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Riflessi liquidi, simili a nebulose imprigionate nell’iride, fremevano impercettibilmente mostrando la
reazione dello sguardo all’infittirsi del buio. Con le pupille dilatate e curiose, riusciva a guardare attraverso
ogni cosa, nitidamente, e al tempo stesso in traballante schermo di plasma, come fosse diventato
all’improvviso un essere subacqueo. Questo rendeva i movimenti più distinguibili rispetto all’immobilità, e
la curiosità del gatto diventava un giocoso agguato privo di istinto cacciatore, un inseguimento che mai
sarebbe scaturito da una comoda posizione d’osservazione.
Due passi veloci, un incrociarsi di gambe, che sembrava stesse per farla cadere. Ma anche la caduta era una
parte della coreografia, e lo era il rialzarsi stentato, con sforzo urlante dei muscoli dell’intera figura, verso
l’alto, verso le braccia che si sollevavano al cielo cercando nelle stelle invisibili appigli per aggrapparsi e
tirarsi su. Incrocio di piedi, ancora una volta, finta caduta. E raccontò così di un uomo che nacque nel fango
di una terra di sterpaglie mezze affogate nel pantano, di miscanti, i soli a colorare l’uniformità grigiastra e
bruna di torbiere distese a trapunta sul territorio. Le uniche montagne sono i fumi gettati caoticamente
all’insù dai comignoli, monoliti in tetti di paglia. Occhi di bambino che già hanno raccolto innumerevoli
guerre di insetti tra gli intrichi d’erba vicino ai piedi, osservati da vicino; occhi che non vedono nulla di là da
quei pennacchi di fumo, le altre case sulla torba, le esalazioni dell’acqua marcia: montagne e costa, non così
distanti da quel luogo, venivano tuttavia sempre cancellate da un diaframma d’aria troppo densa, troppo
grassa. In piedi affianco a un canneto da poco cresciuto. Guarda una madre che porta in volto lo stesso
sguardo suo, color delle pietre del muricciolo attorno alla casa, che si aggira senza uscire dal perimetro di
quello stretto giardino, affaccendata. Si vedono a vicenda, senza conoscer cenni né aver mai costretto gli
occhi a contrarsi in un’innaturale risata, che sarebbe parsa come una dissonanza nello spartito delle
torbiere e delle pozze di fango. La schiena schermita da rettangoli di panni bianchi logori sparisce nel
riquadro della porta, il buco nero cieco in fondo alla visuale di lui, rimasto in piedi, rimasto da solo erto sulla
piana, a strappar con la mano sporta il lungo fogliame di un canneto giovane incapace d’opporre resistenza;
in piedi, comincia a far schiudere al suo interno un se stesso più forte, più grosso, più alto, capace di
minacciare anche solo con la voce e lo sguardo -accudisce dentro sé l’unica cosa di cui abbia deciso di
riempirsi, un uomo il quale sempre avrebbe portato con sé, nella voce e nel torace, le diverse specie di fumi
di quella conca salmastra e stopposa, quella sì, è la sua vera madre. Quella è una terra capace di bere tutto,
che amorevolmente e brutalmente gli ha insegnato ad assorbire ogni tipo d’acqua, corrosiva e bruciante
che si riversasse nelle sue sotterranee argille.
Un salto, descrisse una parabola schiacciata ma lunga. Ci si dimenticava a volte che erano tutte della stessa
specie, e che anche in quella forma avrebbero descritto gli stessi movimenti dell’agguato, del
nascondimento. E raccontò così di un uomo che dormiva, incatenato e pronto a svegliarsi, nel baule
temporaneo di un corpo ancora immaturo -il bambino, o preadolescente, in piedi dentro una casa,
completamente diversa. Né pietra né paglia né tantomeno torba, si propaga attraverso le sue superfici
interne un ticchettio d’orologio, calmo e solenne che scivola sulle pozzanghere di sole, sui legni così lucidi
da sembrar untuosi. Librerie stipate e poltrone circondano il basso tavolino di un’attesa, e lui nel salotto è
unica presenza, rivolta alla finestra dove il cielo appare come una lastra straripante di bianco, frazionata in
riquadri. Com’è successo, come s’è trasformata a tal punto la casa che circonda il bambino? Non c’era
modo di saperlo perché solo quello che lui nell’orecchio della danzatrice aveva voluto bisbigliare,
nascondendo e forse mentendo perfino nella convinzione di dischiudersi nel corso di ore destinate all’oblio;
solo la sua storia, per com’era stata scelta da lui, era possibile conoscere. E la coreografia fece conoscere
l’ingresso nella sala di un abito a strascichi verde diafano, e un lungo ricciolo sul collo sfuggito
all’acconciatura, e un volto diverso da quello della donna che ricorda: madre appassita in un morbo d’aria
malsana nella vecchia casa limacciosa. Sostituita da un volto che invita e si contrae in messaggi che
stranamente non appaiono innaturali, che smussano i tagli dell’orologio, della geometrica quiete propagata
nel marrone e nei tappeti. Vassoio. Liquido ambrato tremolante in tazze bianche. Il bambino o
preadolescente, ben vestito, sfodera da dietro la schiena le braccia che teneva incrociate. Lei crede che
voglia accettare la tazza, portarla alle labbra, o forse scostarsi nervosamente, come ha ripetutamente fatto,
una ciocca che, forzata a diramarsi da una riga centrale, gli infastidisce un lato della fronte. Il bambino
sfreccia nel riquadro proiettato dalla finestra, mosaicando di riflessi argentei la marsina blu per lui così
stretta. Le braccia sfoderate verso di lei, che ha osato sorridergli. Una tazza rotola incolume sul tappeto, un
liquido ambrato diventa semplice indistinta oscurità umida, prontamente risucchiata da peli bordeaux,
prontamente incolore. Parte di macchie che rimarranno, senza nome e senza origine, più reali dei disegni
del tappeto nuovo. L’ombra di lui si scontorna nella luce pomeridiana, e il pomeriggio del salotto nei suoi
sensi acuti, nelle narici affinate in lontani giorni di torba, ha odor di regge, corridoi, araldica; e nell’arazzo
del pomeriggio egli è una bestia rampante. Sotto le zampe sfoderate e il corpo ricurvo si rannicchia una
prigioniera -così il prigioniero dentro lui, l’uomo che sta allentando le catene, apprende ad accettare i
sorrisi che gli vengono rivolti, soltanto in alcune circostanze che deve crearsi da sé. A forza di zampate
creerà sempre le condizioni -prenderà e sottometterà ciò ch’è suo per potersi beare della beatitudine, falsa
e compiacente e spaventata, nei volti altrui; con le zampate scaccerà quella nebbia di sensibilità accumulata
come zavorra nell’infanzia di campagna, che ancora l’invade, impedendo all’uomo di uscire.
Danzava, continuava a danzare la ninfa bruna! Ricordava ciò che Hr le aveva detto: sono pericoloso per voi!
L’intrico dei piedi e il balzo s’arrestarono, no, si evolvevano, in un fluire magmatico: così diventava la
pioggia quando incontrava il suolo, tanto tempo fa. Ora i fianchi e i calci oscillavano lateralmente,
ipnotizzavano il gatto e le gatte e gli occhi ignari di Dii spargendo un mal di mare di terraferma. E raccontò
così di un uomo alto e forte che ha preso rifugio in una locanda. Ma non è un rifugio, non esistono rifugi per
lui in quei giorni: esistono occhiatacce di uomini che s’illudono d’essere partecipi della sua stessa visione
della vita. Sono sciocchi. Col cervello invaso da pesci scorpione e tentacoli urticanti, l’uomo s’alza dal tavolo
e s’avventa per sbloccare quella rissa che non attendeva altro che un segnale, un iniziatore. Bastano le
forme digrignate di sguardi e denti, nel suo mondo. In un istante è pronto a screziare i tatuaggi di ancore sui
muscoli scoperti. In fondo alla locanda maleodorante, nella triste penombra che assomiglia a un antro
marino, lo guardano uomini deboli. Uno di loro scuote impercettibilmente la testa e la barba da stregone,
così poco marinaresca, quando lo vede rompere un quadro di pesca di calamari sul cranio di uno che
sarebbe dovuto partire in mare con loro. Sarà il solo ad attraversare il mare! Sono mere comparse, gli altri,
nelle storie degli “eroi”. Un eroe, cosa credete che va a fare sulle schifose coste lontane??, sembra chiedere
con le azioni, agli uomini che picchia, l’uomo o forse il bambino che è stato rinchiuso nella stessa cantina
dove un tempo era incatenato lui. E con le azioni subito risponde, subito afferma: un eroe nasce per essere
una figura che mette le cose in tumulto: non salva niente perché non c’è salvezza. Così dice, così parla coi
suoi colpi e le grida di disperata gioia, contro le pareti e contro le mascelle di squalo appese ornamentali, o,
quando è là fuori, contro l’aria frizzante e le onde del mare, contro il mento di una puttana, stringendo in
mano una pietra rubata. E rompe un boccale, per sbrodolarsi addosso il contenuto e il suo sangue di labbra
lacerate dai vetri, aggiungendo che è il godimento, il suo godimento torbido come i ricordi e da questi
totalmente liberato, a far da spada all’eroe, al conquistatore di isole e mercati lontani.
Improvvisamente i calci puntavano in tutte le direzioni. Le piante dei piedi picchiavano ripetutamente il
suolo, come tamburi d’allarme. Quasi come fosse una parte della coreografia, o perfino una reazione
inerente al movimento, una seconda parte di una frase fatta che andava completata, le altre scappavano,
s’allontanavano dai colpi inferti al terreno dalla danza di lei al centro del cerchio, infranto e ricomposto di
continuo. Dovevano scappare perché era questo il messaggio nei battiti, era questa l’ultima cosa -forse
l’ultima bugia- che Hr aveva confidato alla ragazza bruna, ispirandole la conclusione della coreografia. E
concludendosi raccontò di una bestia. Uscita dalle ombre di strani sbuffanti arbusti di canne e lacrimose
liane, cerca di farsi più grossa, e di pelame più sporco, più frastagliata la sua nerissima lanugine; manda dal
muso lungo e aguzzo morsi, a destra e a sinistra, scacciando gli spettri dell’aria umida e impestata,
allontanando verso le deboli luci della città i viaggiatori che non hanno stomaco per affrontare il calar delle
tenebre. Rossi ringhi dalla sua lingua e fiamme implicite nella coda a spazzola arricciolata come il pizzetto
del diavolo in cui non crede, volendogli usurpare il ruolo. Indurre in tentazione: era questo il nome
dell’esperienza annichilente, la malattia scura che pervade le menti di quanti hanno ricevuto i suoi morsi
infetti, quasi velenosi. E una bestia continua a mordere e ringhiare e ululare, gli artigli affondati nella torba
a inchiodarla sul posto, anche quando non ci sono più spettri e non ci sono più viaggiatori né sulla terra né
sul mare, non ci sono più fanciulle smarrite e affannate, dileguatesi senza dolore come ombre di gatti in
quei cunicoli negli arbusti preclusi alla sua stazza.
Il gatto sussultò. Capì che la danza di quella giovane si era conclusa.
(-ti è piaciuta?)-, fece rivolgendo in su verso Dii la faccia resa tonda e buffa dagli occhi ora acquosi. Non era
facile capire cosa fosse il rantolo di Dii: poteva significare che gli era piaciuta perché in quel momento era
difficile che non gli piacesse qualcosa, o che non s’era accorto di nulla, o che in fondo le due cose
coincidevano. In ogni caso era il rantolo che il gatto si aspettava, e contento, ancora in capogiro anche lui
per gli effetti della strana ipnosi collettiva, mandò una nuova sequenza di fusa al marinaio che continuava a
non deluderlo, e si voltò ancora verso il cerchio delle donne per osservare la danza successiva.
Uomo di nome Kiy, uomo di nome Kiy. A turno intendevano raccontare degli alieni, o forse gli “eroi”, giunti
a mettere le cose in tumulto.
La ragazza che raccontava di Kiy era esile, sinuosa, e i suoi tratti del volto, che il gatto non aveva osservato
con sufficiente attenzione quando le cose ancora erano integre, durante la distorsione provocata da
quell’ebrezza fisica sfuggivano, si ritraevano nelle ombre rendendosi inafferrabili. E i suoi movimenti anche
si ritraevano, facendo ondeggiare le braccia le riportava verso sé, come ammainasse la vela del buio con un
lento e paziente trascinar di corde. I piedi nell’erba imitavano, retrocedevano, e le altre dovevano far gesto
di riportarla, di farla uscire dall’antro che creava per se stessa bucando l’aria con la sua schiena desiderosa
di rannicchiarsi. Con gioia accettava le loro imposizioni, con gioia vi sfuggiva di nuovo. E a ogni suo ritorno
pareva al gatto che, pur rimanendo esile, diventasse più grande la sua figura, che i suoi contorni
racchiudessero cose in maggior numero e più sorprendenti -così, dovevano essere, anche quelle carte
geografiche di cui aveva sentito parlare, così care alle creature dei continenti: sempre si disegnavano nei
mari paglierini di planisferi, che pur sembravano non potersi estendere oltre, nuovi vortici, nuovi mostri
sputafuoco dei flutti, nuove isole perfino. La sua era una danza che non facendosi ben vedere spargeva
simboli. E raccontò così di un uomo che non aveva passato: gliel’avevano sottratto, era nel becco
acuminato di un’ombra dalle ali così belle, così estese da riempir il cielo di tempesta e costringer lui, unica
creatura erta sul pianeta calato nella tenebra, a guardar in su commosso, incantata vittima dei lampi sparsi
dalle piume lasciate cadere all’indietro mentre si compiva la migrazione, il furto di quanto all’uomo era
appartenuto. E pur senza un passato viveva nel ricordo: vivendo nel niente, aveva creato un vuoto, una
bolla intagliata nella densa tenebra ch’era diventata la terra. Così fluttua. E sembra fluttuare in eterno,
l’uomo la cui barba è diventata una nube, le cui cavità oculari sono mere irregolarità di un grigiore
senziente. Ma qualcosa interrompe il suo vagabondare sospeso: nello stesso cielo attraverso il quale il
volatile s’è allontanato, ormai irraggiungibile perché è lo spazio stesso, s’apre un secondo squarcio. Sembra
fluttuare alla stessa altezza, sembra per lui uno specchio. Da dove lo sta raggiungendo? È uno squarcio di
luce, come la ferocia del sole quando sembra comporre saette sulle sagome delle nuvole nere,
annunciando il proprio ritorno e la loro dispersione. In un globo di luce suo speculare fluttua, miraggio così
distante da non poterlo mai toccare, un corpo nudo abbronzato, sferzato da un’aura di raggi; sembra
fuoriuscire da onde, e s’addensano, cristallizzando un guscio, un dorso d’immersione, pagaie che remano ai
lati per arti. Colli di serpente s’attorcigliano attorno al busto umano che da lì sguscia, e soffiano la schiuma
che attorno diventa vapore, diventa la luce stessa, e poi diventa piume, piume numerose che vorticano.
L’uomo dissolto nella fluttuazione cerca di guardare in volto tale immagine, volendo osservare la corona
che le piume compongono. Occhi di braci rosse gli arroventano la vista. Si accorge che quella cosa dal
terribile e irresistibile sguardo stringe in mano gli elementi, una lunga folgore viva.
Un secondo sussulto irruppe nell’osservazione, resuscitando nell’istinto del felino l’ansietà ch’era stata
estinta per i pochi attimi della danza, l’effimera illusione di fare un gioco d’ogni simbolo. Ricordava il
presentimento vago e spaventoso nascosto nell’avvicinamento, inesorabile da qualche parte nella vasti
della foresta, della regina spettrale. Ma era in sostanza qualcosa di molto diverso. Si sarebbe potuto alzare,
il gatto, e rizzare il pelo, quasi preoccupato per la difesa di una prole o di un semplice pertugio dove avesse
riposto i suoi oggetti preziosi: perché la minaccia estremamente fugace che pure era riuscito a cogliere per
un attimo, sentendo dissiparsi l’ipnosi, era qualcosa che rischiava d’avvicinarsi a Dii, seduto a gambe
incrociate, custode.
Era il turno di Dii! Immediatamente le orecchie sensibili captarono il graduale arrestarsi delle membra delle
danzatrici, leggendovi senza nessuna difficoltà -erano pur sempre della stessa stirpe- che, essendo Dii lì
presente, non avrebbero raccontato di lui. E non per pudicizia o civetteria. Di lui avrebbero fatto qualcosa,
l’avrebbero fatto entrare a forza, come ammutinati che sguainate le sciabole le puntino ai martiri delle
passerelle, nel loro sogno vivo, svolgentesi sotto lo spazio cerchiato dalla radura. E simili a spiriti risvegliati
dall’improvvisa percezione di un nettare astratto, o l’attrazione di un feromone propagato nel mezzo della
preghiera, si voltarono all’unisono. Le tre danzanti al centro -dunque anche la terza che avrebbe dovuto,
secondo ordine, raccontare di Dii-, e anche le comprimarie, ruppero con sguardi accesi d’una specie di
brama, che nessuno avrebbe saputo definire o nemmeno identificare come tale, il rigore del loro modo di
star sull’erba ch’era per questo simile a un’esibizione cerimoniale. I luccichii negli sguardi scivolarono
attraverso l’aria spargendosi in pulviscoli dagli occhi un po’ ricurvi, quando in una massa compatta di spalle
e capelli si avvicinarono tutte verso lo stesso punto, quello nel quale Dii stava seduto, a gambe incrociate.
Sembravano voler predare qualcosa ch’era in lui, lui stesso, qualcosa su cui era seduto -e sembravano farlo
per il voler d’un magnetismo.
Il felino maschio balzò un istante prima che arrivassero all’obiettivo, toccandolo con tante mani, che
parvero diventar migliaia. Sembrava proprio un esemplare giovane che trovi il suo sonno disturbato dai
giochi infantili, e scendendo dalle gambe o la poltrona si allontani concitato in cerca di altra quiete.
Accarezzavano petto, spalle, braccia. Dii, ancora seduto, non era però più immobile, tremando appena
come un povero vecchio vessato dai reumatismi. Dita di colori ambrati, rese omogenee dalla notte,
attentavano alla sua incoscienza, riuscendo a farvi strisciar dentro, in chissà quali incustoditi buchi della
rete, una forte e impacciata confusione. La capiva bene, osservando, il gatto: il suo ormai non più padrone,
il suo padrone abbandonato, se ne stava a mandar da un labbro pendulo strani e lunghi rantoli, diversi da
quelli che prima s’era aspettato di sentirgli pronunciare. E più forti li ripeteva quando ancora lo sfioravano
ed erano loro stesse, quasi in un coro serafico, a rivolgergli melodiosi vocalizzi, tra loro armonizzati in una
coltre tremante, come provenissero dalla confluenza delle note, soggette a variazione, di molti sbadigli
lasciati appositamente allungare in un languido strascicarsi del fiato. E un nuovo tipo di sonnolenza, agente
sull’autocontrollo, scendeva in quel sogno in cui così lo trascinavano, con tante mani, tante voci.
Dii era chiaramente in difficoltà. Il gatto dovette confessarsi che provava imbarazzo. Mortificato, si
abbassava verso il terreno, completamente ignorato dalle donne ch’erano andate senza indugio dove
volevano andare, a far quel che intendevano fare. Coi passetti felpati si allontanava, incerto e ancora
tendente a voltarsi per continuare a guardare la scena sulla quale pure non aveva nessuna influenza -non
s’era vista, alla fine, alcuna rizzata di peli accompagnata dai soffi di un guardiano frapposto tra minaccia e
oggetto della sua fedeltà. E pensandola così finì con l’abbassare anche le orecchie. Rivolgendosi a Dii, che
per suggestione gli sembrò perfino arrossito nella tenebra e confuso come può esserlo un uomo normale
preso da normale imbarazzo e che non abbia mai conosciuto niente di così strano come una danza
annebbiante, chiamandolo mentalmente con una certa timidezza, gli diede una specie di giustificazione, in
verità cercandola per se stesso, creaturina spodestata dal suo comodo trono di gambe. Vibrisse afflosciate
e nuove striature comparse sulla fronte, fatte di grinze di pelle, nervoso digrignare che raramente s’era
rivelato necessario nelle sue varie vite. Come raramente necessarie erano state giustificazioni come quella
che immaginava di star fornendo.
(-…ah, e, insomma… oh, e che ti aspettavi? Sono un animale egoista, dopotutto… cosa vai a pensare…)
…o qualcosa del genere. Senza specificazione alcuna su cosa potesse essere ciò che s’era immaginato che
Dii fosse andato a pensare.
Povero Dii. Si riusciva a vedere il suo petto ansimare. Che qualcos’altro fosse stato chiamato dalla grotta
infossata molto in profondità, oltre al singolo e piuttosto etereo filamento attivo della coscienza? Quelle
mani, pensanti autonomamente in ciascuna falange del dito e assieme concordi come l’anima monolitica di
un’intera catena montuosa, sapevano dove andare a toccare per far saltare meccanismi a lungo collaudati.
E nulla le avrebbe disturbate. All’improvviso ci si ricordava di trovarsi in una radura cerchiata dagli alberi e
dalle stelle. Occhi rotondi acquosi si rivolsero alla volta celeste puntellata di asterischi lattiginosi, nessuna
scia di meteorite sfregava abbastanza l’atmosfera da farne arrivare il cosmico sfrigolio sulla terra. Braccia
continuavano a emergere da una massa simile alla capigliatura intrecciata e viva di una gorgone, e
raggiungevano quell’uomo le cui membra sembravano essersi casualmente raggrumate in forme varie
attorno al suo petto palpitante, componendo soltanto per coincidenza un fantoccio. Alcune lucciole
volavano, tranquille. Senza un suono passò l’unico volatile di una certa grandezza che fosse stato possibile
distinguere, un’ombra di allocco che in planata rasoterra sparì bisecando l’intera area. A Dii sarebbe
piaciuto accorgersene e osservarlo.
(-aah, poveraccio. Lo posso sentire anche da qua, quanto sia allarmato da quei tocchi, e dal non sapere
perché. Riesco a sentire anche l’odore delle cose che gli vengono suscitate a ogni tocco. Dev’essere, il mio
padr… no, ormai no. Deve essere, quell’uomo, forse, uno di quei cosi, con cui si dice che venga prodotta la
musica. Solo che, schiacciando i suoi tasti, si evocano tante impressioni diverse che stavano là in serbo, in
attesa di saltar una dopo l’altra secondo i comandi di una diteggiatura. Forse è questa che chiamano
musica? E certo dev’essere qualcosa che solo loro di là possono dire di aver………..)
Il gatto riteneva, forzandosi a ragionar scriteriatamente con lo sguardo ora agli astri ora alla scena bizzarra,
di poter scacciare quel leggerissimo rimorso che aveva provato nei confronti di Dii. Funzionava a meraviglia.
(-………un disagio palpabile che non può non assomigliare a quello che provano quelli come lui davanti alle
immagini incorniciate, veri e propri incubi dentro assurde uova di legno. Assurdità! Un interessante
concetto che apprendo, è un concetto fondamentale dei rovesciamenti del loro mondo. Assurdo.
Quest’isola lo è. Questi tocchi lo sono, per lui, un rovesciamento, perfetto o terribile. Come di fronte agli
incubi incorniciati… l’uomo di nome Dii si starà riempiendo la testa di serpenti, come compaiono tutti
contorti e bianchi nelle immagini pietrificate che là da dove proviene si divertono a esporre all’esterno degli
edifici come se fosse una cosa normale? Come se non fosse invece la pietra che diventa visione, diventa
proprio ciò che è pietra meno di ogni altra cosa? Ignorano tutto questo. Ed è terribile aver tutto questo
sempre in testa, soprattutto se ti viene stimolato da… ah, chissà cosa. Povero Dii, c’è da dire però…)
L’interruzione nei pensieri fu dovuta, d’un tratto, non più alla loro deliberata assenza di struttura. Qualcosa,
vestendosi d’una riservatezza così fitta da non poter essere percepita che da un essere a strettissimo
contatto con ogni minima variazione del sensibile (definizione in cui il gatto francamente non si identificava,
ma…), appariva da qualche parte, in qualche lontana fronda, in qualche separata ombra, annunciando di
arrivare. E il suo annuncio finale, trasformato in trionfale ingresso, sarebbe risuonato tanto più eruttivo
quanto riservata si manifestava in quel momento, nella sua attesa d’esistere intercettata, chissà per quale
caso, soltanto da un felino vagamente mortificato. O meglio, da lui per primo.
Poco dopo qualcuna di loro percepì l’imminenza. Avevano notato il gatto, che d’un tratto sembrava più
piccolo come un comunissimo micetto impaurito sulle tegole d’un sonnacchioso paesello arroccato,
abbassarsi al suolo fin quasi a schiacciarsi e far spuntare come obelischi dall’erba soltanto le scapole,
sporgenti in maniera inverosimile. E i suoi occhi! Ancora più tondi e sciocchi, simpatici a vedersi, infilati in
una mascherina di improvviso disagio, che non era davvero disegnata nell’espressione dell’animale come in
certi animali di lontani territori oltroceanici. Se avesse potuto sbiancare e manifestare il pallore attraverso
tutta la pelliccia l’avrebbe fatto. Ma in un attimo lo spavento divenne attenzione, cura cauta d’ogni
elemento. L’aura di qualcosa in un istante si sintonizzava ai sensi, ai fili che questi tessevano
bidirezionalmente con tutte le cose attorno. Il gatto era i suoi sensi stessi, era il loro oggetto assieme, era
tutto l’insieme. Non passò perciò molto prima che anche loro, appartenenti alla stessa sua specie, notando
la sua mutazione si mettessero in condizione di captare, raccolta sufficiente concentrazione, la stessa cosa
che stava captando lui. E rabbrividirono, e sarebbero sbiancate, anche loro, se il pallore avesse potuto
attraverso la perenne abbronzatura che al buio non si distingueva bene; e continuarono a essere
altrettanto indistinte. Smisero di toccare ossessivamente il corpo e sussurrare strani sbadigli nelle orecchie
di Dii, incapace di godersi il momento di tregua, così sconvolto nella respirazione, nel suo travagliato
mezzo-sonno da seduto. Le prime ad aver distaccato le mani si tenevano in disparte dalla massa tentacolare
delle compagne, in ascolto di qualcosa che sembrava muoversi a incredibile velocità tra una chioma e l’altra
in fondo alla foresta, tutt’attorno -il cerchio della radura diventava uno svantaggio, una trappola: e il
fantasma in viaggio avrebbe potuto squarciare un portale in qualunque direzione preferisse per apparire in
un connubio di spazio e istanti, come senza aver attraversato un solo miglio tra un mondo e l’altro.
Non era una creatura normale. L’istinto felino riconosceva sicuramente questo. E nelle torbide cavità di
istinto e suggestione prendevano forma, sferzanti, movimenti come vive e intrusive liane: braccia,
nitidamente immaginate. Enormi e lunghissime braccia si slanciavano tra i rami per raggiungere un
richiamo. Zanne sporche giallastre sfoderate da flaccide labbra urlanti. Occhi di fantasma. Doveva essere
uno di loro. Finalmente si fanno vedere, pensò una parte del gatto. Vorrei sparire, pensò un’altra parte.
Si aprì il fogliame ammassato tra i tronchi per l’ingresso d’un corpo di oscurità. Mandarono ciascuna un
diverso grido, le donne danzanti nella sera offerta in omaggio al disordine, e per pochi istanti si
sparpagliarono, cercando ramificate fughe nel folto d’ogni parte, per mille direzioni che si lanciavano fuori
dal cerchio, pronte a farsi solchi sotto le corse. Dii contrasse una smorfia da mal di pancia improvviso e si
fece più piccolo, prima di tornare indiffirente. Immobile, il gatto si congelò ancor più, soffrendo nelle
interiora che volevano vita autonoma per gettarsi via ovunque fosse possibile, infrangendo i limiti del
corpicino. Per primo capì, come per primo aveva sentito, che c’era stato uno sbaglio. Non si trattava della
creatura che avevano temuto. Presto ritornarono sui passi scappati le fanciulle che, molto insolitamente
per le iniziate della loro età, avvertirono una sorta di inadeguatezza per non aver riconosciuto proprio lei
nell’immediato di un irrisorio istante, come sarebbe dovuto convenire a tutti gli esseri che fossero in
profonda e gelosissima sintonia.
La regina oscura, di ossa e altri scheletri di cose trascorse che ovunque sembravano adornarla, in simboli e
pareidolie. Poteva sembrare che subito come a farsi perdonare le si gettassero attorno, con inconsapevole
sforzo di mantenere in ogni momento una distanza carica di tensione. La regina sembrava prevedere ogni
mossa, non stupirsi di niente, non rimproverare, non trattenersi da un recondito quanto netto giudizio
pronunciato tra sé e sé così da rimaner non letto, eternamente angosciante nella sua illeggibilità. In una
lingua che conoscevano solo loro, le giovani che non conoscevano mai affanno mugugnarono qualche
domanda che pure, quella volta, si sarebbe detta imparentata all’apprensione. Pochi singulti e cenni di
mano bastarono alla regina.
Il gatto, sprovvisto di organi articolatori che gli permettessero di esprimersi in quello stesso linguaggio, capì
tutto immediatamente. Era strano -assurdo, come avrebbe potuto decidere di definirlo a quel punto. Capire
tutto di ciò che non si sa affatto: è come sentire nel petto e le zampe ancor piegate il pungolo rabbrividente
nel molle interno di un cucciolo che riconosca, nel brusio lontano, le note di una nenia cantatagli soltanto
dalla madre nel lontano sonno della cucciolata ancora cieca e atrofizzata. Qualcuno che aveva sussurrato
nelle sue orecchie tutte le parole e tutte le necessità di quella lingua, facendola apprendere al suo sonno, al
suo sonno soltanto, senza impronte nella memoria e la veglia. Impalato lì capì, e cominciò a muoversi.
Preso così, lì in basso tra le gambe alte delle sue sorelle, ancora cautissimo, incapace di parlare come
parlavano loro, più che mai diventava un comunissimo, leggermente disorientato, striato gatto bruno.
Occhi verdi mai si staccavano dall’oggetto della curiosità, il verde di lei. Quel verde che pareva diverso da
qualsiasi altro nel cranio nudo, quel suo forse immaginario sorriso dispensato alla circostante pioggia di
domande, quasi da precettrice paziente e segretamente altezzosa verso le seguaci. Che l’ascoltavano,
prontamente accettando il da farsi, di cui ardentemente -sebbene non avessero più in sé qualcosa che le
mettesse in grado di riconoscerlo- s’erano volute informare. Adesso continuava, o meglio sul serio iniziava,
la marcia nella foresta. Prima che fosse arrivato quel coso spaventoso, prima ancora anzi che potessero
udirne l’urlo. Passi nella foresta profonda che sembrano a migliaia. C’era allora modo -lo trovavano ancora
una volta confermato- di render cerimoniale anche una festa fatta rumoreggiare nella spontaneità e i suoi
instabili pretesti, di concludere una danza con una processione anche quando non erano la posizione del
sole e la luna e le stelle a determinare un omaggio a una qualunque delle cose esistenti. Una processione in
omaggio alla fuga? Solo quando appariva la regina oscura si riuscivano a pensar cose mai pensate prima.
Eppure anche queste erano parte del novero delle cose esistenti! Quanta gratitudine, quanto malriposto
timore dovevano tributare a quella sovrana che cominciava forse a imputridire in qualche angolo di costola,
elegantemente sfiorato dalla collana e i drappi sgretolantisi in frastagliate lanuggini.
-venite con me. Seguendomi, qualsiasi timore diventa sconveniente. Nei confronti di qualunque cosa.-,
disse, sapendo di spaventare un po’, appena quanto bastava a soddisfare una sottospecie di fame che la
invadeva nel rapportarsi alle altre creature capaci di interagire con lei, come se in quei momenti sentisse
tutto intero il lancinante languore nel torace cavo, e volesse riempirlo procacciandosi stimoli che tra sé e sé
preferiva definire un’innocente propensione a fare dispetti.
S’incamminarono, e la processione si srotolò lenta verso gli spazi scuri tra i tronchi, senza la commozione e
il formicolare di una festa interrotta da un improvviso temporale, una sciagura in procinto di cadere con
tutta la forza della sfortuna sugli animi bramanti distrazione. Paura e premura irradiavano come un’aura
trasparente, e dunque mimetizzata nel buio, dalla regina che diventava l’unica cosa temuta, da creature
che in sua presenza non potevano toccar nemmeno il proprio senso del pericolo, intruso d’origine ignota.
Con stupore, infine, il gatto restava lì, nella radura, ancora teso e soggetto alle ultime scosse di una
tremarella, constatando che Dii s’era alzato in piedi, e con la stessa presenza mentale d’un qualsiasi
cadavere galleggiante nella debole corrente di un fosso, si limitava a seguirle tutte quante. C’era una certa
ammirevole naturalezza nel modo in cui evidentemente s’era considerato parte indiscussa della
processione, e forse ancor più da ammirare era il breve tempo che gli ci era voluto per “risvegliarsi” -per
quanto rimanesse esattamente lo stesso- dal suo precedente stato psicofisico in cui erano esclusi tutti i
movimenti della volontà e delle gambe. No, Dii si allontanava, mezzo incosciente, nel folto della foresta. Ed
era perfino la scelta più intelligente.
(-…dai, non.. non andare! Ho sbagliato, lo so!)
(-…sono io che sto diventando completamente scemo.)-, aggiunse presto il gatto, quasi desolato sapendo
che mai prima di quella sera avrebbe mai pensato di poter pensare in questa maniera. Dii era stato il suo
padrone per un po’, e adesso non lo era più, e adesso si allontanava per la sua strada -cioè dentro la
boscaglia, ben bene al sicuro protetto da tutti gli alberi, con tutte le altre, com’era giusto che facessero
dietro alla regina di quelle ore, l’unica che avrebbe saputo condurle in un posto a lei noto, che la cosa
aggressiva berciante tra i rami non sarebbe stata capace di rintracciare. L’unica che sapesse farli sparire.
Bene, l’istinto diceva chiaramente che sparire era la cosa più giusta da fare. E che era naturale che un
padrone di un periodo breve si separasse dal suo animaletto di un periodo breve. Bene.
(-e allora perché non so che fare?)-, disperò per pochi istanti il gatto, vedendosi ancora là, da solo nella
radura. L’allocco, sollevatosi da un ondeggiante gruppo di steli d’un turchese scuro, reggendo nel becco
qualcosa che aveva cercato con ansia, si sollevò muto nell’aria, dileguandosi anche lui dal cerchio.
Rimaneva un solo titubante testimone del fenomeno luminoso, la moltiplicazione giocosa e agrodolce di
tutte le stelle e gli insetti campestri colti all’interno dell’occhio nudo nel cuore della foresta. Che fare?
Allontanarsi anche lui. Era un randagio, ormai. E il suo padrone era un randagio. Chissà quali erano i suoi
impulsi, i tasti toccati nel suo strumento musicale che avevano prodotto quella risposta in maniera così
spontanea, che in quel momento s’era dimostrata più efficace di un istinto collaudato da millenni di
evoluzione nella scelta della strada più incolume. A capofitto nell’invisibilità, introvabilità garantita dalla
regina d’ombre. Mah, pazienza. Era pur sempre un felino selvatico: anche se non le avesse seguite,
rifiutandosi d’entrare nel corteo di quella ch’era la sua specie e al tempo stesso gli giungeva così estranea,
non gli sarebbe stato difficile scorgere un altro grumo d’ombre in cui gettarsi e velocemente sparire
recuperando tutta l’elusione del piccolo cacciatore -magari semplicemente scegliendosi un’altra direzione
nel folto.
(-vi saluto, allora.)-, fece rivolto alla nicchia in fondo a un tunnel di tronchi in cui aveva visto sparire l’ultima
della fila. Randagio, sembrava ancora un esemplare domestico, infinitamente comodo, geloso della
comodità, terrorizzato dalla suo crollo, finalmente giunto dopo non aver mai cessato di minacciare di
arrivare da un momento all’altro. E da una finestra osservava separarsi per sempre da lui tutti gli altri,
danzanti nella vita, spontanei e senza complicazioni nell’infiltrarsi in una processione diretta all’ignoto
quando, formandosi da sé e senza alcuna frattura col cosmo intero come una carovana di nubi nel cielo
primaverile, sceglievano d’andare fino in fondo a dove potevano andare.
Dopo quel saluto e un’ultima scrollata di spalle, proprio in tempo perché non fosse trovato da un diverso
tipo di bestia, sparì, a modo suo, anche lui.
(-ciao, allora. Sì.)
-..mmh…-, mugugnò la ragazza.
La regina, dopo averle dato un’occhiata laterale, dimezzata, ma sufficiente a scorgerla tutta intera e fin
dentro le viscere, si limitò a sorriderle. Sembrava la invitasse dentro una trappola, chiedendole di rendersi
consapevole di entrarci, e far finta di accettare la cosa. Per gioco.
-…io ti ho vista.-, disse la ragazza. E la regina sorrise.
Grilli nuovi, di diverse specie, erano nati negli angoli più remoti della foresta. L’intero corteo procedeva
come un’unica anima affaticata, gravata dalle scosse interne di un fiatone che andava gonfiandosi man
mano che procedevano in salita. Laggiù, cominciavano a esserci le montagne dell’altro lato dell’isola, non
quelle dove lei, ragazza giovane e vecchia in uno stesso istante, s’era trasformata per la prima volta,
battezzata dal sole in un prato d’alta quota, mai più se stessa -così le aveva detto la madre. Bastava
trasformarsi una volta per trasformarsi per sempre, forse; ma trasformarsi per sempre non era abbastanza,
come avrebbero potuto credere, per capir tutto, e tutto conoscere dell’isola. Strane montagne di tenebra
accoglievano i passi in salita.
-ah, sì?-, disse la regina, non sembrando affatto interessata. La ragazza era schietta, lo era sempre, e ogni
affermazione passava attraverso lei come sempre senza filtro. Eppure, solo in quel luogo, quello spazio e
tempo, quella spontaneità rallentava, come se anche questa partecipasse della camminata con i suoi attriti
così concreti e pesanti, parenti della pietra.
-sì. Ti ho vista. Ma non so. Ti vedo adesso.
-mmh…
-sei bella. Fai paura.
-ti ringrazio. Sei una dolce creatura.-, la reggina sorrise, strabuzzò le cavità oculari vuote, piegando la
rigidità del cranio senza sforzo. La ragazza era dotata di sufficiente incoscienza, con la quale penetrava i
misteri preclusi alla saggezza, per non raccapricciare fino a diventar folle avendo appena visto quel gesto.
-sei anche una cosa che non si vede.
-ma non dici di avermi vista?
-ti vedo. Non so.
Spontanea, la ragazza, che s’era separata in un giorno lontano con parole di speranza da una regina di luce,
articolava la stranezza dei ricordi, che nel suo eterno presente non sarebbe dovuta essere in grado di
richiamare. Sarebbe dovuta semplicemente “diventarlo”, trasformarsi in memoria custodita nel sottosuolo,
nello spirito dell’isola di terriccio e granito e acqua e buio e luce. Così le aveva detto la sua regina. E ora, al
cospetto di una che sembrava lei e sembrava un’altra, s’apriva un rientranza nel suo pensiero. Curiosa, si
avvicinava, un’affermazione/domanda alla volta, verso la tenebra intensissima, più intensa di qualsiasi
chiusura, che s’ammassava dentro quell’insenatura. Così si rapportava all’effetto magico, lo scheletro
vivente e anzi più vigoroso di tutte nel condurre l’intero esodo, l’effetto di aver ricordi senza averne. E
ricordare un contrasto: regina di luce, insenatura d’ombra. Questa donna è una cavità ambulante.
-mmmhh..-, fece, di nuovo sorridendo, la regina che capiva tutto di lei. Se la ricordava: per lei non erano un
segreto le zone d’ombra della memoria. Freddamente sfiorò con una delle sue lunghe e grigie dita una
ciocca di ricci rifluenti, dandole una carezza gelida mentre camminavano fianco a fianco. Una madre che
guarda con accondiscendenza alle figlie, sperimentando la propria compassione soltanto attraverso strati di
paura. Le intimoriva più di una madre che urlasse e scalciasse -cosa che, fortunatamente, queste ingenue
creature non avevano mai conosciuto.
-sei stanca?-, chiese all’improvviso la ragazza alla regina, che continuò a non stupirsi di nulla, e a sorridere il
sorriso di un gatto che giochi con un roditore catturato per fare esperimenti.
-se sono stanca? Non più di sempre. Non meno di mai.
La ragazza sorrise. Non le interessava la risposta data dalle parole.
-sono felice di sapere che stai bene.
La regina rise sonoramente, una specie di tosse. Erano difficili da capire certi esseri, ma la affascinavano, e
non poteva fare a meno, durante le sue apparizioni, di guardarli, al punto tale d’assomigliare a un corpo
celeste che abbatta sul mondo le luci del suo sguardo fino a imprimerne il riflesso traballante sulle superfici
d’acqua.
(Oh, sì, sono stanca. Ed è sublime. Sei cambiata, figlia mia, sorella mia. Ti ricordi di me, dici. Ma io non sono.
Sono un’ombra. Dipendo. Eppure più di ciò da cui dipendo voglio vivere. Lei, che riconosci nelle mie labbra
nonesistenti, che vedi nonesistere perché ora anche tu non sei tu, non la te multipla e non-unica che sei
diventata, ma stai riacquisendo in mia presenza quelle che chiamate “ossa”: le cose cioè sepolte nel buio.
Ogni parte di te rimane archiviata: questo, “lei” con le labbra di carne, te l’ha detto. E ti ha mentito: finché
sei qua con me, finché io son libera di danzare con voi sotto la luna procedendo sui passi di un temporaneo
e selvaggio incanto, tu non sei non-unica, tu non sei entrata in quella cosa che grande che sta “da un’altra
parte” e ti rende multipla, ti rende spiaggia. Oh, finché ci sono io -e devo esserci perché vi possiate mettere
in salvo da un terrore che una normale regina non può comprendere-, finché vi proteggo come vostra
madre di tenebra sentirai splender nella notte, custodito in fondo a te, ciò che sei stata e in silenzio
continui a essere nonostante la metamorfosi. C’era “un’altra parte ancora”, e non era un’altra parte del
tempo, no, non era la tua crescita; in un’altra parte dello spazio sei finita, un’altra parte dell’eterno
presente, in cui puoi entrare sollevando un velo segreto che scorre oscuro sotto le cose: abbracciati adesso,
incantevole ombra di ragazza. Goccia di sangue immersa in un grande mare rosso. Si sbagliava, lei, altra me,
a dire questo senza sottolineare: tu stessa sei il mare rosso. Ricordatelo. Solo per gli istanti in cui sarai, in
cui voi tutte sarete con me. La stesa materia degli astri? Sì, ma astri diversi. Vedi le stelle camminare e
danzare sotto le altre stelle? No, non le vedi: ci sei solo tu, tu, mia bella ladruncola che ti ricordi e non ti
ricordi di me, tu, bellissima anima che finalmente torna a rivivere grazie all’incantesimo del buio e delle luci
sue figlie. E voi in me, vostra madre, vi ammucchierete, per dir che esistete al centro del mio grembo
infinito, brillerete per bucarmi l’utero, cantando e percuotendo i vostri nuovi tamburi, sono qui, sono qui,
sono qui e uccido mia madre. E io, enorme, stillo raggi perlacei dalla ferita che mi avete inferto. E io
riconoscerò ogni costellazione, e poi smetterò di riconoscerle, perché invece riconoscerò ognuna di voi.
Ecco cos’è la vostra notte, il vostro cielo incastonato dalla radura. Ecco chi sono io, la notte stessa che
resuscita il sé.)
(e quando c’è il sé dovete temere sempre, e del timore gioire urlanti, incantevoli, stregate.)
(e immergendovi in voi, scendendo nel buio dentro tutto e il rimbombo del battito dentro tutto, rivedrete
eternamente voi stesse che cancellate tutto quanto, che ve lo divorate, come io con voi, agonizzante ma
intenzionata a vivere fino all’ultima esalazione, ferita a morte da voi. Questo è il mio velo strappato: sono
una scheletra ma vivo più di sorella carne.)
La ragazza continuava a tener sollevate le labbra. Rallentando appena l’andatura, per tenersi dietro alla sua
regina senza distanziarla, raggiunse Dii che vagava, accelerando e rallentando nel suo sonnambulismo
disintegratore di ogni regolarità. Gli si accostò a un braccio, aspirandone sonoramente l’odore. Un velo
fumoso e quasi inesistente di sudore vecchio di giorni lo involtolava in un compatto e leggero profumo di
vissuto. Le parve che la sua schiena s’estendesse ampia e bella mentre avanzava nel corteo, diafana carne
accesa a intermittenza trascorrendo sotto la luce lunare frazionata dai rami. Per metà ignaro -di dove stesse
andando, perché, e di tutto quanto- e di nuovo in difficoltà per la vicinanza di lei. Era stata compagna di Hr.
Gli aveva toccato la schiena e il braccio, aveva accarezzato e gelosamente rapito col suo fare ladresco le sue
confessioni dall’alito fetido, di un nucleo molle lasciato a trasandarsi e imputridire dietro negligenti strati
sovrapposti di scorza.
Come aveva fatto con Hr, un gesto suo tipico da ladra che tende la presa verso ciò che desidera, pose la sua
mano al centro della vasta schiena di Dii, che riempiva tutto il suo mondo, somigliando a un amore.
.
Sorrideva la regina scheletra sotto gli smeraldi illusori, trillavano i grilli sconosciuti. Su una spiaggia lontana
echeggiavano, frantumandosi e infinitesimandosi nella distanza che sembrava fatta d’alberi interminabili, i
passi di qualcuno che vedeva miraggi, diretto al giorno finale; il lamento lugubre di una sula; i passi di un
inseguitore, diretto solo alla preda, dipendente dalla preda, e dunque preda di essa. Dii s’andava a
proteggere nel folto del bosco, e al mattino, da solo, recuperando il suo senno di cinghiale avrebbe
ritrovato la strada, tutta la distanza percorsa per ricongiungerlo al mare. A i suoi compagni.
Al centro d’un occhio, cadde con zampe ferme e dritte tonfando dai rami una bestia scura, più alta di un
uomo, più agile, più completa in se stessa quand’era nella foresta -più vicina alla foresta. Il suo grido a
canini sfoderati sferzò l’aria fino alla luna, lampeggiando assieme agli occhi sguscianti dal desiderio di
diventare pianeti. Balzò sul posto, battendosi il petto con le nude zampe prensili, affermando sé perché
c’erano buio e notte, perché c’era stata una regina che questo permetteva e come da regola, procedura e
cerimonia, aveva tratto in salvo le sue prede, dandogli modo d’infuriarsi, temere l’abbandono, infuriarsi,
godere, infuriarsi al centro dell’occhio così da spargere nel mondo la bellezza del suo dolore. Vivere
notturno e sovrano. Re d’anime di morti, gli arboricoli dell’isola. Ululava e ruggiva e soffiava.