Osservarono che i voli periodici risalivano il cratere, poi ritornavano verso il centro. Risalivano, ritornavano.
Eccoli arrampicarsi, i coltelli proiettati da uccelli incastonati nella canicola che non avrebbero mai potuto
osservare direttamente, eccoli strisciare verso i bordi della rovina, senza per questo smuovere alcun
granello, del tutto liberi da ogni trappola della terra. Non credendo più ad alcuna ragione del cosmo e del
suo contrario, e della terra e dell’aria, e dei corpi e nemmeno dei confini che avevano coi loro ologrammi di
sogno, Hr e Dii ricolmi di sentimentalità fino a grondare un trasparente grasso, sporsero le braccia quanto
più poterono al di fuori dei loro cerchi stretti e ineludibili. Afferrarono le prime punte d’ala capitate a tiro di
mano. Funzionò. Avevano cieca fede nella convinzione di non credere a niente, nell’assoluta mancanza di
valore in una presunta differenza tra un salvataggio spiegabile elencando e descrivendo le spoglie secche
delle azioni compiute, e uno in cui si ritrovassero fuor di pericolo come nell’alba dopo una notte di incubi,
con emicrania di fuoco e scottature tigrate sulla fronte, incerti d’aver sognato ogni singola cosa. Nessuna
differenza. Stavano venendo trascinati sulla sabbia, trasportati da ali disegnate di uccelli il cui volo
rallentava per il peso delle loro ombre, ma non si arrestava, e senza esitazione procedeva verso i percorsi
già tracciati, verso la cima del cratere dove i due marinai avrebbero lasciato andare la presa, e cercato di
rotolare fuori di lì. Trascinati secondo le regole delle ali. Non un granello veniva smosso, non una scia si
scavava sotto i corpi affidati al mondo delle ombre, alle effimere convinzioni degli uccelli quando
sovrappensiero trascorrono sorvolando su tutte le cose. Soltanto un segno rimaneva. Nei polpastrelli e nei
palmi, si scavavano ferite, perché le ali erano coltelli, perché in tal forma le avevano viste, e in tal forma
non potevano smettere di vederle. Ferite dalle quali non si versava nemmeno una goccia di sangue.
Dormirono a lungo. Il pomeriggio, così brutale, svestiva i panni di un bestiale carceriere rivelandosi, proprio
in prossimità della sua fine, niente più che un bambino di giochi luminosi, titubante nel terminare gli ultimi
giochi e castelli di sabbia prima d’andarsene da qualche altra parte del cielo, trascinato per mano da una
forza più potente della sua volontà. Sembrava quasi che nulla si fosse mai spostato da una normale scena
addormentata in spiaggia. I raggi che cominciavano a scurirsi, il passaggio del vento attraverso alcune
fronde, masse di fogliame libero trascinato verso l’acqua, in promiscuità con le alghe giunte a riva con la
solennità di schiere di soldati. Un gabbiano intermittente. Dii e Hr dormirono e si accorsero che anche lassù,
più alti della spiaggia e più bassi del bordo che li aveva risucchiati, si sentiva il rumore del mare. Ormai desti
al lento volgere del giorno, avevano lasciato dietro sé, in una buca vorace, un tempo che non sapevano se
potesse mai esser restituito, o se il suo spreco potesse rivelarsi fatale in un prossimo futuro. Ma non era
forse così tutto il tempo? Non era quella buca qualcosa che poteva esserci o non esserci stata, anch’essa
senza alcuna differenza? Non erano che due uomini adulti un po’ scottati, distanti dai castelli di sabbia
melmosi della battigia. Hr non aveva controllo sulla bava ai lati delle labbra, una reazione dell’acqua di
mare che gli si era riscaldata dentro come non mai, e desiderava refrigerarsi, cavarsi spazi di respiro, liberati
da salivazione e sudore. Ancora conservava quella corrosiva bevuta, ribollente e cosciente come l’istinto
colonizzatore di un virus, da qualche parte nei reni o forse lasciata libera di muoversi dovunque volesse tra
gli organi e gli spazi intermedi. Ma scottature e bave salate non erano niente, non era successo niente.
Non avrebbero mai parlato di quel salvataggio, né si sarebbero comportati l’uno con l’altro in maniera
diversa a causa di questo -d’altra parte, se non c’era stata la buca, non c’era stata nemmeno la fuga. Hr
emanò una sola sillaba, un’esclamazione che voleva siglare un’intesa, un’ultimissima menzione, circa
l’ovvietà del non far mai riferimento a nulla di quel giorno, e forse ribadiva che lui, Hr, non credeva ai
diavoli, non credeva ai fantasmi, nulla era cambiato. Dii lo guardò con una faccia strana. Se Hr l’avesse
visto, avrebbe trovato un volto, per nulla caratteristico, di qualcuno che sembra deludersi nei confronti di
un altro che mostra all’improvviso una goffa fragilità dopo essersi comportato da tiranno. Un velo di calda
penombra e una collana di raggi solari però cancellavano per intero la testa di Dii, macchia indistinta
fluttuante su un corpo protuberante a forma di giara qua abbronzata e là ustionata. Ma anche senza un
velo nessuno avrebbe potuto mai affermare che Dii fosse davvero deluso, o se mancava un fondamentale
collegamento tra l’animo e i nervi della sua faccia. Riacquisita solidità, dissipata sentimentalità, si rialzavano
in piedi, facendo scorrere da sotto le piante dei piedi ruscelletti di sabbia diretti ai livelli pianeggianti sotto