offerte. E tutto sembrava volersi compiere in una progressione scritta in fasi di dolore come il decorso di
una malattia contemporaneo ai giorni rituali, tutto compiuto uguale alla scelta presa dall’isola, dal cielo e il
mare sopra e sotto di lei.
E Kiy avanzava, avanzava. Nessuna mano poteva toccarlo distendendosi attraverso il buio. Kiy proseguiva e
vedeva montagne, a un lato della visione cieca -chissà se vedeva davvero; certo però vedeva, in qualche
maniera, quelle ombre di montagne, e insenature, e laggiù nell’orizzonte distinguersi, d’un nero diverso da
tutto, le scogliere, le conformazioni rocciose. Negli occhi di Kiy non c’era nulla: Hr li aveva scorti correndo,
nel tentativo di raggiungerlo e fermarlo, chiedergli con minaccia forzata cosa stesse facendo; ma nello
scintillio dello sguardo immobile, come fosse ancora dormiente nonostante le palpebre sollevate, non
poteva veder nulla, se non la pallida ombra di quanto contenevano: le insenature minacciose nella baia
ch’era il loro arrivo, somigliante al luogo in cui erano morti tutti. E forse anche loro erano morti sin da quel
giorno, senza aver ricevuto nel medesimo tempo la punizione o il sollievo della morte del corpo. C’era stato
un dislocamento, una mancata coordinazione… e più d’ogni altra cosa era assurdo per Hr sorprendersi a
pensare la morte del corpo “separata”, espulsa altrove. Dunque connessa a questa morte era stata la sua
vera pulsione? Ogni suo strattone tuffato nel nettare della vita, uno schiaffo alla stessa per sentirla puzzare
di decomposizione? Ogni parossismo di vita era questo, ogni frutto troppo maturo. Erano arrivati, senza
poterlo vedere sapeva che era quella meta che Kiy aveva visto, senza potersi fermare.
Non era soltanto l’andatura zoppicante di Hr. Kiy non poteva esser raggiunto, era un inseguimento che non
aveva senso, nato soltanto per donare estetica a un inconcludente paradosso -per il sollazzo di chi? Granchi
notturni filosofeggianti tra barbe di schiuma, in simposi della salsedine? Troppe cretinate come quella
esistevano, eppure Hr continuava a correre, inciampare, riposarsi, annegarsi nel fiatone che da solo si
alitava in faccia sentendone il marcescente retrogusto. E per la stessa insensatezza non poté trattenere
l’autoimposizione di correre, recuperare spazio e tempo perduti ch’erano la strada della sua separazione da
lui, nel momento in cui, improvvisamente, s’era fermato.
Un uccello marino sedeva in cima a un albero spoglio. Guardava, placida barca dalle vele ammainate del
sonno portuale, quei passi affranti senza speranza, la scena dell’inseguimento di qualcosa di fermo che
rimaneva irraggiungibile come se le sabbie sotto i piedi facessero retrocedere quelli in movimento e
avanzare quelli in stasi improvvisa. Sotto il volatile s’affacciava a far da spettatore alla stessa scena un
animale arboricolo, e un granchio di terra s’inerpicava su per il tronco senza curarsi dell’uno, dell’altro,
della scena, di tutto.
Kiy aveva visto lei, un’ultima volta prima di proseguire -era lei, era stata lei. Nel suo sonno privo d’ogni
sensazione, una breccia: gocce. Erano baci di lei. Le coltri di nebbia del sonno s’erano ricongiunte al sogno
che da qualche parte stava ancora facendo, in un filamento della sua coscienza. I baci di lei che, seppe
immediatamente, aveva vegliato sul suo sonno, sfoderando zanne e smeraldi d’occhi, tutta la terribilità
della notte in lei, tutti gli eventi della notte in gestazione dentro lei e al contempo già compiuti. Chi sei tu,
solo un’ombra di regina, o è l’altra a esser la tua ombra? Siete una cosa sola, e io sono con voi -ma smise di
parlare a se stesso in questo modo, perché adesso era lì, da vedere: simile all’arrivo di una nave tra banchi
di foschia al largo, la sagoma s’intagliava nel buio alla sua sinistra, dai bordi della discesetta erbosa verso il
mare, e felpata avanzava muovendo le zampe leggere. Si fermò, immobile anche lei -perché così, credette,
potesse assomigliargli, dargli uno specchio, un conforto tanto bello quanto spietati erano i suoi occhi. Era
una specie di enorme lince. Senza coda, altissima e lunga, l’osservava, come l’illustrazione di una fiera
collocata in fondo all’ultimo verso di un poema, mai vista dal poeta che finisce di comporre la sua opera
nell’eremo umido di un sottoscala, e fabbricata perfetta, vicina più che mai all’originario delirio della prima
ispirazione, una selvaggia nostalgia di foresta vergine. La sua pelliccia di pantera splendeva anche lì,
segretamente, sussurrando in suggerimento il colore giallo e macchiato sull’esile corporatura corridrice,
avente quasi l’eleganza della cacciagione balzellante tra gli arbusti del parco privato del re. E orecchie
lunghe, coronate di pelo, forse erano corna, forse antenne che l’ascoltavano.