12
Lei è equanime, e concede che le cose la spaventino. Nessuna ansietà di riaffermare ogni momento il suo
regno, nessuna insicurezza quando muta forma. Fattasi ombra, era balzata in tempo nel folto perché si
dileguasse, com’era suo volere, dall’imminente contatto dell’uomo che si stava avvicinando al corpo del
dormiente, il corpo di un sacrificio volontario. Equanime perché se lo è la superficie di uno stagno
tranquillo, baciata dal giorno, lo è anche la materia oscura che sotto la superficie vortica, e si mostra
soltanto dopo la scomparsa della luce, facendo dell’intera acqua una teca vitrea tutta ripiena del suo
contenuto. Equanime, passava da scheletro a ombra. Da ombra a bestia. In ogni momento sapeva quando
doveva spaventarsi, fuggire, e quando terminare la recita dello spavento, che pure aveva uno scopo e un
posto nel suo mondo, nella notte che distribuiva sotterfugi e stratagemmi nei cuori delle sue creature. E lei
era compenetrata al suo stesso mondo, nella fumosa galassia allo zenit della notte s’identificava
l’avvallamento centrale della sua schiena, e s’identificavano negli strati inferiori del buio gli strascichi che,
elusivi, dalla schiena si dipanavano avvolgendole i fianchi. Sceglieva così, il suo “io” -che veniva sempre
annientato dal picchiare del sole-, di diventare oscurità. Nessuno infatti la vide, a incombere in piedi sul
dormiente, sotto la luna ancora opaca in quell’ora liminare.
In un attimo il fogliame l’abbracciò, e le s’infilò tra le costole, chiedendole di poter prendere rifugio dentro
di lei, un petto che è un nido e una capanna. Equanime, accetta. Accettazione diventa fruscio, quando
continua a correre, perché nel suo gioco non deve farsi vedere, quando lascia Kiy da solo. C’è un suo
compagno, è vero, sta arrivando, sta marciando l’arrivo carico di risentimento del menomato: ma costui è
un numero che non altera lo zero di quella solitudine: Kiy è da solo: da solo s’alzerà senza esser toccato. A
lui soltanto lei dovrà manifestarsi. La sua elusione rimarrà inalterata. Il compagno deciso a inseguirlo nulla
potrà scorgere nel buio attorno. Kiy invece la vedrà. E vedendola si fermerà, per pochi necessari istanti.
Lei che continua a scappare lascia dietro sé una scia d’odore, perché così fanno gli animali crepuscolari
appartenenti alla lingua degli ormoni e della grevità reale, strusciandosi alle basi dei tronchi. Prenderà vita,
l’odore sarà visibile, mostrerà il mondo a colui che non può vedere le cose con gli occhi. E intanto lei col suo
corpo d’ossa procede nella foresta. Le foglie accudite sfrusciano l’una contro l’altra, s’impigliano alle
frastagliature di altre specie arboree devianti: ondeggia attorno al collo cinereo di lei, accompagnando il
lugubre motivo del suo incedere, la ghirlanda che la orna nel suo centro, dove altri corpi protetti da carni
custodirebbero dei cuori. Una ghirlanda di teste di qualcosa, prive di volto: i molluschi o celenterati recisi in
un lato di sangue ormai secco, che rende imperfette le forme sferiche, lasciano pendere inerti delle sottili
labbra protese dalla pelle rosea, priva d’escrescenze e quindi d’occhi che possano mostrar loro il differente
mondo in cui sono entrati dopo esser state asportate dal mondo natio e dalla vita. Quelle labbra sembrano
corolle di rosa. Donano colore alla scheletra, regina dei grigi e dei bluneri incombenti, che s’inoltra nella
foresta, decisa e veloce senza fracasso -un solo fruscio lineare e delicato, elusivo cacciatore. Vegetazione e
lembi d’indumento, come muscoli di salmoni indeboliti che la corrente fa retrocedere, venendo sospinti
dall’attrito si ritiravano nelle cavità di lei. E in pochi istanti si cancellava la distanza, e in un istante più
insignificante degli altri, quasi un principio cominciato e già concluso in uno zero prima del tempo, nella
radura avevano saputo che lei stava arrivando.
Una strana, incantevole lince di spavento e ossessione s’era librata in forma di spettro dalla scia olfattiva
disseminata, che connetteva la fuga selvatica all’abbandonata spiaggia della solitudine. Così Kiy avrebbe
visto la sua altra possibile forma, e accolto di lei il cenno.
.
Sarebbe stato molto contento, un Dii provvisto di tutte le parti di sé, di star semplicemente seduto sull’erba
dell’occhio di foresta che sembrava ricever amplificato e moltiplicato in numero ogni singolo lumicino
esistente nel buio che diventava tranquillo. Come se quell’occhio e radura fosse il fondo d’un pozzo, tale da
costringere quanti vi erano caduti a rimaner sempre sdraiati e poter interfacciarsi alle cose soltanto in quel
modo, si manifestavano come in proiezione circolare le stelle, gli occhietti, le luci volanti. E a Dii era
piaciuto un tempo osservare senza affanno, circondato dall’osservazione stessa -la morte in fondo a un
pozzo, dalla quale il cielo sembri soltanto una circonferenza che mostra i pianeti distanti anche di giorno,
sarebbe stata ideale, per lui che mai aveva avuto un ideale di morte, un ideale di vita. Purtroppo, l’unica
parte di sé sveglia era fortemente intorpidita, e si teneva vigile convogliando un tremendo sforzo soltanto
in molecole sottili, le poche che stringevano un legame: le ripetute carezze sulla testa di una creatura
accolta tra le gambe, dove diventava animale domestico e selvaggio assieme, come la prima volta ch’era
stato raccolto. Era là a lasciar che tra le orecchie vibranti di fusa si strofinassero le dita, come il tamburo che
impedisce all’estasi del sacerdote di volar troppo lontano. Comunque, per quanto piccola e assonnata,
quella parte di Dii si riteneva felice. Era bello accarezzare un felino selvatico, appartenente a una specie
sconosciuta di cui loro, viaggiatori senza memoria, sarebbero stati gli unici testimoni, dispersi mai ritrovati.
-stai dormendo?
Chiese il gatto, consapevole di fare una stupida domanda. Credeva ragionevolmente d’aver intuito il modo
in cui andavano trattate le relazioni tra di loro.
-aaahhhhh…-, rantolò Dii, nella sua parte forzata a esserci, senza voler significare niente.
-mmh. Sì, hai ragione. Non ti biasimo. È uno spettacolo ben strano. Lo ammetto anch’io.
Sedendo nelle gambe incrociate di Dii, mandando appena un accenno di fusa, anche il gatto marrone
guardava con la testolina placida la danza della sua specie. Sembrava però che la contemplasse perfino con
una malinconica distanza. In tutte le specie animali esiste, a quanto sembra, la possibilità di starsene
immobili per ore a guardar da una finestra, scostando le tende, per veder proiettarsi oltre i vetri e nella
polvere gialla della strada un corteo dei propri simili che trascorrono, l’uno dopo l’altro, e vivono
accettando di trascorrere, e senza scoramento indossano i panni dell’avvenire con serenità, con gioia quasi.
Certi esemplari, certi gatti, forse si sentono esclusi da tutto questo… o forse solo per qualche momento, in
cui desiderare d’esser distanti da tutti, senza altezzosità, distanti quasi su un altro pianeta.
-sai, io sono, o almeno così direste voi, “un maschio” dell’isola. Un maschio di questa cosa che chiamate
gatti. Non sono come loro, non posso trasformarmi a mio piacimento. Ma non posso con loro unirmi,
perché non sono fertile… come spiegare. Non sono della specie dei “veri” maschi dell’isola, che non hai mai
visto ed è meglio così. Per questo, in tali circostanze, non posso far niente di diverso da quello che fai tu:
stare a guardare. Ma… ah, che importanza ha?
-mmmmhhh.-, sembrò approvare Dii, riferendosi in particolare all’ultima domanda retorica. Ma era solo
un’impressione del gatto.
-e stiamocene a guardare allora.-, concluse. In quel che guardavano c’erano danza, musiche, parole, i
confini spesso indistinti tra di loro. Avevano ricevuto il segnale, propagato attraverso ogni forma vivente
che avesse radici nel suolo, attraverso ogni pietra che segretamente custodisse in strane vene silicee una
rorida linfa. Il messaggio attraversava, pulsando, forzando la foresta a un più rumoroso respiro e diceva: la
regina di questo momento e rifugio è entrata, sta arrivando. Era fuggita, velocissima sarebbe apparsa lì,
davanti a loro, per ricongiungersi, metterle in ordine. L’avrebbe fatto mediante il caos che la riempiva,
straripando, in quella veste di se stessa. Non è sbagliato, in un’isola del genere, che una regina abbia un
doppelganger.
(-non dovete prendervela, sapete. Dovreste perdonare quest’isola.)-, pensò d’un tratto, distrattamente, il
gatto, credendo di rivolgersi ai tre uomini, in quel momento separati. Forse parti di loro erano in ascolto.
Dovunque fossero, ciascuna in totale solitudine rispetto alle altre parti, e le altre parti isolate dagli altri
uomini -isolate da tutto ciò che avevano da sempre conosciuto come uomini, da tutto ciò che desse
l’illusione di incastri pronti a combaciarsi.
(-vi sembrerà tutto confuso. Ma è esattamente il contrario: non vedete che qui la forza con cui tutto vi
s’incide nelle viscere, facendole impazzire come un vaso di vermi in cui all’improvviso affonda una mano,
non vedete che il brulichio dei dubbi s’alimenta proprio perché in questo luogo tutto nasce da un ordine?
Quest’isola è, come dire… rigida. E lo è in maniera così assoluta da sembrar libera, da esser effettivamente
più libera d’ogni altro paese voi abbiate visitato. È.. difficile da spiegare, oltre che stupido. Impossibile
direste voi. Ma cosa ve ne importa, che nemmeno state ascoltando?)
Ispirate dai luccichii dei pianeti e di qualche rara lucciola, inscritti nel cerchio dell’occhio della foresta, le
danzanti avevano cominciato una conversazione fitta e dispersiva, simile a quella concitata di uno sciame di
farfalle che s’ascoltino l’un l’altra i battiti dei cuori affannatissimi, incerti e piacevolmente eccitati di non
sapere se s’arresteranno prima d’aver toccato il prossimo fiore.
-Kiy, l’uomo di nome Kiy!-, esclamò una in un lungo e ondulante vocalizzo ad alta frequenza.
-Dii, l’uomo di nome Dii!-, continuò una sua sorella che si gettò nel girotondo a seguirla come un’ombra.
-Hr, l’uomo di nome Hr!-, concluse il cerchio l’ultima delle tre, e insieme continuarono a danzare.
Il girotondo era un triangolo, era una forma vagamente minacciosa. Per la prima volta s’aveva il privilegio di
veder le donne brune dell’isola colorarsi d’un pallore tendente al turchese, se ne intingevano una volta
filtrato dall’intreccio della vegetazione e del cielo che infine aveva accettato in sé tutti gli spiriti di colore
freddo che erano rimasti in trepidante attesa di una maggiore oscurità.
Una sorella percuoteva qualcosa che sembrava mandare un rimbombo di pelle -forse una parte di sé, una
sua gamba, oppure la pelle di qualcos’altro, a sancire la nascita d’un tamburo nello scarno ma pregnante
novero degli artefatti in dotazione alla loro stirpe. La loro cultura ne costruiva, in quel momento, uno nuovo
capace di replicare lo stesso ritmo del petto di fronte all’eccitazione della danza e dell’estasi; costruiva un
artefatto e in un tempo cosciente del suo crollo -insignificante per le stelle, equivalente per esse ad appena
giorno prima dello scoppio del sole- si preparavano ad abbandonarlo, abbandonar tutto. Ma
quell’imminente abbandono, proveniente dal cielo e la sua insanabile ferita aperta, non veniva salutato
dalle lente e austere nubi di un’eulogia: si preparavano per la sua accoglienza gli stessi battiti dei momenti
d’euforia e tensione, di massima felicità e massimo terrore; tutto ciò, tutta questa profonda accettazione
celebravano danzando. Veniva scritto il sentimento custodito in tutte queste cose sull’erba e sul suolo, dalla
forma mobile avente tre punte, capellute, equoree. Aprivano le mani e allontanavano le braccia da sé verso
fuori, riavvicinandosele periodicamente. Apertura e chiusura, apertura e chiusura, viene creata una valvola.
Dii non è colpito dal sentirsi chiamare per nome. È qualcosa di molto vago, molto distante, gridato dal
fondo d’un burrone, e lui per la prima volta è in cima. Visuale da uccello, non da suino -le narici, il sé più
consapevole firmato in due fori sempre attivi, sono serrate. Ma nemmeno la vista, raggiunta la postazione
sopraelevata, dispone forme ben distinte davanti agli occhi: tutto in Dii è serrato, meno le cose più
misteriose, di difficile contatto, come se dall’altipiano la valle si fosse presentata come una compatta
nebbia. Peccato che le donne indigene adoperino i nomi, nella fattispecie quelli degli uomini alieni, soltanto
quando questi hanno smarrito ogni coscienza e desiderio di stare a sentir ripetere, riecheggiati per
l’ennesima volta dopo vite di navigazione dentro sé, tali contenitori di un protagonistico, confuso io.
-io ho parlato con Hr, di Hr ho toccato il fondo!-, disse quella con la voce più grave, le sue corde fatte
vibrare da un corpo che vi si era incastrato, venendo subito integrato; uscendo dal collo ogni nota
s’armonizzava, rendendo piacevole l’intrusione di un batterio, un sasso, un’irregolarità, insomma
qualunque cosa fosse.
-e allora raccontaci! E allora cantaci!
-Hr è un eroe! Hr è brutale!
-è un eroe, ed è brutale. È un eroe, ed è brutale.-, ripetono, cercando di conferire un trasporto autoindotto
da nenia all’andamento mutevole delle loro parole. E allora cantaci e raccontaci: sembra che le ripetizioni,
un accenno di struttura, stiano venendo creati sul momento, appigliandosi a sbocchi indicati dall’istinto, e
al tempo stesso con naturalezza il tutto assume la solennità di una tradizione reiterata, escogitata,
perfezionata a ogni sua comparsa.
-lui di queste cose, di queste cose mi ha parlato.
-e allora raccontaci, e allora…………
Una sonnolenza strana, che aveva quasi qualcosa di dispettoso, strisciò dentro le pupille del gatto
spettatore accoccolato tra le gambe di Dii. Seppe subito che proveniva dalla danza della ragazza che voleva
raccontare ciò che da Hr aveva raccolto, “toccandogli il fondo”. E subito accettò quel sonno, presto lasciò
che nella coscienza vispa e spigolosa gli ammorbidisse i tratti e gli distorcesse le immagini intercettate, così
da disegnare una scena, un racconto in ogni mossa di danza. E accettò quel sonno sebbene una parte di lui
gli bisbigliasse nelle orecchie la possibilità che al risveglio si sarebbe trovato nelle fauci o nelle trappole di
qualcosa -così dovevano sentirsi costantemente gli abitanti selvatici di altre isole dell’oceano, piene di
nemici e insidie, soggette a un caos meno ordinato che innaffiava i nervi nella sua prole; eppure, poteva
esistere un simile sonno agitato da brividi, in fondo al quale risiedesse la vertigine della propria incolumità,
che tuttavia non provocasse un malessere intollerabile. Era un paradosso, ma riempendosi del sonno
comune agli altri esseri, in bilico su savane di annientamento, sentiva che era anche un sonno buono, da
vivere e ascoltare: senza un esito, senza un prima e un dopo.
Una bestia nera d’ossa s’avvicinava intanto attraverso la foresta, sempre più, facendo sì che si
sprigionassero nelle cose sfiorate dalla sua aura di distorta premura e apprensione i più reconditi
presentimenti di catastrofe, paura di soccombere nascosta in tranquille notizie.
(-è una descrizione. Quella che sto vedendo non è altro che una descrizione. È come vedere un animale
strano, la schiusa di qualcosa che non dovrebbe uscire da un uovo. Per cominciare, loro non dovrebbero
“descrivere”. Ma hanno assorbito e integrato anche questo vizio, e ora sbloccano quell’impulso a
descrivere: nel loro modo: i gesti del corpo sono linguaggio. Linguaggio perfetto. Sto assistendo a una
descrizione che è come imbattersi in un abitante del cosmo. Ha branchie di difformità. È un vizio ed è
estraneo e non lo è più, è un’abitudine che è stata integrata: immersa in una poltiglia locale, vizio lavato per
diventare virtù. Riscritto sin dal primo giorno di una vaga preistoria in cui apparve proiettata sul blu
d’orizzonte la sagoma aliena di un veliero, le ali sue color d’albatro e pelle secca che sbatacchiandosi nel
vento lontano producevano vibrazioni dal mare aperto alla costa, segnali di contatto da esistenze devote,
profondamente sperdute…..)
Il gatto selvatico, mezzo addormentato come il suo temporaneo padrone Dii, nel corso della sua vita
nell’isola in più circostanze aveva ascoltato stravaganti narrazioni portate da uccelli, insetti, animali insoliti:
prede, parassiti, e tutti al tempo stesso parenti in fratellanza voluta dalla terra. Conosceva le stravaganze
anche di quelle vite lontane: a Kiy, a Dii s’era potuto avvicinare e dir parole che sapeva appartenere a un
insieme di modi di veder la vita che potessero comprendere; di Hr aveva potuto temere qualcosa di vago,
scorgendogli dentro -ma era forse una sua suggestione animalesca- uno sforzo, assieme diabolico e
dolorante, di somigliare alla creatura di oscura lanugine e lingua rubescente che infestava le foreste delle
favole di laggiù, raccontate ai bambini e intercettate dai suoi conterranei passeri appollaiati sui davanzali.
Per queste ragioni, con un po’ di vanità e compiaciuta indolenza, che la sua natura felina faceva apparire
naturali e fascinose, si riteneva una specie di gatto di mondo che non s’era mai mosso da casa, ma che
furbescamente serbava qualcosa di ignorato da tutti i suoi simili, per il semplice fatto che s’era messo,
qualche giorno scelto a caso, ad ascoltare. E così, seguendo il flusso dei suoi pensieri, fatti ondeggiare qua e
là dal fiume in piena delle cose che gli stavano venendo suscitate dalla descrizione (simile a una danza,
simile a una sonnolenza grande come il cerchio di cielo stellato racchiuso dall’occhio della radura), si
perdeva infine in fantasticherie sulle strane creature provenienti dalle terre vicine a quelle di Kiy Dii e Hr,
sulle cose che doveva aver immaginato fossero nelle loro esistenze per poterle definire, tra sé e sé,
“sperdute” e “devote”. Certo, era in uno stato di semicoscienza, come colui che ogni tanto
meccanicamente l’accarezzava, e non sarebbe stato capace né avrebbe desiderato di spiegare questa
intuizione; ma in sostanza s’era immaginato che quegli antenati di Dii e antichi pionieri dell’oceano, sul
veliero per giorni e giorni o perfino anni di quelle loro vite sempre ossessionate dalle sabbie delle clessidre,
emanando le loro vibrazioni captate dalle isolane -che così appresero le “descrizioni”- emanassero al
contempo uno strano, sorvolante canto di speranza. Erano vertigini, erano voli inimmaginabili perfino per le
aquile di montagna, erano note del tutto illusorie, che credevano di raccontare a sé stesse di poter
diventare fuoco, e del quale le lingue di fiamma potessero diventare a loro volta messaggio,
comunicazione, e così farli cantare in modo che fossero ascoltati da tutti i popoli più distanti che avrebbero
incontrato nel loro peregrinare stremato sulle acque senza limiti. Convinti, parevano al gatto, di tutto ciò:
ma sapeva che la speranza loro, così piena di fede gialla di luce, era figlia di terrore, brama, ferite dalla
forma strana che nessuna comunissima bestiola dell’isola com’era lui avrebbe mai potuto interpretare.
Eppure sapeva anche che quella speranza era così cieca da riuscire in alcune sue parti, quasi urtasse
sbadatamente dei significati che non erano quelli che andava cercando: insomma, quel veliero di giorni
lontani era infine riuscito davvero a insegnare, dall’orizzonte marino, una nuova danza alle ninfe straniere a
piedi nudi, sbraccianti sulla spiaggia, puntolini minuscoli sulla terraferma.
Questa era la sciocca ed esagerata storiella -perché così lui stesso l’avrebbe descritta, apprendendo
silenziosamente dal padrone il modo in cui presso loro s’usava descrivere tali fantasticherie- che il gatto
selvatico raccontava a se stesso, costruendosi da sé l’idea di cos’erano loro, ispirata dai racconti, i colori
riferiti di villaggi, vallate, campanili, vetrate e mosaici, piazze, fontane, navi, infinite altre navi come quella
dell’origine, del mito appena inventato. E beandosi come uno scemo del suo idillio, s’accarezzava e leccava
nel punto in cui gli s’annidava quella parte di timore di un ignoto incombente insito nella danza,
lenendoselo del tutto.
Forse in lui si celava un esemplare scriba. Se solo il mondo non fosse stato sul punto di farsi inghiottire dalla
morte del solechissà, sarebbe potuta anche nascere una di quelle “civiltà” che avevano prodotto le assurde
“città” su quelle coste che gli pareva di conoscere, con presunzione e un certo grado di inscalfibile, in fondo
non erroneo, senso d’aver proprio ragione. E in questo sviluppo, questo andamento sconosciuto delle cose
che si sarebbe verificato anche là se ci fosse stato il tempo, lui cos’era? Nella società così nata, cosa sarebbe
stato? Un bardo, un poeta, uno scriba: le sue traveggole riguardo cosa fossero quei giorni da lui vissuti, le
avrebbe incise con gli artigli nell’argilla rubata dalle assai scarse superfici d’acqua dolce nell’entroterra, dai
nidi di tartaruga. E sui loro carapaci avrebbe con parole di leggenda eretto le colonne del mondo,
convincendo le generazioni future che proprio così stavano le cose. I suoi occhi a fessura che ancora per
millenni attraverso il futuro sarebbero rimasti nascosti a osservare come fantasmi rintanati nelle ombre di
tutto quanto, di tutto il pensiero e tutta la sapienza… il felino chiudeva di tanto in tanto gli occhietti facendosi
grattare il cervellino da imbecillissimi -così li reputava, non riuscendo però a fermarsi- improvvisi sogni di
gloria. E riaprendoli vedeva la danza, trovandola altrettanto balsamica per il suo gusto per l’intrattenimento.
(-….questa è una bella danza, sì. E va bene assistervi.)
(-nelle feste non hanno mai danzato così. O forse sono io, strano stasera, strano in sera strana. Sarà perché
c’è lui. Buon padrone. Buon uomo, sì, possono esistere uomini buoni: ricordo quello che disse quella
libellula.. ma sarà credibile, una libellula che attraversa il mare e torna indietro? Comunque sia… aaah, sto
pensando anch’io in questa maniera. Stanno innescando qualcosa, loro… influenzano. Ma non come
credono o vorrebbero. O forse non vogliono nulla… non lui comunque, non fa nulla apposta. Mio buon
padrone, brav’uomo. Però qualche effetto lo sta avendo anche lui sulle femmine, che… ahh, non capisco.
Non posso capire. Posso solo… certo, ho trovato: posso solo guardare la danza: perché è questo il loro
scopo: è così che si ascolta una descrizione.)
(-viva descrizione di un uomo. Ondeggiamento di braccia spiega a tutte le altre, danzanti anche loro o
sedute a guardare e carezzarsi le trecce, spiega come sono fatti i tratti, il volto, i segreti del cuore dell’uomo
chiamato Hr. Perché so leggerla?)
.
Era già arrivata -una parte di sé. Continuava a sdoppiarsi, perché così erano le strade imboccate sempre dai
passi nelle ore rimescolate all’interno del buio: ambigue e multiformi frangevano se stesse gioendo della
confusione. Una sua scia era in spiaggia, era già scomparsa, una lince che si stagliava enorme nell’angolo di
un quadro contemplato soltanto da un singolo solitarissimo occupante d’una casa della demenza -il singolo
occupante semivivo della propria fronte che destinava se stesso a gridare quanto aveva visto,
frantumandosi le pareti e lasciandosi frantumare dal rimbombo da esse restituito.
Una potente parte di sé era scivolata in quella provvisoria proiezione. Un’altra già migrava verso il fondo
della foresta, ancor più veloce dei suoi scatti senza eguali.
Una regina sprovvista perfino di ossa, in fondo simile a una macchia, un corallo d’inchiostro deambulante
con due verdi braci accese nel volto a far da sola interruzione nel corpo interamente fluido e uguale alla
tenebra aleggiante ovunque tra i rami, è la sola creatura che possa apparire in quel luogo, in quel modo:
luogo da dove sempre le più ombre tra le ombre, ambasciatrici del proprio reame d’allegoria sulle soglie
delle fiabe, hanno osservato le scene senza venir osservate; modo in cui nemmeno gli acutissimi risvegliati
sensi e intuiti degli esseri avrebbero potuto scorgerla mentre li scorgeva, sporta quasi come una giocosa
bambina di magma corvino con un polso adagiato in gesto curioso sugli arbusti recintanti l’occhio di radura.
Prima della regina d’ossa e non carne, volontà e ardenti occhi smeraldo, la sua emissaria stava toccando
con mani e passi la sala, nuda sotto il cielo, della sua comparsa. E a essa si sarebbe ricongiunta in un istante
di risucchio, riconvergenza tra ombre e parti mutilate di un solo organismo. Ma non c’era fretta. Gi esseri
racchiusi dal cerchio non avevano capacità di rilevare la sua presenza irreale e indimostrabile, dissonante
nei teoremi. Nessuna regina avrebbe mai dovuto compiere una riproduzione mitotica, come lei faceva. Ma
lo faceva, in fondo? Non era solo un fantasma, rimasto per qualche rimpianto a vagare indefinitamente
nell’isola, rappresentandosi da sé per qualche ragione soltanto con ossa e pochi ornamenti?
Una lince svaniva nel buio lontano della spiaggia. E il suo svanimento incantava, commuoveva quasi
l’intorpidito animo di Kiy. Questi quasi era riuscito a veder le lacrime sgorgargli dai condotti come vedesse
ste sesso da fuori, e in tal modo riuscisse a riconoscere la somiglianza tra le lacrime frammentate e deviate
dal vento, e i fili semitrasparenti che ondeggiavano disfacendosi dalla silhouette della lince. Forse erano
catene, infinite e raffinate catene di proteine che tornavano a un creatore immaginario, a un’invisibilità
dopo aver affermato qualcosa un’ultimissima volta, in coreografia d’ego annientato; e somigliavano a
polvere di falene, sgretolate direttamente dalle ali come se tutto ciò che appartenesse al cielo, ogni singola
particella dentro e sotto questo, si legasse alle ali.
Un’ombra nata da un’ombra e tra ombre nascosta osservava la scena, pazientando -nei suoi limiti: avrebbe
preferito saltar fuori, prender forma e disperdere gli esseri incutendo terrore-, attendendo il momento in
cui il corpo le avrebbe dato dei buchi in cui far ritorno.
Pochi istanti mancavano all’apparizione, al terribile e sublime delle isolane. E intanto queste danzavano in
cerchi, raccontando forse con una ritrovata infantilità i segreti dell’uomo.