NESSUNO SAPEVA DOVE FACESSERO I NIDI
Sarebbe sbagliato affermare, dal punto di vista di un osservatore “umano”, che in quel posto
vivessero soltanto creature dell’altro mondo.
-ma quale altro mondo, noi qui si lavora!-, voci dal pubblico.
In fin dei conti non sembra esistere un paradiso, per quanto lo si cerchi. E se esistesse lassù tra le
stelle lontane, nei meandri più antichi dell’universo che a noi appaiono non diversi da qualsiasi altro
spicchio nero di cielo (anche quelli più vicini in cui i satelliti delle televisioni si lasciano trasportare
alla deriva, indolenti come meduse metalliche), comunque significherebbe che per “noinon cè
alcuna possibilità di cercarlo. Perc“cercareè un’azione che fanno solo gli esseri che sono
costretti a poggiare sulla terra. Qualcuno, nascosto nella foschia, chiede se i pesci rientrano in
questo insieme. La risposta è: non lo sappiamo, ma ci stiamo lavorando; diciamo che per come
siamo fatti, con queste gambe e queste braccia, siamo più portati a credere che siano esclusi. Non
importa se ci sbagliamo. Anche se venisse fuori che avevamo torto, continueremmo come prima.
Forse è perché pensiamo questo dei pesci che li trattiamo così male? Così le rivalità che scuotono il
mondo si riducono a un banale problema di invidia. Ecco perché il paradiso non può stare sulla
terra. finché ci saranno anche un solo “umanoe un solo “pescenon ci potrà essere l’equilibrio.
Tutto questo va detto, in modo da mettere le mani avanti: il posto di cui si parla non è lo scenario di
una favola; non è la Terra Pura; non è un territorio dove prendono vita le forme dei sogni (o meglio,
lo è proprio come tutti gli altri). Perché se ne deve parlare? Beh, perché è sempre bello parlare di
una storia in cui sono presenti dei mostri strani. Ai “bambinii mostri piacciono tanto. E agli
“adultipiacciono le storie ben costruite. Quelle in cui ci sono un pescatore e un pesce. Tutto in
regola allora, perché chi ha parlato prima era proprio un pescatore. “Noi qui si lavora”… per forza,
ogni secondo che passa c’è da qualche parte un pescatore che pesca senza sosta. Lui stava
sfilacciando le reti, tutte impigliate in un groviglio di alghe sudicie e gusci vuoti di molluschi,
quando dall’altro lato del promontorio scosceso, decine di metri al di sotto della sua sommità, ha
ascoltato la conversazione di quelle bestie alate senza nome. Stava riparato, mezzo nascosto, mentre
consumava il privilegio di prestar orecchio per primo tra tutti alle opinioni provenienti da forme
tanto estranee. Ci chiediamo cosa abbia da dire a proposito di ciò che ha sentito.
-e che devo dire, quelli là sparano un sacco di cazzate altroché. Figlio mio, se te lo dice un pescatore
puoi pure starne certo. Tant’è che ci sta un amico mio no, che dice che ha acchiappato un pesce
persico grosso trenta metri. Quello manco s’alza bene la mattina, e vuoi pure che t’ha preso un
pesce così grosso! Ma perché, quell’altro? Quello che dice che ha preso un luccio che sputa fuoco,
pure sott’acqua. E quello del pesce gatto addormentato tutto d’oro, e delle trote con le macchie a
forma di stella a sei punte, e l’anguilla che fa la casa nella foresta, e così via… i pescatori ne
raccontano di storie, io no però, e se gli altri ti dicono che la mia Carpa Intelligente non esiste non
devi credergli, che l’ho presa con queste mie mani
A questo punto gli si potrebbe ricordare, gentilmente, che non gli era stato chiesto di riferire le
storie dei pescatori. “Vogliamo saperne di più sulle creature alate”, reclama il pubblico invisibile
(sono anche loro creature costrette a toccare la terra e a “cercare”, non è così? Sia le creature che il
pubblico, si intende). Così da non sbagliare nel farsi un’idea di quel posto, che non ha niente di
metafisico (non in più di tutto il resto)…
-e che devo dire,- ripete, -quelli so strani forte. Ma sapessi quante ne hanno dette! E ci stanno quelli
al paese, quando vai a vendere il pesce al mercato, che chiedono “ma quest’anno li avete visti gli
angeli del lago?”, gli angeli li chiamano capito? Figlio mio, se quelli so gli angeli noi altri quaggiù
siamo rovinati, te lo dico io. Ma poi l’hai visto quanto so brutti? Tutti scuri, neri, co ‘sti artigli, ‘sti
occhi a palla, mamma mia…
Direi che è abbastanza. Questa è una storiella per niente seria che tratta di un lago. Un lago
normalissimo che si può raggiungere con un fuoristrada o in una scarpinata bella lunga dopo aver
preso i mezzi. Sta un poinfrattato, per carità, e non è proprio un posto per turisti alla fine. Però, sul
serio, fosse stato il paradiso o qualcosa del genere, non ci si sarebbe potuti arrivare con la Jeep.
...
Nessuno sapeva dove facessero il nido. Li si vedeva sempre in cielo: volteggiavano, in cerchi
ampissimi a centinaia di metri dalla superficie dell’acqua. L’esile corpo nero, di contorni in perenne
movimento, pareva traballare per effetto di un sole che si stagliava sopra di loro come a voler
inglobare ciò che stavano a rappresentare, che significavano all’interno del mondo toccato dal
cerchio radioso della sua figura. Un cerchio, in effetti, per i terrestri, un’effige semplificata e
incastonata nel cielo, per effetto dell’atmosfera terrestre, la quale priva le cose del cosmo della loro
essenza cosmica. Ne cambia il contesto, le rende imprigionabili nella carta e nella pellicola della
storia del pianeta, una storia dai limiti molto rigidi. Enorme e bianco, accecante… il sole era un
lampo non nettamente distinto dal pallore della volta celeste, in cui queste piccole macchie alate
sembravano allargarsi e restringersi, allargarsi e restringersi nei suoi dintorni come sue proiezioni e
prole. Nei loro cerchi si mantenevano a distanza l’una dall’altra, poi eseguivano piroette, si
incrociavano nei propri percorsi, dandosi colpi violenti che erano come dei saluti, lanciavano strida
assordanti che fortunatamente non giungevano mai al suolo in tutta la loro potenza. Per qualche
ragione invece, non emettevano mai i loro richiami quando volavano più vicini al suolo, se non in
rarissime occasioni. Era il marchio distintivo del loro volo ad alta quota, non meno importante delle
geometrie di ali e ombre che componevano mescolandosi ai raggi solari, e tutti quanti gli erano grati
per questa loro discrezione: non solo quelle volte in cui gridavano vicino agli altri esseri questi si
ammalavano, ma anche smettere di sentire le loro strida fastidiose confinate e depotenziate nell’alto
dei cieli avrebbe avuto delle conseguenze, simili a quelle portate dalla comparsa improvvisa di un
relitto pirata nel pieno centro di una metropoli, dove la sua carcassa di legno fradicio assorbe
clacson e grattacieli invece che gabbiani e palme. Ogni mattina erano là, e poi si gettavano in
picchiata, sfiorando il pelo dell’acqua. Il sangue colava dalle ferite fresche che si lasciavano l’un
l’altro coi loro saluti taglienti, entrando così a far parte della vita del lago. Il rosso denso sfumava
sotto il velo salmastro e patinoso, scomparendo lento come vapore nell’acqua dolce che assorbiva
ogni cosa, mandando cavernosi gorgoglii nelle imperscrutabili profondità del sottosuolo carsico, in
quella voragine umida scavata nella terra, da cui le lacrimose molecole dello specchio d’acqua
continuavano a sgorgare sin dai giorni dei meteoriti. Nuovo sangue poi riaffiorava, quello dei pesci
che venivano afferrati dagli artigli delle bestie alate. A causa di quelle picchiate violentissime, ogni
volta il corpo dei pesci veniva quasi disintegrato all’impatto, lasciando ben poco da mangiare. Non
sentivano niente, non facevano in tempo ad accorgersi dello strappo che andava propagandosi dalla
punta della testa fino a quella della coda, lacerando indiscriminatamente lische, pelle e muscoli nel
suo delinearsi. Erano però condannati a veder morire i loro simili di una morte così brutale e
insensata, che scagliava come in una propulsione operata dal caos gli organi interni al di fuori
dell’acqua, facendoli ricadere a grande distanza con tonfi sgradevoli, incombenti come voci
oltretombali. Forse per questa ragione i pescatori che di tanto in tanto si recavano al lago non
nutrivano grossa simpatia per quelle creature volanti: ai loro occhi quello non era altro che uno
spreco di ottimo pesce. Ignoravano in realtà che le creature conoscevano anche altre tecniche di
caccia molto più efficaci, forse meno plateali e per questo non immediatamente riconducibili a loro
tanto quanto questa famigerata pratica, la quale in realtà più che una vera e propria strategia per
procacciarsi il cibo costituiva una forma di comunicazione. Ma in fin dei conti i pescatori non
avrebbero comunque cambiato idea venendo a sapere questo. Loro credono e sperano di far parte di
una categoria che non si lascia andare in chiacchiere inutili, non come quegli uccellacci che invece
conoscevano così tanti modi diversi di comunicare. La capacità di comunicare mediante codici
snatura un essere, allontanandolo progressivamente dalla forma genuina, designata all’origine per
stare nell’eden, così da avviarlo invece verso una disfunzionale metamorfosi in qualcosa di simile a
un sarcofago riempito di spiriti maledetti in perenne sgretolamento, tentacoli nascosti che brulicano
di astrazioni e congetture senza mai cessare di contorcersi e sibilare. Se era questa la natura di
quelle bestie del cielo, non c’era da stupirsi che il loro aspetto fosse tanto peculiare, tanto
ripugnante a dire il vero. Bipedi, di forma antropoide, ma ben più alti dei pescatori, oscillando tra i
due e i tre metri di altezza. Gli arti erano più lunghi delle restanti parti del corpo. Le “bracciaerano
piuttosto ali affusolate che non potevano piegarsi, lasciate a penzolare come nel cadavere di un
orango, e da cui spuntavano con fare di pungiglioni le piume più grosse; le gambe, allo stesso
tempo sottili e muscolose, si biforcavano in maniera precisissima, quasi fossero state intagliate con
il laser all’interno del torso, tozzo ed esile, con le costole ben visibili da sotto la pelle nuda. E oltre a
questo petto ossuto, quei seni lacerati e quell’addome eroso dalle intemperie, soltanto il volto
rimaneva scoperto dal rivestimento di un manto scuro. Gli arti, la schiena, le spalle, la testa, erano
tutti infilati, come in una calzamaglia fatta aderire alla pelle in modo irreversibile, in una
impenetrabile coltre di orrende piume nere, che parevano composte di un fluido vischioso messo a
indurire, come se inzuppate in petrolio appiccicoso. A volte da queste si staccavano, colando come
da colla calda, delle gocce di inchiostro scurissimo, e quando la temperatura si alzava il manto si
ricopriva di bolle che affiorando tra una piuma e l’altra scoppiavano fischiando come la pece
incandescente. Quando cadevano a terra, queste piume si scomponevano come a confermare di non
possedere una consistenza solida, lasciando nient’altro che una macchia sporca che sarebbe
scomparsa col tempo, come un nevischio corrotto che non attecchisce. Nel volto si spalancavano gli
enormi occhi semisferici privi di palpebra, due opali di uno sporco giallastro che si espandevano
dalla fronte fino alla parte inferiore della zona mediana del volto, grandi come palloncini. Il bulbo
era attraversato da sottilissimi cerchi concentrici, appena visibili, come quelli che si vedono nei
tronchi tagliati, e pareva privo di pupilla. A guardare bene, però, il più piccolo di questi cerchi
restringentisi poteva assomigliare a una pupilla minuscola, posta al centro esatto della palla. Si
diceva che sotto gli occhi ci fosse anche un piccolo naso, ma non si vedeva. Alcuni arrivavano a
sostenere che fosse estremamente acuminato, e che lo usassero come prodigiosa arma di difesa
quando capitavano dei rari scontri a mezz’aria. Sta di fatto che pareva non esserci (dopotutto, era
noto che non si servissero molto dell’olfatto), e sotto gli occhi rimaneva soltanto una bocca molle e
flessibilissima, in grado di aprirsi in orizzontale come in verticale, di distendersi e rimpicciolirsi,
facendosi delle dimensioni di un buco risucchiato verso l’interno come la ventosa di una lampreda,
o dilungandosi come una ferita aperta da uno zigomo all’altro, ma pur sempre nella stessa tremenda
cerniera piena degli stessi piccoli denti scuri e appuntiti, disposti in file strettissime. Tutti questi
elementi sommati componevano gli “angeli del lago”, che gli osservatori esterni alla vita del posto
avrebbero definito gli animali più interessanti da trovarsi nei paraggi, con lo stesso atteggiamento di
una guida turistica che focalizzi l’attenzione degli escursionisti su una particolare fauna resa
pregiata da una fama dalle implicazioni commerciali. Non sarebbe però stato possibile fare del
merchandising ispirato a queste creature, se non negli ambiti ristretti del grottesco e del “creepy”.
Nessuno voleva stendersi su di un telo da mare con le ali nere e gli occhi giganti, nessuno voleva
veder penzolare quei mostri insieme alle chiavi della macchina, e certamente nessuno avrebbe mai
voluto comprare un lampioncino che riproponesse le sembianze di quei corpi spaventosi nel fusto
sorreggente la lampadina: non sembravano affatto dei portatori di luce. Eppure, per la delusione di
poeti attratti da lugubri piaceri, non erano uccelli notturni. Anzi, col calare delle tenebre nessuno
sapeva dove sparissero. Chi aveva già aperto gli occhi alle prime luci dell’alba, e levato il capo
verso le evanescenti nuvole scarlatte che si scomponevano sopra il canyon riempito dei riflessi
sanguigni del nuovo sole, vedeva gli stormi sopraggiungere dal nulla, da un punto del cielo nascosto
dalle sommità sull’orizzonte. Circolavano, si gettavano in picchiata, facevano i loro strani rituali,
poi più tardi risalivano e da lì lanciavano i loro schiamazzi caratteristici, e di nuovo scendevano…
così a ripetizione fino al tramonto, quando scomparivano dietro i massicci rocciosi che
rinchiudevano la conca così come erano apparsi. Avevano i nidi su scogliere lontane, o magari nelle
insenature irraggiungibili che perforavano la roccia ospitante l’acqua fresca di cascate? Non lo
sapeva nessuno. I territori oltre la conca erano ancora troppo impervi, troppo selvaggi, e nessuno
mai si azzardava a esplorarli. “La vita è tanto spesso troppo pericolosa così com’è”, dicevano i
pescatori nei villaggi più vicini, che per questo motivo credevano di poter dire che dietro le vette
lontane potesse esserci il paradiso. Non tutti, ovviamente. Un pescatore in particolare era convinto
di avere la ragione dalla sua parte, a differenza di tutti gli altri. Si sentiva legato alla comunità,
questo è certo, ma era convinto di avere qualcosa in più. Dopotutto, doveva esserci un motivo se in
mezzo a tutti gli altri che dicevano di aver preso pesci dotati delle caratteristiche più stravaganti e
barocche, lustri sfarzosi e ingombranti che non portavano a nulla di rilevante, proprio lui aveva
messo le mani sulla Carpa Intelligente. Quel giorno il lago gli aveva sorriso, dicendogli : “ecco,
prendi. Questo è il mio frutto più bello e importante. Il migliore. È tuo..”, e ovviamente qualcosa
cambiò in lui. Non divenne arrogante: non faceva sfoggio dell’intelletto che era convinto di aver
raggiunto, non esibiva la sua conquista (non con la stessa frequenza degli altri), e continuava nei
suoi doveri di membro della comunità; alle riunioni del capovillaggio partecipava sempre,
ascoltandolo in religioso silenzio, durante i periodi di carestia aiutava sempre con parte delle sue
scorte le famiglie più deboli, insegnava ai bambini come intrecciare i nodi per le barche e le trame
delle ceste per raccogliere il pesce, salutava quieto e sornione i suoi compatrioti. Rispettava i giorni
di festa e le parole dei saggi. Ma non sempre nell’animo ospitava una vera comprensione nei
confronti delle stesse, avendo imbarcato dubbi per mezzo della sua maggiore cattura: la notte era
come un luogo giusto per ospitarli, farli moltiplicare come spore criofile; si metteva sulla barchetta
da solo, davanti a tenebre e quiete che avvolgevano tutto. L’acqua si riempiva del nero vuoto del
cosmo, come risucchiandolo dall’aria soprastante, facendosi così più limpida che mai, i suoi
schiocchi più pieni d’eco che durante il giorno: lo spazio era svuotato dal caos dei viventi. Poche
creature discrete e piccole si davano da fare sotto le numerosissime costellazioni cantate già dai
primi abitanti, sporadicamente pochi respiri di dormienti e fantasmini di palude parevano far
capolino dalle case lontane come sobrie nuvolette di vapore, soltanto di passaggio. I suoi gesti si
propagavano sullo specchio d’acqua avvolto nella calma ed egli credeva forse, ovviamente nei suoi
termini poco sofisticati, di aver compiuto quello che poteva essere un passo in avanti nel processo
dell’evoluzione. A quel punto sarebbe anche potuto morire assieme a tutti gli altri pescatori
vecchietti, senza sfuggire alla decadenza che mai cessava di tallonare tutti quanti. Però, chissà, la
sua particolarissima condizione, il rapporto più speciale con un pesce unico nel suo genere, avrebbe
potuto aprirgli una nuova porta anche sul letto di morte. Chi poteva dire quali cose comportava un
simile fatto? Forse anche la capacità di camminare, di passeggiare tranquillo e indisturbato come tra
i costoni circondanti il lago, sullo stretto nodo nebuloso che separava il mondo dei vivi da quello dei
morti, in quell’assenza di spazio in cui si poteva entrare soltanto una volta valicata la soglia che si
apriva oltre le palpebre chiuse… tanto, la Carpa Intelligente sarebbe rimasta al sicuro nella capanna,
in una cassa riempita d’acqua. Entrambi gironzolavano di qua e di là, chi al chiuso nell’acqua e chi
all’aperto intorno alla costa, entrambi a formulare pensieri unici. Da quando l’aveva pescata, infatti,
il pescatore era diventato più meditabondo. Come tutti gli abitanti della conca, era sempre stato di
un silenzio diverso da quello dei pensatori, poco protratto in riflessioni d’eccessivo trasporto: è
invece un filamento del silenzio ostinato che mandano gli oggetti. L’uomo setacciava nel sacchetto
delle esche, ne prendeva una, la attaccava all’amo, e così via senza intoppi. Ma c’era stato un
cambiamento poiché, pur continuando indisturbato nelle sue azioni, queste avevano iniziato a veder
concentrarsi tutta una serie di problematiche attorno alla sfera del loro svolgersi, così che un
vermetto spostato da una sacca all’amo diventava una questione la cui importanza, per quanto
marginale, non andava dimenticata, un ingranaggio da inserire in un più ampio ordigno
costantemente in via di costruzione. Era convinto del legame tra questa sua nuova disposizione e il
ritrovamento della Carpa. Bastava che ricordasse che lei era lì, come un talismano custodito in un
santuario segreto che esisteva per proteggere e allo stesso tempo far funzionare a distanza la sua
forza mentale. Accoglieva con una rinnovata curiosità le cose insolite che gli si presentavano molto
sporadicamente nella sua pacifica vita, avido com’era di rielaborarle in modo tale da riaffermare
ogni volta con maggiore convinzione la prospettiva che si era fatto del suo nuovo “ruolo”(se di
ruolo si poteva parlare, stando l’apparenza rimasta immutata delle mansioni che svolgeva, e si sa
che sono proprio i gesti a definire un ruolo. Un normalissimo pescatore, dunque). I suoi baffi
fremevano, proprio come quelli della Carpa, quando si vedeva la neve in estate, oppure quando
spuntava dal lago un pesce particolare. Il vecchio però non sembrava mai particolarmente
interessato agli strani angeli. In fin dei conti questi, malgrado le leggende circolanti sul loro conto,
non erano oggetto di venerazione neanche presso gli altri abitanti del villaggio. Nel corso del tempo
avevano inevitabilmente catturato la loro attenzione, questo è indubbio, ma neanche erano stati
eletti animali rappresentativi della cultura locale. Erano diventati ai loro occhi un simbolo vivente di
vita propria, senza la capacità di insegnar loro a proposito degli antenati, della storia, del futuro,
dell’amore, della nascita o della morte. Non c’erano statuette o idoli, e non c’erano totem di legno
che spiegassero le stesse ali degenerate. Piccoli manufatti di legno sostavano in qualche abitazione,
ma la loro era la forma di creaturine mansuete, come le folaghe e i salmoni. Ma anche in questo,
pareva esserci stato un cambiamento. La Carpa in casa aveva sbadigliato, e il pescatore galleggiante
sul riflesso della luna si ricordò all’improvviso di quel tale. Era arrivato con delle cose nuove,
“informazionimai sentite, che dicevano cose diverse da ciò che si era sempre saputo. Che se le
ritrovasse anche lui tutte d’un tratto a spuntare nel bel mezzo dei suoi pensieri consueti, anche lui
padrone di un pesce magico che gli infiltrava eccentricità mescolate al quotidiano? Era uno
studioso, in visita al villaggio come provenisse da una stella lontana, “ricercatore”, si diceva, uno
giunto fin dalle lontane città per far domande a gente umile. Sosteneva di aver trovato in una grotta
sotterranea tra le depressioni del canyon delle pitture che ritraevano proprio quegli animali, i
cosiddetti “angeli”. Pensando che gli abitanti di oggi avessero qualche legame con quelle
dimenticate tribù che avevano abitato le caverne, chiese loro (soprattutto agli anziani) se per caso
non ricordassero qualche vecchia canzone, di quelle tramandate da generazioni senza subire
modifiche, che facesse menzione di certi perduti rituali di notti intorno al falò, in cui magari si
adoperavano le piume gelatinose dei mostruosi pennuti o ci si dipingeva il corpo in modo da
assomigliare a loro. Nessuno però ricordava niente di tutto questo. Alcuni avevano riportato una
filastrocca in cui si parlava degli angeli, riferita in maniera ogni volta un podiversa, per quanto
simile nel contenuto, a seconda delle persone che l’avevano recitata (molti vecchi a cui si
illuminava il volto canticchiandola, pochi bambini, pochissimi adulti che la recitavano senza
intonazione come a leggere un proclama, una donna solitaria dal volto coperto). Grossomodo,
faceva così:
Prega per chi riposa nel fango, così (e mimavano il gesto della preghiera)
Ricorda di farlo ogni lunedì
Che se il pescato non porti alla tomba
Scompari nel cielo come il tuono che romba.
Rispetta il villaggio e la sua pietra, così (accarezzavano l’aria, come strofinandola)
Accarezza la pietra nel Gran Vener
Che se non ami casa tua e la sua storia passata
Dal cielo cadrai, uccellaccio in picchiata. (questo verso si riferiva a loro, come poi ebbe modo di
confermare ascoltando un’altra versione che usava il termine “arpiaal posto di uccellaccio, e come
del resto confermava il penultimo verso del piccolo componimento)
Canta nel Giorno della Danza, così (agitavano le braccia al cielo, tenendo i palmi delle mani aperti)
Ricordati che cade in un mercoledì;
Chi non canta e non balla bestemmia e si sbaglia,
E come la frana dal cielo, tutto sbaraglia.
Tuono, angelo e frana sono così:
Fai il bravo e fuggi da lor tutto il dì.
Lo studioso però aveva reputato la filastrocca di poco conto. Pareva deluso dal fatto che l’unica
testimonianza orale relativa agli “angeli del lagoda parte delle persone che gli abitavano più
vicino di chiunque altro fosse una semplice filastrocca per far ricordare alcune festività ai bambini.
In verità, esistevano anche altre canzoni, ma gli abitanti del villaggio ritenevano che lo studioso non
avesse fatto loro le domande giuste, perciò si erano sentiti in diritto di non parlargliene. Poi quello
non si era fatto più vedere, forse si era perso tra le caverne, nel canyon, o nella foresta un popiù
lontana. Non aveva fatto più ritorno, colui che aveva introdotto quelle strane questioni… comunque
anche allora il vecchio pescatore, prima di trovare il suo gioiello, aveva pensato che se l’avesse
chiesto a lui non avrebbe avuto problemi a recitargli i versi di quelle canzoni, poiché le teneva in
così poco conto da credere che non ci fosse motivo tanto di ignorarle quanto di volerle
approfondire. Non meritavano attenzione, si poteva star sicuri di questo. D’altre parte, si trattava
soltanto di vecchie canzoni. E quegli angeli ancora non suscitavano la sua curiosità risvegliata,
andava dicendosi; se l’era detto allora e se lo ripeteva nel presente in cui mesceva tra i ricordi, e
intanto traeva la lenza dall’acqua annerita di notte. Quando si era presentato sulla via terrosa quel
bizzarro forestiero, vestito strano, il pescatore aveva gettato l’amo senza remore, convincendosi che
quell’individuo dalla vocetta ansiosa avrebbe fatto bene a smetterla di indagare simili sciocchezze.
Stranamente però il vecchio, quel giorno in cui vide due angeli più da vicino di quanto avesse mai
fatto, o di quanto con molta probabilità potesse dire di aver fatto la maggior parte degli abitanti del
villaggio, non poté fare a meno di ripensare a quel giovane ricercatore. “toh”, -aveva pensato-
“questo sì che sarebbe piaciuto a quello là. Bah, non capisco proprio. Certo che sono brutti quei
cosi. Grossi come sono, con queste ali-braccia così lunghe, quando camminano a terra sono
goffissimi. Stanno ingombrati come gli avvoltoi. Non sono fatti per stare qua. Bah, pazienza. Hey,
certo che questa rete non ne vuol proprio sapere di districarsi!”
Ma la rete si districava facilmente. Un bluff raccontato da un pescatore per se stesso.
...
C’era un angelo del lago che si chiamava Ih. Aveva piroettato nel cielo, come al solito, era andato a
rivolgere e ricevere i consueti saluti. Gli artigli di Fwò dovevano avergli lacerato fin sotto al fegato,
questa volta. Discese verso il basso, pronto alla fase più importante della picchiata. Aspettò calmo
che il sangue gocciolasse dalla ferita aperta, tintinnando sul lago, poi avvicinò gli artigli all’acqua
e… niente. Non voleva, ma doveva riprovarci. Risalì su, per prepararsi a un’altra picchiata. Ih
sapeva, come tanti altri, che esistevano alcuni esseri umani che li chiamavano “gli angeli del lago”.
A lui però non importava molto. Credeva che fosse una cosa di poco conto, che non meritava di
essere contestata né ricordata. Nonostante questo, mentre velocissimo si precipitava per la seconda
volta in quella mattinata verso il limpido specchio che si stagliava -si sarebbe detto quasi
all’infinito- sotto di lui, gli venne in mente un pensiero curioso. “ma perché”, -si chiedeva-
“chiamano noi angeli, che di angelico non abbiamo niente, anche se non conoscono proprio l’unica
cosa che ci rende simili agli angeli?”. Si riferiva al fatto che il piumaggio pastoso che li avvolgeva,
non escludendo la zona delle orecchie, ostruiva la loro percezione uditiva (non abbastanza da
renderla nulla, è chiaro) e gettava nella sfera sonora che questi riuscivano a captare un inarrestabile
mormorio di sottofondo, che li accompagnava sempre. Tale mormorio assomigliava come all’eco
lieve di un coro di vere voci, un’armonia eterea di gole prive di consistenza corporea unite nella
stessa orchestra per erigere un muro di suono, da interporre tra il mondo con i suoi rumori e
l’apparato uditivo che cercava di catturarli invano nella loro pienezza. E assomigliava, appunto, a
voci di angeli, come un acufene proveniente dal cielo. Forse l’ostruzione causata dalle piume
produceva questo effetto proprio perché erano le stesse piume a cantare, per redimersi così dal
muco intrappolante della loro esiliata essenza di tenebra, grazie alla soave magia di un canto che
sembrava mormorato da sopra le nuvole. Distratto com’era da queste cose, decise che non valeva la
pena di portare a compimento quel secondo tentativo, dando per scontato che la natura di questi
pensieri aveva ormai arrestato il massimo rendimento dei muscoli e dei movimenti necessari alla
riuscita, e consumò quelle forze in una bruschissima virata, ovviamente di nuovo verso l’alto, di
nuovo in postazione per riprovarci. In verità la distrazione e i pensieri di Ih erano piuttosto un
espediente che una causa. Tra tutti i tentativi falliti, forse di proposito, non c’era più sangue a colare
dalla ferita al fegato. Una cosa del genere sarebbe parsa a tutti un motivo legittimo per decidere di
rinunciare. Non sapendo cosa gli passasse per la testa, il peggio che avrebbero potuto pensare era
che semplicemente quella non fosse la sua giornata. Non è che gli altri facessero poi tanto caso ai
comportamenti dei singoli, e di certo anche a pensarci avrebbero presto dimenticato la cosa -e come
poteva essere diversamente, per delle creature che con quegli schiamazzi striduli e quella bocca
iperattiva sembrava sempre che ridessero, come a prendersi gioco di tutto dal cielo?. Ma Ih era un
tipo cauto. Arrivato a quello che stabilì essere il suo ultimo tentativo per la mattinata, sciaguattò le
zampe (piedi, forse?) nell’acqua, di qua e di là, come per gioco; confermava al riflesso, il se stesso
tremolante sulla superficie accidentata delle onde concentriche prodotte dai suoi movimenti caotici,
l’importanza che questa sua indolenza aveva per il modo in cui si percepiva in rapporto alla
questione della battuta di caccia mattutina. Si vedevano i pesci più usi a nuotare sotto il pelo
dell’acqua scappare via terrorizzati non tanto dai mulinelli, quanto da quello che stavano a
rappresentare gli artigli che li generavano, penetrando la membrana invalicabile che separava il
mondo dove si respirava da quello in cui si soffocava. Bastava la vicinanza di una scaglia d’unghia,
della fibra di una piuma, di una millilitrica goccia nera -insomma, di una qualsiasi delle singole
cellule che componevano quegli incomprensibili uccelli per far sì che tutto il mondo subacqueo
tremasse in preda al proverbiale timore atavico che intorpidisce i sensi, quali che fossero le reali
intenzioni di chi, di quelle cellule, ne aveva tantissime. Ih rideva, e guardava sé stesso ridere
nell’acqua, osservando quei pesci che erano spaventati da lui, come a prenderli in giro bonariamente
in un gioco in cui era il solo consapevole della sua mancanza di intenzioni nocive. Avrebbe voluto
dirgli, non senza continuare a ridere della loro paura, che in realtà gli stava salvando la vita. Nel far
questo cominciava quasi a divertirsi sul serio, e percorse senza accorgersene un tratto piuttosto
lungo -e inusuale per quelli come lui- senza rimuovere gli artigli da sotto l’acqua, come ad aprire
una fenditura sul lago, attraverso la quale, magari, egli sarebbe potuto scender giù insieme ai pesci,
o loro sarebbero potuti salir su, ognuno accantonando le reciproche incomprensioni per il tempo di
questa visita diplomatica resa possibile da chi aveva squarciato il lago con tutti i suoi vecchi
regolamenti. Poi gli venne in mente che ciò che si era detto tra sé, quella pretesa di “salvare la vita”,
fosse una cosa molto idiota da pensare. Mescolare giochi cretini che uno faceva per ingannare il
tempo e se stesso con un’idea nobile come quella della salvezza! Era quasi un pensiero irrispettoso,
non sapeva bene nei confronti di chi. E poi, avesse avuto pure la presunzione di affermarlo dopo
essersi reso conto di che volesse dire, il suo intento sarebbe stato presto vanificato, ridicolizzato: a
che serve che uno salvi un pesce se, passato l’istante in cui decide di andarsene da un’altra parte a
farsi i fatti propri, subito arriva in picchiata un altro che disintegra quello stesso pesce come un
fragile ammasso di carni flaccide e molli? Questa “rivelazionelo intristì, facendolo destare dal suo
sogno ad occhi aperti; virò bruscamente via dal raggio che aveva tracciato sull’acqua, per andarsi ad
appollaiare su di un promontorio che affacciava sul lago, dalla cui sommità si poteva vedere tutto il
paesaggio, dai radi canneti della riva sottostante fino ai bordi sfumati delle geometrie più distanti
che il canyon disegnava sull’orizzonte.
Per prima cosa salì direttamente sulla sommità, dando così le spalle al lago. Non era soddisfatto. Si
rialzò in volo e tornò indietro, cercando una via alternativa. Si mise vicino alle pendici della rupe, in
piedi su uno spicchietto di riva sabbiosa. Da lì dietro un piccolo sentiero si impennava e incurvava
per portare al promontorio. Era improbabile che lo utilizzasse per arrivarci a piedi, ma poteva
sfruttare il sentiero come una semplice indicazione disegnata sulla terra, seguendone la linea
dall’alto con gli occhi mentre era in volo, così da arrivare sulla sporgenza in un’altra prospettiva, in
modo tale da trovarsi il lago davanti. C’era un’altra tecnica di caccia (anzi, sarebbe stato corretto
dire che quella della picchiata non lo fosse, e che questa invece sì) che prevedeva che il predatore si
mettesse in uno qualsiasi di quei punti in cui l’acqua lambisce la roccia, la sabbia, i sassolini
eccetera. Da qui si poteva servire della muscolatura delle gambe per immettere un’onda d’urto al di
sotto del basso livello dell’acqua, così da far uscir fuori e al contempo stordire i pesci nascosti tra le
insenature vicine alla riva, peraltro disorientati nel gran polverone di sabbia agitata dall’impatto. Ih
dovette riconoscere a malincuore che questa tecnica gli riusciva ancora. Eppure, non portava forse
allo stesso risultato? In fondo, cosa importava al pesce di morire così, preso ripetutamente a calci
come un serpente stanato da un serpentario, oppure sfracellato in un battito di ciglia dallo schianto
di un razzo inarrestabile? Anzi, era forse nel secondo caso che la sua sofferenza veniva meno. A Ih,
però, quella tecnica aveva cominciato a dar la nausea già da un po’. Sempre più amareggiato si
criticava, dicendosi che in fondo tutta questa cosa poteva ridursi a una questione di cosa piacesse a
lui, e non di quello che piacesse ai pesci. Afferrato con gli artigli quello che assomigliava a un
rombo d’acqua dolce, si diresse verso il pendio.
Era rimasto rannicchiato sul bordo estremo per tutto il pomeriggio. Le ginocchia puntavano in alto
come spuntoni rachitici, più alte del torso, era buffo e inquietante. Teneva il rombo immobilizzato
in mezzo agli artigli, sotto tutto il peso di una gamba che sporgeva un popiù avanti. Se l’avesse
levata, il rombo sarebbe caduto giù. Quello si agitava, ansimava sgradevolmente, insultava il suo
carnefice. Non capiva che senso avesse tenerlo tutto il tempo così senza motivo, per giunta in bilico
tra il sole cocente, artigli terribili e una caduta certamente fatale. In un caso o nell’altro la sua ora
sarebbe arrivata, ma contrariamente a quanto avesse mai pensato il ritardo era addirittura
insopportabile. Il tipo, la bestia alata, non sembrava un sadico, anzi, aveva quasi un’aria
malinconica, mentre se ne stava pensoso a osservare il lago. Era come se si fosse dimenticato di
aver preso un pesce, o se avesse smesso di importargli. In altre parole, un rincoglionito piumato di
nero. Ma possibile che tra tutti quegli uccellacci proprio a lui doveva capitare il più imbecille?
-hey! Hey! Embè, che stamo a fa?
Ma quello non si smuoveva. Fissava il vuoto con una faccia ammusonita (cioè per quanto potesse
essere ammusonita la faccia di uno di quelli). Con gli occhi sempre aperti e quelle smorfie, erano
come degli emissari della risata e della spensieratezza. Non la spensieratezza di un cuor leggero, ma
quella bestiale degli esseri più primitivi che meglio riescono ad accedere al piacere spontaneo di
colpire, mutilare, distruggere, strappare un oggetto, confermando attraverso l’annientamento
l’esistenza sua e quella propria, sentendosi per sempre grati così. Questo invece aveva la zona più
settentrionale della fronte, quella sopra le orbite, addirittura protrusa in uno sforzo simile a un
aggrottamento. Se avesse avuto le palpebre, le avrebbe tenute in quel momento come saracinesche
abbassate per metà. Al pesce tutto questo dava sui nervi.
-ma che cazzo stai a fache c’hai, paura?
-senti, per caso hai freddo?- chiese il deforme uccello. Il timbro vocale, naturalmente simile
all’intonazione di un ragazzino colpevole che si diverta a fingersi sempre innocente, si era riempito
di uno strano piagnucolio, una smorfia sonora imbarazzante sia per il pesce che per lui (ma
soprattutto per il pesce).
“Cosa?”, pensò il rombo. A quel punto non c’era più dubbio che fosse un autentico svitato. E quelli
erano già svitati di loro, ci mancava solo questa.
-…che?
-se hai freddo, dico. Hai presente, no, quello che si dice di chi sta per morire? Ho pensato, voi state
sempre nell’acqua fresca. A morire così invece il sole vi abbrustolisce la pelle. Mi chiedevo se…
-è per questo che non ti decidi ad ammazzarmi? Per questo tuo esperimento del cazzo?
-ma no, ma no, assolutamente…- quel coso addirittura arrossì di vergogna! Imbarazzato, mentre
uno annaspava tra la vita e la morte! -è solo che, ecco, visto che ti trovi lì lì… insomma, capisci,
no? Quel che è fatto è fatto, tanto vale approfittarne e chie…
-oddio, non ne posso più. Ho capito, ho capito, basta. Me vuoi fa sta così fino a sera. Almeno però
statte zitto. Basta così.
Rimase imbarazzato ancora per un po’. Poi, senza comunque liberare questa scorbutica “preda a
metà”, smise di farci caso. Nel frattempo, si stava proprio facendo tardi in rapporto alle consuete
abitudini delle bestie alate, che cercavano sempre di rientrare prima di sera. Ce n’erano ancora in
giro? Di quelle che non disdegnavano i raggi del tramonto, magari. Sospirò qualcosa, come una
preghiera dimenticata pronunciata per sbaglio.
-e allora, vieni a liberarmi da questo schifo? Vieni dal cielo, come il tuono e il lampo!
Proprio come se si trattasse in fondo di una fata o di una ninfa ridente -l’emanazione genuina di uno
spirito naturale, che si fa portatore di una vitalità presumibilmente intrinseca alla flora e la fauna di
un posto-, giunse all’improvviso Hi, una carismatica “arpiadal temperamento impetuoso(capitava
che qualcuno chiamasse le femmine -o quelle che a rigor di logica e a beneficio degli articoli
determinativi dovevano essere le femmine- di quella specie col nome di “arpie”. Non era facile
distinguere, da una punto di vista umano, questi “maschida queste “femmine”, ma era chiaro che i
due “generisi trovassero in un rapporto di complementarietà ricercato a vicenda. Secondo gli
esperti più autorevoli, se c’erano omosessuali tra gli angeli e le arpie, questi rimanevano reclusi
sugli altopiani mai visti dove si favoleggiava che nidificassero. Poi alcuni di stampo reazionario si
lamentavano di questa teoria, adducendo che stando l’altra -che abbiamo già visto errata- che
vedeva il luogo della loro cova come il paradiso, era impensabile che ivi fossero ammessi degli
omosessuali; ma questo, francamente, è tutto un altro paio di maniche). Come Ih, sebbene con
rapidità molto maggiore, in un primo momento si era diretta frontalmente verso il promontorio che
si inarcava in su per poi deviare a mezz’aria; in seguito volteggiò come pazza oscillando tra velocità
sempre più vertiginose nel percorrere vie alternative, in un volo frenetico e scriteriato da farfalla
accelerata, in cui le linee si intrecciavano in una matassa impossibile da sbrogliare. Non era certo
per gli stessi dubbi che toccavano Ih che aveva mostrato scetticismo verso l’atterraggio intrapreso
all’inizio: al contrario, lei non atterrava mai da nessuna parte senza prima aver deviato in tutte le
direzioni, come se fosse sua preoccupazione quella di non lasciarsi sfuggire tutte le svariate
possibilità che scaturivano dalla manifestazione di un fenomeno, quelle che si allontanavano da
tutte le parti per andare a evaporare irreversibilmente nel nulla e che lei, forte del suo volo
fulmineo, andava a inseguire come se ne fosse ghiotta, come se non potesse farne a meno. Tuttavia,
anche lei arrivava a rendersi conto che si trattava di un languore che era impossibile soddisfare, ed
era soltanto quando la sua mente iperattiva e sovraeccitata finiva per ricordare questo fatto (cui era
bene rassegnarsi senza opporre resistenza) che finalmente riusciva ad arrestarsi, e così ad atterrare.
Le sue gambe schioccarono un tonfo sul terreno della rupe, compatto e vuoto come un pavimento di
sabbia indurita, e il suo collo si levò con aria quasi estatica verso l’alto, come se volgendo la sua
regalità al cielo volesse indurre questo ad aprirsi in due e ad aspergere il mondo con la tempesta
ancor prima della fine dei tempi; emise un grido che stravolse la quiete degli altri esseri. E un
pescatore convinto di essere saggio per mezzo di una Carpa, che vicino alla riva protetta dal
promontorio sbrigava le sue faccende, sobbalzò sorpreso. Per un breve, ma decisivo momento
immediatamente represso, si preoccupò, “sono davvero scesi a terra quei cosi?”, e in tal caso c’era
da sperare che non gridassero di nuovo, poiché quegli stridii erano capaci di tramortire anche uno
stambecco. Si allontanò quanto bastava dalla parete, in modo da osservare cosa c’era sulla sommità.
Ce n’erano due, uno seduto e l’altro più indietro in piedi, con la testa piegata all’indietro. Vedendoli,
si convinse che fosse stupido lasciarsi spaventare da un gridolino, e che non valeva la pena di
lasciar perdere le proprie attività per una simile sciocchezza. Fece per tornare alle sue reti g
sbrogliate, le sbrogliò di nuovo e stette là a non curarsi ulteriormente del problema. Hi, dopo il suo
richiamo liberatorio, convogliò tutte le sue restanti energie per salutare Ih che stava lì seduto. E
come ci si comporta con uno che non dà segno di volersi voltare? Gli si graffia tutta la schiena, tre
volte, sei volte, nove volte. Quando si ha energia da vendere, i graffi arrivano ancora più a fondo. E
quando non si ha a portata d’artiglio il ventre molle che deve accoglierli, bisogna compensare
questa cosa prodigandosi con ancor più foga nell’elargizione del saluto.
Ih pensò: “grazie a dio”.
Era come se qualcuno stesse scavando per il filone di un qualche minerale prezioso, di cui si era
parlato nelle leggende, tra le articolazioni nascoste nella sua schiena. Lei graffiava come una
bambina entusiasta e gigante, squartando senza freno le povere giunture che scoppiavano inermi
lungo la colonna vertebrale, tante rocce prese a picconate e scoppi di tritolo.
-ciao Ih! Ciaociaociaociaociaociaociaociaociaociao!!! Cia-o-Ih-co-me-sta-i!-, esclamò scandendo
gli ultimi fendenti, come a mettere una firma.
-ciao, Hi. Come mai ancora in giro?
-mmmhhh…-, fece con fare infantile, voleva sottolineare che quello era un interrogativo da non
prendere sottogamba -sai che non ne ho idea? Non ci stavo a pensare. E poi che fa?
-ma come che fa? Pensavo che “voiancora ci teneste a queste cose.
-che cose, Ih caro?
-sai, queste cose… tipo che di notte non andiamo in giro. Queste cose che sì, insomma, dobbiamo
fare, e…
-sono cose importanti, certo, ma secondo me ci sono cose più importanti nella vita.
Non riuscendo a star ferma, aveva preso a passeggiare, goffissima come tutti i discendenti della
stessa stirpe, nei dintorni della salitella. Setacciava coi piedi le zolle di terra e la poca rada
vegetazione che lì cresceva, strappava pavimentazione a modi gallinaccio prepotente.
-già. Ci sono cose più importanti.-, ripeté con parole intorpidite, simili al formicolio nelle gambe
addormentate.
-e tu, Ih, non ci tieni più a queste tradizioni?
-non so. Non tutte, di sicuro. Anzi, alcune per niente. Per caso si vede?
-in che senso, “si vede”??
Ih si voltò di tre quarti. Guardò lei che, non ricambiandogli lo sguardo, se ne stava con aria
sognante a scavare, a meravigliarsi del suo operato in quanto fine a sé stesso. Era innocente anche
nella colpevolezza di aver modificato per sempre l’ambiente circostante. E questo la rendeva ancora
più bella. forse alcune di “quelle cose che dovevano farenon gli piacevano più, ma tra queste non
rientrava la complementarietà degli “angelie delle “arpie”. Le sue labbra si piegarono in un
debolissimo sorriso.
-niente, lascia stare. Non importa.-, si limitò a mormorare, era un buon attore drammatico.
-hahahahaha, sei proprio strano, Ih!
Sorrise di nuovo, meglio di prima.
-già, forse hai ragione.
Il rombo diede uno strattone più forte da sotto gli artigli di Ih. Se ne ricordò, di nuovo balenarono i
pensieri del mattino.
-senti, Hi… ma tu non pensi che faccia schifo quello che facciamo ai pesci?
-come, “fa schifo”?
-ascoltami, non pensi che sia assolutamente superfluo, ma soprattutto, sgradevole, ehm…
“romperlia quel modo?
“ma guarda te sto fijo de na mignotta”, pensò il rombo. “ne sparano di stronzate”, pensò il pescatore
sputando per terra.
-mah, sgradevole, non so, forse, chi se ne importa?
-a me importa invece!- si voltò quasi completamente -a che serve, me lo spieghi?
-non serve a niente,- anche lei lo stava guardando, insolitamente ferma -niente serve a niente. E
capisco pure che lo trovi brutto. E non voglio neanche dirti che “non puoi farci niente”. Tutti
possono farci quello che vogliono, con tutte le cose. È più un fatto di “scegliereche di “farci”. Io
scelgo sempre di fare tutto quanto, sai? Almeno finché mi stanco.
-bene. Spero di riuscire a scegliere di non fare più quella cosa orribile e tutte le altre azioni che
possono ricordarmela.
-eh sì, è proprio orribile. Però io sono bravissima.
“ma mo pure quest’altra mortacci sua!”, pensò il rombo. “A brutte merde!”, disse ad alta voce,
sfinito. Hi si sedette al fianco di Ih, battendo freneticamente i piedi sul bordo della rupe.
-di un po’, Ih, ma non è che perché adesso non ti piace più la picchiata, non ti piaccio più neanche
io che la faccio così bene? E anche tutti gli altri che non stanno a pensare a queste cose, anche se le
capiscono. Non ti piace più nessuno?
-non è assolutamente così.
-allora dimmi, come fa a piacerti qualcuno? Non ti importa se è un bravo cacciatore; non ti importa
quanto voli veloce, quanti pesci prenda, quanti riesca a mangiarne in una volta sola; non ti importa
dei suoi richiami, ai quali non rispondi; e poi, dimmi quello che vuoi, ma quando infilo le unghie
dentro di te lo sento, lo sento con le dita stesse, che preferiresti non salutare la gente. Non-co-mu-ni-
chi.-, scandì di nuovo picchiettandolo appena sulla spalla col suo impercettibile e micidiale naso -
Tu mi piaci, Ih, ma che deve fare uno per piacere a te? Per esserti complementare?
-non deve fare niente. È proprio questo il punto.
-ce l’avrai pure un criterio, o…
-il criterio è il lago.
-il lago?
-osserva.
Difficilmente le bestie alate volavano al tramonto. E si capisce, ancor più raramente lo osservavano
da sedute o appollaiate mentre imbrattava coi suoi rossi acquosi tutto il paesaggio, infiltrandosi nei
riflessi dell’acqua dolce, sulla roccia arancione dell’orizzonte, su una nuvola che si scompone
stanca. Dopo chissà quanto tempo, le due creature che erano tornate a farlo si chiamavano Ih e Hi,
un pazzo che aveva paura di sentirsi mancare alla vista del sangue e una pazza che a forza di
dedicarsi a ogni attività conosciuta ne avrebbe certo dimenticata qualcuna.
-il lago è bello. O meglio, il lago è il lago e basta. Ma non ci metti niente a pensare che è bello. Sul
suo fondo le cose si depositano. Se lanci un sasso quello affonda, piano piano… prima o poi finisce
che la sabbia sul fondale lo inghiotte, e da quel punto in avanti non lo vedi mai più. E lo stesso vale
anche per le povere membra dei pesci distrutti, per il sangue nostro, le alghe morte… tutto sparisce
sotto la sabbia. Eppure, proprio perché tu puoi vederli scomparire così, con la convinzione che
scendendo nelle profondità prima o poi si incontri la sabbia, arrivi a sentire con tutta l’energia che
esiste al mondo che in verità scomparsi non sono. È tutto là! Il sangue dei nostri antenati, anche dei
primi che sono comparsi sulla terra! E gli antenati dei pesci che hai ucciso oggi, e di questo pesce
che ho qua- “li mortacci tua!”-, e delle montagne che stanno laggiù… e a forza di andare avanti così
uno capisce pure che sul fondo del lago ci sono anche le stelle e il cielo intero. E quella cosa che
chiamiamo tempo.
-anche quegli scemi di pescatori che vanno sulle barche?
-certo, anche loro. Ogni cosa.
-capisco. Certo, non mi importa niente di quelli, hahaha. Non sono così importanti come gli altri
dicono, secondo me.
-comunque, capisci quello che voglio dire? Il lago è bello per questo. Invece, là dove viviamo noi,
su quegli altopiani lontani…
si volse verso un punto nell’orizzonte inarrivabile. Il pescatore della Carpa Intelligente, suo
malgrado, si sentì accapponare la pelle nell’ascoltare quelle parole, e d’istinto si voltò di scatto
verso quel punto che il mostro indicava. Sempre di scatto tornò alle sue reti, le sue mani
insolitamente impacciate e meno svelte nel districarle a causa di una strana nostalgia che si era
impadronita di lui, portandogli alla mente quello strano ragazzo di città che tempo prima aveva fatto
strane domande e che poi era scomparso… “dove sei finito?”, chiese sottovoce a un nodo che aveva
reso particolarmente ostico. Continuò a fingere di non stare ad ascoltarli.
-su quegli altopiani dove è solo roccia resa gialla dal sole che assorbe tutto. Dove sorge sul nulla, e
tramonta sul nulla… quelle tavole dure e, e deprimenti, dove, dove, dove non succede niente! E tutti
sono felici, e tutti hanno questi occhi, che… quando siamo tutti là, vicino ai nostri nidi, le nostre
case, a prepararci per la giornata e a riposarci dopo le cose che sono successe, tutti così
dannatamente consapevoli delle cose che si vanno a fare e che si ripeteranno il giorno dopo… là i
nostri occhi sembrano brutti. Penso questo, penso che se li guardi in mezzo a tutta quella luce così
invasiva, i nostri occhi ti sembrano solo delle palle terribili create da uno stregone con un gusto
raffinato per le cose più perverse. I nostri stessi occhi! E poi, quella musica che ci ronza nelle
orecchie… ma sono solo io quello che la sente più forte là sopra? Mi fa diventare matto. Questo
coro che soffia come un vento intrappolato dentro la testa, che sembra compiacersi quando sta così
ad alta quota, così vicino a quella palla di fuoco infame. Diventa un baccano da trapanarti dentro il
cervello, e ti senti scuotere dalla punta delle piume fino al midollo dentro le ossa, e tutto diventa
ancora peggio quando guardi tutti gli altri e vedi che hanno questi sorrisi, come se a loro la musica
piacesse. Poi scendi giù al lago, e la musica non è più così terribile.
-ma questo che c’entra con chi ti piace e chi non ti piace?
-a me piace chi nel cuore ha un lago e non un altopiano. Io voglio sentire il rumore dell’acqua nel
petto degli altri. Voglio pensare al sangue di cui i nostri toraci sono gonfi non come a una cosa che
si irradia, a una luce che esercita la sua dittatura su una spoglia tavola di roccia isolata nel cielo
altissimo, ma come a una cosa inquieta, che fa rumore quando si infrange, che è umida come una
lacrima, che accoglie nel suo abbraccio tutte le cose che finiscono col cadervi dentro. E anche se è
un abbraccio mortale, questa sostanza se ne fa carico, accarezza quelle cose e le custodisce per
sempre. Ed è come se dicesse “state tutti tranquilli e tranquille, che non siete andati perduti, non
importa quanto male siano andate le cose per questa volta. Sarà uno scherzo ritornare, quando sarà
giunto il tempo, perché mi sono presa cura di voi”… e, Hi, non importa se ammazzi i pesci
brutalmente, non mi importa che questa cosa mi fa schifo. Io sento la sabbia diluita in fondo al tuo
cuore, che si agita insieme a mille ricordi, a mille desideri, a mille altri laghi in miniatura, che
giacciono in fondo al lago più grande, e…
Il fiume di parole che era sgorgato da quella bocca mutaforma ormai dimentica di ogni idea di
compostezza si bloccò improvvisamente, come ostacolato da una scogliera. Restarono in silenzio
per un po’, fino alla comparsa del primo riflesso bluastro che scintillava in lontananza, incombendo
come un allarme. A quel punto Hi sorrise.
-dai, andiamocene a casa, Ih.
Si alzarono in piedi. Ih lasciò il rombo là sopra, dimenticandosene completamente. Quello si era
ormai rassegnato, senza più forze o disprezzo da dispensare.
-in fondo, non può farti mica così schifo. Ci sono tanti cuori lassù, e ce ne sarà pur qualcuno in cui
tu possa sentire il rumor…
Hi si bloccò di colpo, poi indicò qualcosa con l’ala alzata. Era il pescatore che aveva lasciato una
barca legata a un palo, proprio sotto il promontorio. Si stava allontanando in salita, lontano dal lago
per far ritorno al villaggio, portando delle cassette sottobraccio. Si accorse che lo stavano guardando
e si girò verso di loro. Non c’era niente da fare: pareva sempre che ridessero prendendosi gioco di
tutto. Stavano in piedi, altissimi, con il corpo che pareva venir consumato da una nerezza in
espansione che si sarebbe arrestata solo dopo averli assorbiti completamente. Gli occhi gialli e
spalancati costringevano lo sguardo di chi li guardava. Perché bastava guardarli e la distanza che li
separava sembrava azzerarsi in un lampo, come se una forza maligna si impadronisse
dell’osservatore lanciandolo a dirotto verso quel cerchio/pupilla che vi galleggiava al centro, ancor
più vicino di quanto si potesse arrivare, fin nel profondo dove si generavano gli incubi di quelle
creature da incubo. Un brivido rapidissimo. Il pescatore proseguì per la sua via.
-non ne ho mai visto uno così da vicino.
-neanche io. Strane creature.
-oh sì, davvero. Fortuna che a noi non può importare di meno.
Così dicevano le creature del cielo di una creatura della terra che in pubblico dissimulava
l'indifferenza delle loro reciproche esistenze.
...
Se n’erano andati tutti. C’era solo la luna a far compagnia al rombo rimasto sul promontorio a
ripensare ai suoi momenti migliori. Che storia, quella volta che era riuscito a cantare tutto l'alfabeto
in bolle! Era appena un avannotto, c'erano tutti i parenti: i nonni, i fratelli della mamma che stavano
dall'altro versante del lago, i fratelli di papà, tutti con quella strisciolina di scaglie argentee proprio
come lui... perfino allora avrebbe sperato che se ne sarebbe ricordato in punto di morte, tanto
straordinaria fu la sua performance. E poi, quante ne aveva viste anche dopo! Ne aveva visti, lui, di
pesci che gli assomigliavano in tutto ma che a differenza sua erano stati spappolati da una
picchiata… in fondo però, ora che non gli rimaneva altro da fare, pensava che non fossero
scomparsi del tutto. Sarebbe stato solo lui a scomparire, ma una volta scomparso nessuno si sarebbe
più posto il problema, e andava bene così. “Spero che la mia lisca si imprima su un sasso-fossile-
fijodenamignotta". Poco prima del suo ultimo respiro, ripensò a quello che quel tale “Ihaveva
detto poco prima. Aveva detto chiaro e tondo che sentiva costantemente una musica dentro le
orecchie, un “coro”. Ormai era confermato: quello là era proprio il più svitato della sua razza
svitata.
La Carpa che stava nella vasca custodita nella capanna del pescatore aveva pensato per tutta la
giornata a cose straordinarie. Curiosamente, i suoi escrementi si erano deposti sul fondo e in
maniera del tutto casuale avevano composto un disegno somigliante in ogni sua curva a quella che
poteva essere una rappresentazione dall’alto di tutto il paesaggio circondante il lago. C’era il
villaggio, con il sentiero che si biforcava al limite nord, portando da una parte verso le foreste e
dall’altra sul fondo dei colli, e che al limite ovest scendeva giù verso il lago; c’erano il canyon e i
monti lontani, c’erano pure le caverne sotterranee dove stavano i graffiti che rappresentavano gli
strani animali alati. Peccato che nessuno potesse ammirare quello straordinario risvolto del caso. Il
pescatore si precipitò di corsa in casa, sbattendosi la porta dietro. Spense tutte le candele, ostruì le
finestre come meglio poteva usando delle vecchie casse di legno marcio che giacevano alla rinfusa
sul pavimento umido, si coprì il corpo con la mantellina antipioggia che indossava in barca,
tirandosela sul volto così da nascondere gli occhi, e aprì la cassa piena d’acqua. La Carpa affiorò in
superficie, la bocca pulsante. Il pescatore si inginocchiò, per udire e farsi udire, ma sembrava in
preghiera.
-è vero! Loro vivono davvero sugli altopiani! In un punto oltre il canyon! Ce ne saranno centinaia,
no, migliaia, oddio… devo assolutamente fare una cosa…
Guardava questo o quell'oggetto, guizzava lo sguardo sui vari generi di cose ammassate che
ostruivano la capanna e prese ad ansimare con foga. Se lo ricordava adesso: gli veniva una strana
asma che tuttavia non lo indeboliva, al contrario sembrava infondergli una sorta di foga
incontrollabile in proporzione a quanto difficoltosa si faceva la respirazione. Voleva scattare,
mettere in disordine quella roba, rimetterla in ordine, poi fracassare tutto, raccogliere i pezzi,
ricominciare da capo. Forse negli episodi passati aveva usato qualche rimedio, un'acqua agrumata o
certe preghiere particolari. Ma l'influsso della Carpa non sembrava coinvolgere la memoria.
Stringendo ancor di più la mantellina al suo corpo, riaprì la porta. Così imbacuccato sulla soglia si
voltò a destra, poi a sinistra. Poi scomparve furtivo. Da bravo scemo custode di una Carpa
Intelligente, aveva dimenticato aperte sia la porta della capanna che la cassa dell’acqua. La Carpa,
essendo Intelligente, sommando queste due cose sapeva già che sarebbe morta presto. Sapeva anche
dove sarebbe andata a finire, e, per l’ultima cazzo di volta, questo posto non era un paradiso. Era
solo un posto in cui uno doveva sperare che ci fosse un pod’acqua. Dopo una vita con tutta
quest’acqua, sarebbe un bell’affare doversi adattare a qualcosa di diverso dopo la morte. Per questo
non c’è da sperare che il paradiso sia un altipiano brullo picchiato dal sole, dove fanno la cova degli
umanoidi alati. Tra gli ultimi pensieri della Carpa, ce n’era uno così:
“uff, meno male che non mi ha chiesto che fine ha fatto il ricercatore che veniva dalla città, perché
quello non lo so nemmeno io. Che bello poter morire sereni!