preadolescente, ben vestito, sfodera da dietro la schiena le braccia che teneva incrociate. Lei crede che
voglia accettare la tazza, portarla alle labbra, o forse scostarsi nervosamente, come ha ripetutamente fatto,
una ciocca che, forzata a diramarsi da una riga centrale, gli infastidisce un lato della fronte. Il bambino
sfreccia nel riquadro proiettato dalla finestra, mosaicando di riflessi argentei la marsina blu per lui così
stretta. Le braccia sfoderate verso di lei, che ha osato sorridergli. Una tazza rotola incolume sul tappeto, un
liquido ambrato diventa semplice indistinta oscurità umida, prontamente risucchiata da peli bordeaux,
prontamente incolore. Parte di macchie che rimarranno, senza nome e senza origine, più reali dei disegni
del tappeto nuovo. L’ombra di lui si scontorna nella luce pomeridiana, e il pomeriggio del salotto nei suoi
sensi acuti, nelle narici affinate in lontani giorni di torba, ha odor di regge, corridoi, araldica; e nell’arazzo
del pomeriggio egli è una bestia rampante. Sotto le zampe sfoderate e il corpo ricurvo si rannicchia una
prigioniera -così il prigioniero dentro lui, l’uomo che sta allentando le catene, apprende ad accettare i
sorrisi che gli vengono rivolti, soltanto in alcune circostanze che deve crearsi da sé. A forza di zampate
creerà sempre le condizioni -prenderà e sottometterà ciò ch’è suo per potersi beare della beatitudine, falsa
e compiacente e spaventata, nei volti altrui; con le zampate scaccerà quella nebbia di sensibilità accumulata
come zavorra nell’infanzia di campagna, che ancora l’invade, impedendo all’uomo di uscire.
Danzava, continuava a danzare la ninfa bruna! Ricordava ciò che Hr le aveva detto: sono pericoloso per voi!
L’intrico dei piedi e il balzo s’arrestarono, no, si evolvevano, in un fluire magmatico: così diventava la
pioggia quando incontrava il suolo, tanto tempo fa. Ora i fianchi e i calci oscillavano lateralmente,
ipnotizzavano il gatto e le gatte e gli occhi ignari di Dii spargendo un mal di mare di terraferma. E raccontò
così di un uomo alto e forte che ha preso rifugio in una locanda. Ma non è un rifugio, non esistono rifugi per
lui in quei giorni: esistono occhiatacce di uomini che s’illudono d’essere partecipi della sua stessa visione
della vita. Sono sciocchi. Col cervello invaso da pesci scorpione e tentacoli urticanti, l’uomo s’alza dal tavolo
e s’avventa per sbloccare quella rissa che non attendeva altro che un segnale, un iniziatore. Bastano le
forme digrignate di sguardi e denti, nel suo mondo. In un istante è pronto a screziare i tatuaggi di ancore sui
muscoli scoperti. In fondo alla locanda maleodorante, nella triste penombra che assomiglia a un antro
marino, lo guardano uomini deboli. Uno di loro scuote impercettibilmente la testa e la barba da stregone,
così poco marinaresca, quando lo vede rompere un quadro di pesca di calamari sul cranio di uno che
sarebbe dovuto partire in mare con loro. Sarà il solo ad attraversare il mare! Sono mere comparse, gli altri,
nelle storie degli “eroi”. Un eroe, cosa credete che va a fare sulle schifose coste lontane??, sembra chiedere
con le azioni, agli uomini che picchia, l’uomo o forse il bambino che è stato rinchiuso nella stessa cantina
dove un tempo era incatenato lui. E con le azioni subito risponde, subito afferma: un eroe nasce per essere
una figura che mette le cose in tumulto: non salva niente perché non c’è salvezza. Così dice, così parla coi
suoi colpi e le grida di disperata gioia, contro le pareti e contro le mascelle di squalo appese ornamentali, o,
quando è là fuori, contro l’aria frizzante e le onde del mare, contro il mento di una puttana, stringendo in
mano una pietra rubata. E rompe un boccale, per sbrodolarsi addosso il contenuto e il suo sangue di labbra
lacerate dai vetri, aggiungendo che è il godimento, il suo godimento torbido come i ricordi e da questi
totalmente liberato, a far da spada all’eroe, al conquistatore di isole e mercati lontani.
Improvvisamente i calci puntavano in tutte le direzioni. Le piante dei piedi picchiavano ripetutamente il
suolo, come tamburi d’allarme. Quasi come fosse una parte della coreografia, o perfino una reazione
inerente al movimento, una seconda parte di una frase fatta che andava completata, le altre scappavano,
s’allontanavano dai colpi inferti al terreno dalla danza di lei al centro del cerchio, infranto e ricomposto di
continuo. Dovevano scappare perché era questo il messaggio nei battiti, era questa l’ultima cosa -forse
l’ultima bugia- che Hr aveva confidato alla ragazza bruna, ispirandole la conclusione della coreografia. E
concludendosi raccontò di una bestia. Uscita dalle ombre di strani sbuffanti arbusti di canne e lacrimose
liane, cerca di farsi più grossa, e di pelame più sporco, più frastagliata la sua nerissima lanugine; manda dal
muso lungo e aguzzo morsi, a destra e a sinistra, scacciando gli spettri dell’aria umida e impestata,
allontanando verso le deboli luci della città i viaggiatori che non hanno stomaco per affrontare il calar delle