alba e tramonto erano
fari speranzosi coi raggi lacrimati dal cielo come pioggia nutritiva, da
ringraziare con commozione e appassionata perdita di senno. Kiy
toccava tutto questo. Un ultimo istante in cui ancora il mondo esterno
sferzava, manifestandoglisi, come sempre stava facendo, brutale e iracondo
senza ragione: da qualche parte, nel soffio ininterrotto del vento, un ululato.
Ma non c’erano cani in giro. Non c’era nulla in giro. E nemmeno le bestie nere
dell’incubo in quel tempo potevano aggirarsi per… no. Kiy
stava ripiombando nell’incoscienza, la riflessione assente da se stessa che in
molti momenti era tornata a mostrargli ripetutamente quelle viscere e
disperazioni che aveva visto colorarsi di nero come cancrene messe in fila
dentro una parata di spettri, messa assieme per visitargli l’animo e metterlo a
soqquadro (eroico, in un certo senso, riuscire a perturbare l’anima che rimane
in casa sua solo per ripararsi dalla pioggia, ingerire, espellere, e coricarsi
senza riuscire a dormire).
Kiy si
riscosse, agitando lateralmente la testa. Entrò e il legno fece uno schiocco,
poi un cigolio. La gelatina tremebonda della candela faceva capolino
lateralmente, invitandolo, come suadente canzone musicata da serpenti di isole
lontane, verso un angolo appartato della locanda. Vuota e disabitata, visitata
da due spettri all’insaputa dei proprietari, chissà dove addormentati e al
sicuro in fondo a un pozzo di ignoranza d’ogni cosa avvenisse nelle ore prive
di avventori. E quella era un’ora del gelo e del vento, un’ora della notte che
rifiutava perfino i notturni: ogni cosa nel paese, la costa, le paludi, i
colli, tutto rifiutava l’esterno, ritraendosi in intirizzimento uterino dentro
se stessi.
Solo quando
tutti gli altri, selvaggi ingestibili abitatori della vita, solo quando perfino
loro s’erano stancati o forse spaventati del vento a tal punto da temere il
mondo, Kiy era dovuto uscire, lui solo,
dall’alloggio, per le strade, diretto alla locanda che mai avrebbe visitato da
solo, e che quel giorno, e ogni altro giorno coi piedi sulla terra della città
portuale aveva pur visitato, facendosi ombra tra le tante di un’idra assetata.
Doveri collettivi. Ciurme. Folle, piazze, cerimonie. Cimiteri. Tutto questo
esisteva e Kiy aveva creduto di accettarlo. Il male
della milza che l’affliggeva da mesi costantemente gli chiedeva invece
d’accettare solo il male, non per vincere il dolore e temprarsene, ma per far
proprie le conclusioni che dal male provato si sprigionavano come rivoli di
bile attraverso ogni parte di sé. Gli diceva: credimi: perché solo quando mi
porti dentro hai ragione, e riesci a vedere la completezza cristallina delle
cose, la completa mancanza di…….
-benvenuto!-,
sibilò lo straniero seduto al tavolo. Kiy si
ricredette: non un canto di serpente dentro la sua lingua: c’era solo una
pelle, simile al pitone delle rocce, che adornava il collo come una sciarpa.
Vide scintillare i denti scoperti a formare una mezza luna d’avorio proprio
come nelle leggende sui forestieri, s’incastravano tra le seghettature degli
incisivi i riverberi arancioni della fiamma. Splendevano più degli occhi,
seminascosti per il copricapo tirato su come un cappuccio o una criniera dilungando
dalla collottola un tessuto e pelo capaci di imbeversi di penombra e
intensificarla, oscurando un po’ le cose che si sporgeva a coprire, gli
sguardi, le pieghe furbesche della fronte. Occhi poco visibili. Sembravano
grandi, occhi grandi e vitali. Non visti, e più forte fibrillava la fiamma
imbrattando la dentatura, falò accesi in piane d’avorio. Faceva pensare che non
fosse vero. Per questo Kiy sentiva crescere in sé
l’attenzione.
Kiy in forma.
Mai visti i dettagli microscopici con la stessa intensità. La depressione, per
pochi frenetici minuti simili a interminabili ore di discussioni ed
elucubrazioni, era del tutto scomparsa, o mutata in un’inspiegabile, quasi
sordida eccitazione.
Kiy si limitò
ad annuire e andò a sederglisi davanti. L’odore insistente di un sottile strato
di polvere mandava geyser di clausura da ogni venatura del pavimento. Sentore
testardo nel riproporsi ogni notte come rugiada nei campi a dispetto del
quotidiano operato della scopa del garzone.
-mi piace
il modo in cui la tua barba esiste.
Kiy capì che
lo straniero faticava ad adoperare alcune espressioni della lingua, non essendo
sempre volontaria quell’apparenza di volgerla in direzione d’enigmi e
indovinelli. La barba di Kiy era effettivamente
cresciuta in quei giorni e s’era arricciolata la sua punta un po’ incanutita,
uncino per il buio e la sua solitaria lucetta calda e pastosa. Fango denso del
fuoco.
-pare barba
di diavolo!-, rise lo straniero. Ricurvo verso il piano d’appoggio, sembrava
rimpicciolirsi, ingobbito, ma Kiy ricordava bene
l’ombra gigante del pomeriggio, tra le tante che nella marmaglia trascorrevano,
mormorando soltanto segreti temibili accumulati da viaggi ed esistenze poco
raccomandabili. Eppure distinta in quella folla: straniero di quelli più
grandi, delle molte leggende circolanti tra i porti pieni di stranieri di tutti
i tipi, nani e multicolori e bellicosi e miti come selvaggi affetti da un
mutismo dei tropici.
Straniero
d’altra epoca. Da crocevia che mettevano la preistoria in contatto con le
conquiste continentali dei secoli recenti, quell’ombra balzava, praticando il
commercio dell’immutabile, dell’universale, eppur portandosi d’ogni epoca un
distinto aroma: remunerative spezie dei continenti opulenti gli riempivano le
maniche ariose della vestaglia nera e bianca striata, spargendogli attorno
un’aura d’effluvi ora sabbiosi, ora intensi e stagnanti come un muschio
recuperato dalla carcassa di un antico elefante peloso schiusa da un iceberg.
-allora…-,
si avvicinò, bassa voce suadente, non di serpente, toccandosi il serpente al
collo. Gli occhi scintillavano vispi, capaci di vedere al buio, senza incutere
timore. Non il timore di qualcosa che ferisca con gli artigli, perlomeno.
-ho qui una
mappa che ti piace.
-…una..
mappa che mi piace?-, sussurrò Kiy, roco e quasi
inudibile.
-naturale!
Tu hai espresso un desiderio. Sbaglio forse?-, chiese sfruttando gli idiomi dei
commercianti, sapendo di non sbagliare.
Kiy inghiottì.
(Solo
davanti alla mattina del mare in burrasca, il quadro che sempre si ripeteva
uguale davanti al porto ispirando i pittori sempre lontani dai vortici e le
correnti, ispirando la terraferma a tinteggiare le creste e gli abissi del
sublime, mai toccato come la speranza di un dio rintanato da qualche parte nel
cosmo ad amare e distruggere a ogni istante simile a un invisibile volto
austero che si disegni nel cielo tra nuvole temporalesche. Spalancando braccia
e ispirando la corrosione della brezza. Kiy solo
davanti alle onde disegnate, cancellate di continuo, in una mattina ventosa del
porto tra fetore di frattaglie e lische, tra promontori dell’orizzonte gialliverdi di arbusti brulli, tra stanchezze ormeggiate,
aveva desiderato. Singolo desiderio della sua esistenza sprofondante, una
singola spalancata di braccia perché potesse sperare anche lui, chissà, un
giorno lontano, di poter abbracciare questo mondo che sfortunatamente gli aveva
dato i natali.)
-sì.-, non
negò.
Scintillò
la mezzaluna dello straniero e palpitò su e giù il pomo d’Adamo olivastro.
-e allora
eccola qua. Qui, c’è.-, fece picchiettando i lembi piegati su se stessi d’un
riquadro di carta con un lungo e ossuto dito, cacciavite per procacciarsi
bruchi neri dai tronchi d’alberi.
-leggila.
Decifra i mondi, mettici il tuo tempo.
Kiy aprì il
foglio. Era una mappa, coordinate segnate in un alfabeto antico che lui
conosceva.
-domani
torno. Giorno. Luce nelle finestre, mi faccio vedere: parlo di questo: sapranno
anche gli altri del tuo proposito. Parlerò a loro di tutto questo come di “arti
nere della resurrezione”. Ma tu sai di che si tratta, in fondo, vero?
Tu sai di
che si tratta, in fondo, vero?, sentiva Kiy
quell’accento rintronante, mentre febbrilmente leggeva sorvolando ripetutamente
con gli occhi ogni anfratto della geografia delirante lì rappresentata,
un’isola ch’era solo un fazzoletto di spiaggia ricircolante all’infinito
attorno a una foresta frammezzata solo da punteggiatura di rocce sporgenti,
rottura d’ogni matematica, marcia senza sosta. Tu sai di che si tratta, vero?,
e lo sapeva: tenendo gli occhi aperti, sentì per un istante d’averli chiusi: un
lampo d’oscurità si squarcia riempiendogli la coscienza, invadendogli
l’introspezione: teschi. La sua ossessione non è che quegli ammassi di teschi
che s’è immaginato, in un sogno, talmente numerosi da formare una parete alta
fino al tetto di un immenso tempio, tutti quelli che è riuscito a recuperare
tra le macerie di un mondo, un suolo sprofondanti nella voragine. Di tutto ciò
che accade, a lui rimangono i teschi. Ogni morte, ogni sublime imponderabile
dell’esistente che scompare andandosene in un irraggiungibile altrove a
rispondere all’unica domanda di cui importasse, si riduce a mera, elegante
materia: un teschio geometrico e compatto senza budella, un’incantevole
scultura di sabbia.
-accetto.-,
annuì ancora Kiy.
Una strana
risata si propagò partendo dal dorso ingobbito dello straniero, simile a un
ululato che scuota una criniera come una danza di parassiti. Sembrava dirgli,
ti vedo che ancora pensi ai tuoi teschi, e nella fantasticheria fai per
infilarci una mano dentro e agitare le dita nelle cavità, così da ricreare le
interiora perdute, i vermicelli della tua mano sono il crostaceo che torna alla
dimora.
-bene!
Leggi bene la mappa e vedrai. Ma tu hai già visto. Là c’è la baia, chiamiamola
così. Laggiù troverai. Quella che serve è…
-..sabbia.
Troverò… la sabbia.
-ha ha ha!-, fece lo straniero.
Sembrava dirgli, sabbia proprio come quella di cui porto l’odore impregnato qua
dentro, veste mia come lembi di derma e pelliccia. Da qualche parte roteò una
clessidra, sincronizzandosi a rintocchi d’orologi dentro le case, dentro i
pomeriggi ancora più vuoti di quella notte che aveva sguinzagliato il vento per
esiliare tutti gli altri che erano indegni di sentir tremare il sé dalla testa
ai piedi, dal margine estremo con cui toccavano il suolo fino al teschio dove
confluivano tutte le brame e perversioni, tutte le firme del proprio nome.
L’uomo che
odorava d’isola, fatto il suo compito, avendo raccontato delle arti della
resurrezione e la scultura senza quasi parlarne, s’alzò in piedi, lasciando Kiy con la sua mappa e il suo sapere alieno, corpo alieno
che già dentro gli stava fermentando facendo crescere un albero parassitario,
un albero diverso da sé che pure era già un pezzo di sé, germinando nevrosi,
facendo nel suo buio interiore una fotosintesi con le particelle dell’oscurità
per mandargli al cervello l’ossigeno d’una vertigine sempre più normalizzata.
Il malessere, lentissimamente, convertito nella stessa eccitazione di quella
notte, da qualche parte al suo interno rimaneva, mettendo radici.
-ah, certo
non chiedo niente in cambio. Ma vedo che non te ne sei preoccupato!
Volse
rapidamente le braccia aperte con un gesto che forse originava da usanze
antiche o recenti o appena inventate, pur sempre appartenenti all’isola dove
forse la sua gente s’arrampicava sugli alberi e dalle loro cime rimaneva a
ciondolare tenendosi per un braccio ai rami più esterni, lasciando a penzolare
l’altro. Dalla manica fluente di nuovo i segnali di quel codice. Effluvio di
sabbia odierna, clessidra dell’oggi. Effluvio di muschio antico. Effluvio di
macerie, cenere necropolitana che assetata assorbe
ogni pioggia, compattandosi, rimanendo sempre in compagnia del suolo e
facendogli amorevolmente da sotterranea ombra. Odorava di profumi e anche di
morti e incensi loro offerti, l’uomo straniero che facendo frusciare le vesti
se ne stava andando come un fantasma.
-forse
laggiù ci vediamo. Se mi andrà a genio. Anche i tuoi amici interessano. Chissà.
Un saluto?
Kiy non stava
più ascoltando le parole imperfette, forse davvero enigmatiche,
dell’interlocutore che non sembrava aver intenzione di portarsi via la candela
che doveva aver recato con sé, strisciando furtivo nella locanda vuota per
costruire un faro e un segnale, un richiamo per il sonno insonne di Kiy. Luce che canta, che attira, in fondo agli abissi. Kiy rimaneva seduto con aria assente, a sentirsi irradiare
in petto una sensazione. Mai sentita una sensazione con tale forza, il suo
corpo esisteva, e aveva qualcosa da dire tanto quanto l’anima, usando le parole
dell’anima. L’uomo sembrò accennare una smorfia compiaciuta leggendo attraverso
quelle riflessioni di Kiy. O forse era solo un’altra
usanza indecifrabile del suo mondo.
-mmh. I
portali si stanno chiudendo. Non dovrei stare qui. Torno domani. Più solido.
Forse porto amici, per farmi da spalle, sai. Amici più solidi.
Annuiva Kiy senza vedere e ascoltare niente, la punta della barba
solleticata dalla fiammella fumigante, disperata in cima alla candela come se
qualche spiffero riuscisse a valicare il vetro tormentato da sussulti continui.
Nonostante la nebbia violentemente sparpagliata dal vento sulla terra,
continuava a esistere, dall’altra parte della lastra trasparente, un insieme
blu scuro di campi incolti, strade, barche scrostate lì abbandonate vuote e
senza senso sulla terraferma, accostate ai muri bianchi e lunghi fuori le case.
Pure le stelle erano state spazzate. I luccichii erano linee sull’acqua
distante, il mare sembrava cingere ogni lato della costa continentale come un
lago invertito. Meduse forse annaspavano, cercando di galleggiare, boe
bioluminescenti sotto quella linea nera come l’inferno. Ma Kiy
non stava vedendo nulla di tutto questo. Concentrato su forme che stavano
nascendo, facendo battere cuoricini instabili nella pelle appena formata:
vaneggiamenti di montagne frastagliate nella distanza per sempre opaca e
intoccabile, tratti di spiaggia circolanti in orobori
dove le uova dei molluschi si riversano, rigurgitate dalle onde.
-essù, salutami per bene.-, fece lo straniero porgendo un
pugno chiuso molto più nero della pelle del volto, come indossasse un guanto
d’uguale consistenza. Colpì le nocche di Kiy chiuse e
inermi sul tavolo, a tener ferma la mappa quasi questa dovesse scapparsene
lontano da un momento all’altro, o dileguarsi in uno scherzo notturno come lo
straniero pareva sul punto di fare. Non prima d’aver salutato così, in un gesto
che forse voleva imitare i giochi dei bambini che doveva aver visto annoiarsi
sulla sterrata fuori dalla locanda, andandosene quel pomeriggio. E chissà se
invece loro avevano visto, distratti da modesti giochi di conchiglie e
ciarpame, incomber su di loro curiosa e spaventosa un’ombra sorridente,
all’improvviso china per porger loro un fiore e osservarli più da vicino, prima
d’andarsene lasciando dietro l’incedere lento quasi da anaconda una spoglia di
sé, dello sguardo che credeva di farli scemi spacciando per “destino”
quell’oscuro balenio che gli aveva propinato con la vispezza esotica degli occhi,
il ticchettio di una collana strana.
Kiy, senza
intercettare sguardi di sorta, ricevette il pugnetto annuendo di nuovo, con
l’aria di uno scienziato troppo assorbito in un’idea fulminea, cui vuol
dedicarsi al più presto, per poter far caso a quanto menomata fosse la cortesia
nel suo gesto rivolto agli ospiti in procinto di andarsene. Ha ha ha, ripeté lo straniero.
Kiy fece caso
distrattamente alle sue vesti che filavano verso l’uscita mostrando il lembo
posteriore e una lunga coda ad anelli strascicante sul pavimento; intrasentì il
ticchettio d’una collanina sbalzata fuori dalle spire della sciarpa di pitone,
il suo gingillo d’avorio strano intagliato forse per omaggiare un dio notturno
con una geometria libera da costrizioni. Ma perfino quei simboli non
l’attiravano più. Non il pendaglio centrale e non i dentini neri di sporcizia
che gli orbitavano attorno, satelliti allineati nel filo. Pianeti e astri
perdevano forza d’attrazione. Nel cosmo tutto tornava a galleggiare come aveva
fatto -ed era naturale che facesse- per allontanarsi da un centro esploso,
tutta la rabbia ancestrale del primissimo istante strappato alla nonesistenza. Per tornarsene a fluttuare indefinitamente,
lumacose scie fuori dalle strutture, perseguendo soltanto pensieri amorfi e
culminanti nello stesso buio, profondo sconcertante vuoto di eterna bellezza.
Così quella
notte Kiy era rimasto seduto, da solo, al tavolo
della locanda dove non stava succedendo niente. Proprio niente. Nei fondali
acquosi e gassosi dei suoi occhi assorti, ancor per poco riscaldati dalle
convulsioni della fiammella morente, trascorrevano riflessi di disparate forme
craniali, quasi dinosauri di un sottosuolo che un tempo era stato un unico
millenario oceano. Crani estinti che incantano nel cranio ancora vivo. Seduto
lì, per pochi secondi soltanto Kiy s’era messo le
mani in faccia: sentiva la pelle gommosa, la gelatina gialla puzzolente nello
strato sottostante. Smise di toccarsi senza accorgersene, senza saper mettere
in ordine gli eventi: il sudore che colava da naso e mento peloso anche in quel
gelo da cantina penetratore d’ossa, il momento d’inizio della sudorazione dai
pori agitati, tutto rimescolato, ridicolizzata truffa del causa-effetto. Non
aveva udito la porta chiudersi. Nessuna traccia di stranieri o spettri, tranne
che per una candela che non doveva star lì. Orario di chiusura. Portali chiusi.
Nel vento sbatacchiava l’insegna della locanda, Kiy
non ricordava se avesse forma di cernia o rana pescatrice o un crostaceo di
qualche specie, ma faceva un fracasso quasi assordante, quando uno ci faceva
caso.
Nessuno
rovesciava tavoli, nessun liquido ambrato con afrore d’urina e batteri
fermentanti si spargeva sul pavimento, coperto da travi e in poche sue parti
denudato in terra sporca da porcile, nessun fluido vomitato da boccali
ruzzolati, vetri rotti, bancone imbrattato da infinite invisibili ditate
virulente. Nessuno schiamazzo. Nessun esterno: come una cantina taceva la
locanda piena di buio, cumuli di buio fumiganti e nebulose che liquidamente
strisciano facendo danzare capoccioni presto squagliati, buio eternamente
mutevole ch’è strisciato dentro col fare di un avventore prepotente e
disprezzando ogni domanda si è appartato laggiù in quell’angolo dove diventa
sempre più forte, e la candela si affievolisce, e chissà quando viene l’alba o
se avrà alcuna voglia di presentarsi di nuovo, per un bicchierino o solo per
farsi vedere come sempre fa in quel futile modo -potrebbe essere davvero
stanca, dopo tutto questo. Ma cos’è “tutto questo”? Nemmeno un avventore
testimone di quel luogo e tempo gelido potrebbe dire di cos’è fatto: saprebbe
riconoscere come una sua parte soltanto il buio. Entrato dove sta seduto un
uomo di nome Kiy davanti a un tavolo, una mappa
nervosamente riaperta e chiusa dal gesto inconsapevole della mano, che sembra
aver male alle vene, una specie di prurito non fisiologico perché ogni cosa la
sintetizza quel cervello che -dicono voci incorporee e insignificanti nelle ore
di caos- lo rende strano e disperato, come quei volti dipinti così
istericamente da mani d’artisti fatte della stessa sostanza nervosa, i volti
della mania. Vicino alla candela un solo altro movimento ugualmente flebile,
sottocutaneo fremito di vene vessate da crampi e nient’altro. Nessuno,
sagomandosi in mezzo alle tenebre, avrebbe mai detto che stesse accadendo
nulla, sebbene là fuori cominciassero a uscire, facendosi sempre più grossi,
spiriti amanti dell’oscurità, il cui ritorno trascinava, riversandole ovunque,
amorfe reminiscenze di luoghi dove tanto tempo fa s’erano fatti percepire;
quasi dei morbi che, afferrate le prede, le rinchiudevano, gettando la chiave
in segrete di ricordo: vento, erano sempre stati là, mare, ovunque nuotavano,
canneti, si nascondevano sempre; tornavano per ciascuno da un diverso mondo,
paludi fattorie foreste e i porti maledetti costretti a raccontarsi in eterno
dalla suscettibilità dell’oceano ribollente di vendette, magie attuate senza
principio soprannaturale, solo forza della malizia. Ma lì c’era solo Kiy. Nessun altro assaporava. Eppure, non si sarebbe detto
che accadesse nulla. C’erano presenze vento notte profonda incertezza del
giorno venturo e assieme certezza che come sempre sarebbe tornato ignorando
tutto. Un uomo seduto, e non stava succedendo proprio niente.
FINE