L’ESODO DEGLI GNOMI
Venne stabilito che per quell’urgentissima occasione si usasse la sala principale della casa. Era
quella con il parquet di colore arancio, i suoi spazi grandi che cominciavano ad aprirsi sin dal
corridoio d’ingresso producevano il senso di calore e benessere che i proprietari della casa volevano
si imprimesse subito in qualsiasi visitatore: “sappiate che in questa famiglia si ha un cuore caldo di
premure che arde come un fuoco, che qui si sta più spesso bene che male e se c’è il male abbiamo i
mezzi per superarlo, e sappiate anche –perché non dirvelo?- che possiamo pure permetterci qualche
sfizio.”
Nella sala era incorporata l’essenza stessa di tutto il resto, era la definitiva manifestazione fisica, e
la più fortemente foriera di orgoglio, di ciò che lì si era voluto costruire. Non aveva porte ma due
muretti tagliati a metà, quello che proseguiva dal fianco della porta d’ingresso e un altro speculare
che usciva dalla parete opposta, lambivano come braccia aperte quella vasta e ariosa area la cui
soglia era costituita da una linea di confine immaginaria. E sì, c’erano anche molte cose: due divani
disposti perpendicolarmente l’uno all’altro, ugualmente grandi, comodissimi a vedersi; il televisore
enorme e piatto, circondato dai molti altri elementi del suo campo semantico, nel suo personale
angolo; mobili, appoggiati col dorso a ogni parete, credenze piene forse di bottiglie e posate
pregiate, forse di vecchi album di fotografie; anche un tavolo, proprio dietro uno dei divani, certo. E
nonostante tutta questa ricchezza -sulla quale in fondo non conviene soffermarsi perché di
dimensioni troppo grandi per interessare agli esseri che lì avevano deciso di riunirsi-, nonostante
tale concretezza, la sala appariva comunque spaziosa. Le cose ammassate non la rendevano angusta,
non bloccavano il passaggio ai respiri che vi si libravano e ai raggi che attraversavano le eleganti
tende dell’ampio balcone. E questa spaziosità era ciò che, molto più della funzione della stanza o
della sua capacità di far bella figura, maggiormente impattava i sensi dei più minuti ospiti
dell’edificio, che l’avevano decisa come piazza per il loro comizio. Ma non si trattava soltanto di
questo: era infatti quella la stanza dove anni prima, quando i “ragazzierano ancora pargoli,
venivano posizionati sul pavimento i più importanti balocchi di natale, l’indimenticabile ferrovia
col suo trenino e le molte case di plastica che formavano un paesello, la cucina giocattolo, la pista
delle macchinine, le navi. Quando gli esseri umani erano distratti, quando l’attenzione dei bimbi era
passata a un altro gioco o quando nella fretta la casa veniva abbandonata senza che i giocattoli
venissero rimessi al loro posto, gli gnomi godevano di queste cose. Si facevano un viaggio in treno,
una crociera, un adrenalinico giro in macchina e addirittura si trasferivano per un podi tempo nelle
casette, come in villeggiatura, tutti contenti nel vedersi l’un l’altro sulle soglie vicine intenti ai
giardinetti finti o a riposo sui due tre scalini sotto le porte minuscole. Occorre sapere che alcuni tra
gli gnomi (insieme ad alcuni tra le altre specie di piccole creature lì riunite) erano capaci di far
comparire dal nulla come per magia determinati oggetti con proprietà particolari, oppure di
nasconderli alla vista. Tant’è che capitava spesso a qualcuno in casa di gridare che una certa cosa
era sparita, che non la si trovava da nessuna parte, per poi ritrovarsela lì presente e palese proprio
nel primo luogo dove s’era controllato; a volte a quel punto c’era anche qualcuno che,
inconsapevole veicolo di verità, diceva fosse opera di piccoli ometti usi a portarsi via le cose, senza
intento malevolo, “dispettosi”. Ora, è anche possibile che ce ne fosse qualcuno di veramente
dispettoso tra loro, ma in linea di massima questo comportamento rifletteva soltanto una tendenza
naturale, il rapporto tra la gente piccola e gli umani era di normale convivenza: i primi non si
curavano dei secondi se non per quegli sporadici discorsi di interesse comune, prettamente
sull’ambiente tacitamente condiviso; i secondi dei primi addirittura ignoravano l’esistenza,
riconoscendola soltanto in fugaci momenti dalla memoria breve, come l’allarmato udirsi notturno
delle lamentele d’una bottiglia o d’un legno che nessuno aveva provocato, o il passaggio fuggevole
di una piccola ombra tra un mobiletto e l’altro. Anche le riunioni, che potevano presentarsi con una
cadenza annuale o non verificarsi proprio, rara com’era la necessità di consultarsi su emergenti
problematiche, avvenivano in momenti separati dalle esistenze degli abitanti più grandi, così da non
disturbare e non essere disturbati. La sala era non solo spaziosa, bella, ideale per l’incontro, ma
appunto i ricordi legati a essa rendevano più facile la materializzazione di certi oggetti che,
purtroppo, potevano servire (a gnomi o folletti bastava una nitida immagine nella mente per portar
fuori quell’oggetto. Non si creda però che un simile potere sia tanto straordinario: nelle loro vite
esistono altrettante magagne e problematiche che in quelle degli umani incapaci di far comparire gli
oggetti; e tanto per cominciare, saper materializzare un arnese non equivale a saperlo far funzionare
per bene: uno gnomo può far comparire un barattolo di sottaceti, ma aprirlo è sempre una rogna).
L’atmosfera era tesa, concitata, di una preoccupazione cui non si voleva accennare in maniera
esplicita ma che traspariva sommandosi nella moltitudine dei presenti, dai quali si levava come un
incorporeo ma palpabile alone di vago allarme. Era passata la voce dagli “organizzatori”, quando
ancora si stavano informando tutti della riunione, che potesse esserci la necessità di riportare fuori
proprio la ferrovia col treno, le macchine, le navi, perfino l’aeroplano radiocomandato e l’elicottero
della polizia. Gli veniva in mente tutt’a un tratto di fare una vacanza come ai vecchi tempi, o forse
una festa con quei divertimenti d’una volta, così a caso? No, c’era qualcosa sotto, erano stati
menzionati solo i mezzi di trasporto. Che ci fosse da fare un qualche spostamento? Già
cominciavano i più ansiosi a piangere addirittura il “trasloco”, a dire addio alle proprie cose, mentre
quelli sempre scettici rispondevano che non c’era nessun motivo di credere una cosa del genere e
che se qualcuno avesse avanzato una simile proposta era il caso di farlo ragionare. Certo era che
non fosse una cosa da niente, dal momento che proprio all’inizio di Marzo c’era già stata la riunione
annuale e che mai in tutta la storia ne era stata indetta un’altra a così breve distanza dall’ultima.
Comunque, in “piazza”, stavano tutti aspettando di ascoltare, sperando non proprio in una smentita
ma almeno che non fosse grave quanto sembrava, e intanto cercavano come detto di non dar tanto
fiato e peso alla collettiva agitazione. C’era da aver pazienza, tutto qua. Dunque, le presenze erano
molte e variegate: la comunità degli gnomi al completo, non la più vasta ma certo la più vivace ed
evidente; diversi dei vispi folletti e ancora quelli di quell’altra specie più “crepuscolare”, le
unghiute creaturine del buio che si arrampicano nei condotti d’aerazione e strisciano in angoli stretti
tra letti e pareti; i tre spiritelli familiares, rispettatissimi: sono questi dei numi normalmente
invisibili di cui nessuno conosce la composizione (alcuni ritengono, con scarso sostegno, che si
tratti di certe “emozioniche può capitare si addensino nell’aria fino a dar vita ad allegorie). A volte
però, se ci sono le condizioni particolari, prendono possesso della forma di un qualche oggetto
predisposto a fare da amuleto, abitandolo di lì in avanti come fosse un corpo. In casa Roggeri erano
una bambola di finta porcellana, in verità il “torsodi una vecchia abat-jour, appartenuta alla
bisnonna e tramandata attraverso le generazioni, poi un affezionato soprammobile di legno
somigliante a un soldatino esile e spilungone, e infine un portachiavi di plastica a forma di
coccinella, un tempo pendente dallo zaino rosa della figlia più piccola. E ancora, erano presenti
qualche tarma, dieci mosche, una nera farfallina notturna rimasta intrappolata in casa, tutta stordita
con due occhiaie tremende. Pochi rappresentanti delle sconfinate comunità dei ragni e vermetti della
polvere, costrette in quella casa così linda e integerrima a vita pressoché reclusa (ma non per questo
indifferente). Poi i topolini che a notte fonda attraversavano il cortile esterno, e perfino due ratti
molto cauti che sempre cancellavano ogni traccia del loro passaggio nelle cantine. Insomma, gente
di ogni tipo aveva risposto alla chiamata a raccolta, con gesti e dialetti diversi confabulavano di
variegate faccenduole in attesa che i rappresentanti dell’assemblea si decidessero a prender parola.
Chiazze di luce cadevano calde su spicchi di folla e il pulviscolo pomeridiano calava lento e
soporifero, respinto da certi dei più piccoli con insignificanti pezzetti di carta usati a modi
ombrello.
-mamma, ma quanto dobbiamo stare ancora qui in piedi?-, chiedeva uno gnomino tirando con
insistenza la manica di un giacchetto.
-se non vuoi stare fermo, puoi andare a giocare con gli altri, purché ti possa vedere da qui.
-ma non conosco nessuno di quelli…
-vorrà dire che farai amicizia, altrimenti aspetti buono buono.
Un pofuori dalla folla c’erano molti dei piccoli che scorrazzavano avanti e indietro, facendo
acchiapparella e altri giochi, tutti insieme tra omuncoli, topi nudi nella grinzosa pelle arrossata e
larve di varie specie, più o meno viscide e bizzarre. Ogni tanto l’inquietudine generale trovava una
momentanea valvola di sfogo nelle brevi lamentele sul conto dell’assemblea che tardava a
cominciare, “ma insomma questi vogliono farci perder tempo”, e altre frasi lanciate così a dar
consistenza a una certa solidarietà che investiva tutti, insetti e mammiferi, concetti astratti e mani
svelte. Ma ecco che compariva Monica e con un mucchio di sue scartoffie già si avviava a prender
posto al banco, una specie di tozzo piano d’appoggio costituito da due tappi di sughero, sgraffignati
da sotto i mobili in compleanni lontani, e cuciti insieme l’uno sopra l’altro per essere utilizzati in
queste occasioni, come un altare solenne da cui alzare la voce e farsi ascoltare da tutti. Monica era
una gnoma di modi sobri, molto precisa e organizzata, che spesso aiutava durante le riunioni o in
generale quando c’era bisogno per una qualche situazione delle sue capacità logiche. Al principio
della giovinezza era ritenuta un poeccentrica a causa delle sue abitudini che un posembravano
imitare i comportamenti umani (difatti ancora vestiva come un’umana, dalle scarpe coi tacchi alla
corta gonna rettangolare e la spigolosa giacca da impiegata, entrambe blu); ma l’impeccabilità del
suo problem solving, e il fatto che si rivolgesse a quelli con cui aveva a che fare sempre in modo da
metterli a proprio agio, erano stati sufficienti a renderla ben accetta, anzi secondo alcuni proprio
l’aver imparato -anche inconsciamente- dagli umani poteva esser stato determinante nel
perfezionamento della sua acuta attenzione a certi dettagli d’ordine razionale, sfuggenti agli altri
gnomi. A vederla armeggiare con le sue carte (in realtà pezzi di bucce e foglie varie), già in diversi
avevano preso a dare sospiri di ripagata attesa, “oh, ecco, finalmente, era ora”, abituati com’erano
ad associare quei suoi movimenti macchinali, intagliati alla perfezione, con l’idea di essere arrivati
al punto, nessun tempo per chiacchiere inutili. Da dietro i larghi occhiali, gli occhi ocra
rimbalzavano dritti e a velocità costante tra sinistra e destra, senza lasciarsi sfuggire una sola parola
incisa con punta di stuzzicadenti sulla parte bianca della buccia di un mandarino, nell’alfabeto
inventato dagli gnomi di casa Roggeri. Intanto il Bonella, poco più indietro, discuteva
animatamente con pochi informati dei fatti, senza farsi sentire dagli astanti. C’erano due gnomi
corpulenti e tetri che annuivano chiudendo gli occhi, come ascoltassero carichi d’accettazione
moniti di profonda intensità drammatica, e accanto, più partecipe, uno smilzo folletto di pelle viola
chiaro, con aria di professore, gesticolava insieme al Bonella di tanto in tanto tormentandosi
l’appuntito pizzetto rufo. Pareva la sapessero lunga, seri com’erano tra le questioni di quel piccolo
consiglio appena formato, poco visti sotto l’ombra di un basso comodino pieno di dischi e
telecomandi. Il Bonella a intervalli chiamava Monica, che si girava, e le indicava di avvicinarsi quel
tanto che bastava perché udisse cosa aveva da dire, senza che arrivasse a tutti gli altri. Poi Monica
tornava al pulpito e come nulla fosse riprendeva a leggere, e quegli altri dietro di nuovo a
borbottare, tra picchi e gole di concitazione. Era chiaro che il Bonella, come suo solito, non
retrocedeva dall’intento di fare anche in quell’occasione un po’ “il capo”, una sorta di sindaco
momentaneo per quella multiculturale comunità normalmente priva di una guida univoca. Non c’era
uno che potesse rappresentare tutti gli esseri compresi tra gli ordini del millimetro e dei trenta
centimetri, ma il Bonella sapeva che quantomeno gli si potesse riconoscere una certa capacità di
farsi ascoltare, e di parlare soltanto di cose molto serie e importanti; sicché nessuno in fondo se ne
lamentava, e del resto non c’era da temere che dietro quegli atteggiamenti si celassero manie di
grandezza poiché soltanto a un pazzo sarebbe venuto in mente di mettersi sul serio a fare da
presidente(il Bonella era tante cose, ma certo non matto). All’improvviso Monica cominciò a
chiamare dei nomi ad alta voce, faceva l’appello. Questo aveva generato grossa perplessità, e già al
primo nome Monica dovette ripetersi più volte, alzando sempre più la voce, tra occhiate e mormorii
confusi, prima che un topo capisse e alzasse la zampa. Non si era mai fatto l’appello, in nessuna
riunione, e non aveva nessun senso cominciare adesso. A meno che, per qualche motivo, non fosse
strettamente necessario… piano piano, senza fare troppo rumore al di fuori di un incombente
ronzio, il panico aveva iniziato a sbloccarsi lungo le file della folla, era l’eco di un turbolento
ruscello sepolto dai sassi. Perfino Monica, se la si osservava con attenzione, risultava leggermente
imbarazzata dal suo compito, per la prima volta: un impercettibile rossore in fronte, la mano che
nervosamente dava colpetti periodici alle ciocche castane che le ricadevano sulle spalle. E ancora il
dito le si impigliava e faceva un ricciolo, vorticando compulsivamente le punte bionde dei suoi
ondulati capelli, simili a certi stili a volte visti sfoggiare dalla signora Roggeri, con il colore che
passa da scuro a chiaro scendendo; mai tale livrea era stata tanto manipolata da crescente
insicurezza. i tre spiritelli familiares si cercavano l’un l’altro, scambiandosi sguardi carichi di
implicazioni ignote. Le loro facce plastiche, le palpebre semiaperte sempre bloccate così sugli occhi
vacui dell’abat-jour, le pupille di spilli neri sulla pelle di legno giallastro del soldatino,
accentuavano con forza l’impressione che si comunicassero intenzionalmente un silenzio gravato da
presagi temibili. Le mosche facevano quella loro cosa strana in cui si sfregavano le zampe anteriori
in movimenti ondulatori, parevano un coro vestito di nero che disponesse i preparativi prima di
attaccare con canti d’apocalisse.
-ecco che ricominciano a fare in quella manieraoh, ascolta, è più forte di me: non posso soffrirle
quando fanno così. Mette i brividi…-, disse uno gnomo rauco a un altro, sospingendolo a farsi più
in là rispetto alle mosche, come temesse di ricevere sugli abiti i resti di una sporcizia sgretolata
come forfora da quel rimescolio di zampe. E insomma, tra lievi squittii e fischi di diverse frequenze,
non serve stare a spiegare oltre che se si era sperato di essere tranquillizzati, adesso c’era solo da
aspettarsi che di lì in poi le notizie peggiorassero. Ma ecco il Bonella che da sotto l’ombra del
balconcino si faceva avanti, dopo aver congedato i suoi interlocutori apparentemente scomparsi nel
buio, e camminando pensoso ammoniva con sguardo severo il pavimento su cui avanzavano i suoi
passi ritmati. Pronunciava l’esordio del suo discorso camminando avanti e indietro per un breve
tratto di fronte alla prima fila di presenti, rivolto ora alla terra ora all’aria, gesticolando a indicare
direzioni generiche, sempre attento a fare delle pause per permettere a Monica di continuare a
chiamare nomi. Abbini, Alberigi, Albini, Astorocchi, Atterra, Aqquadifosso, famiglia Barré… A un
certo punto un grigio ragnetto peloso, dall’aria piuttosto scocciata, uscì dalla folla incontro a
Monica a farle presente che per quanto riguardava i ragni si faceva prima a dire chi ci fosse e che a
passare in rassegna tutti i nomi si sarebbe fatta notte. Subito dopo lo imitò un vermetto della
polvere, curvo sotto il suo ombrello di carta, e insieme a Monica guardarono sulla buccia di
mandarino mentre lei si limitava a mettere delle spunte di fianco ai nomi che le sussurravano. Dopo
questa interruzione, al Bonella parve il caso di accelerare un poi tempi, più spavaldamente diretto
al dunque per quanto complicato, come un predatore invecchiato che si decide a balzare nonostante
il timore di fratturarsi qualche osso.
-e allora, gente, quello di cui avevate sentito parlare nei giorni passati corrispondeva a verità.
Abbiamo convenuto-, diceva riferendosi a una non meglio precisata cerchia di decisori, forse
comprendente gli stessi gnomi e il folletto di prima –che la sala facesse al caso nostro, come spesso
accade, ma non tanto per i soliti motivi. Ebbene sì, servirà fare una materializzazione di quei vecchi
marchingegni che una volta vedevamo proprio qui, quelli delle gite di lusso e dei passatempi
domenicali. Capisco che ne sia passato di tempo, certo, ma contavo sull’aiuto di alcuni di voi pratici
di faccende d’ingegno e tecnica per ricreare nel dettaglio il ricordo di quei macchinari; alludo per
esempio a voi, Scovenzani, Marchetta, Frolla e compagnia; e, dicevo, con le vostre conoscenze, non
dovrebbe essere particolarmente…
-mi scusi, Bonella-, interruppe una voce nasale da papero, da una delle prime file, avente una certa
punta ardimentosa inaspettata nel rivolgersi al Bonella –sono io, Verrante, qui. Scusi se mi
permetto, ma nel concreto, di che si sta parlando? Il treno, l’aereo? Non si sarà mica fatta una
riunione, appena un mese e mezzo dall’ultima, per decidere di farci tutti insieme la villeggiatura?
-Cerasi, Crocetta, Cumulo…-, continuava intanto Monica. Verrante era uno gnomo alto che soleva
indossare una specie di copricapo marrone scuro, simile a una bombetta. Il Bonella gli scrutò
l’animo dalla distanza: la barba argentea rada e acuminata sul viso gli dava l’aria, ogni volta che si
metteva in testa di dire la sua (non era infatti chissà che novità), di essersi fatto strada tra la folla a
colpi di pelacci fendenti apposta per farsi sentire. Il Bonella trattenne a stento un’alzata di spalle, e
con pazienza si dispose in modo da rispondere alla cascata di domande che sarebbero zampillate di
lì in poi. Giusto, non si aspettava che cominciassero ad aver da ridire così presto, praticamente
subito. Di sottecchi raccolse un podi comprensione da Monica, sommessamente si incitarono a non
mostrarsi per nessuna ragione, in nessun momento dell’assemblea, scoraggiati o stanchi.
-ah, Verrante. No, beh, penso sappiate tutti che non si tratta di questo. E mi auguro che, col tempo
che stringe, vogliate confidare nella nostra serietà quando chiediamo partecipazione in questi eventi,
sempre che abbiate l’intenzione di collaborare e non fare domande inutili. Se fosse serio,
significherebbe che ci crede tanto frivoli da indire un’assemblea e scocciare tutti quanti per un
motivo futile, non trova? Perciò la intenderò come una domanda retorica, già, dev’essere per forza
così.
Aveva preso un certo tono insinuante minaccia, ma non perché fosse nervoso. Era la verve che non
bada a eccessive gentilezze tipica del Bonella, la sfoderava con naturalezza senza che fosse in
risposta a un particolare stimolo, doveva solo emergere prima o poi. E quando succedeva, a un po
tutti tornava la voglia di starsene composti in riga. Certo Verrante non si era pentito di aver fatto la
sua domanda, ma un pointimidito ci era, con quel piccolo groppo in gola che sempre sovveniva nel
sentirsi rispondere pubblicamente dal Bonella, forse inconsapevole del livello d’asprezza nel suo
fugace sguardo. L’eloquente gnomo, avviato verso l’anzianità ma ancora autoritario in qualche
modo, possedeva l’austerità di un falco nel taglio incattivito degli occhi smeraldini e nel modo in
cui sul capo ricadevano le ciocche di capelli grigi, spesso spettinate eppure a proprio modo
“composte”. Il suo aspetto aveva inoltre qualcosa che lo faceva assomigliare a uno gnomo più
“primitivo”, il profilo frastagliato delle orecchie appuntite e i numerosi dentelli aguzzi che
spiccavano quasi luccicanti a ogni apertura di bocca vagheggiavano il tempo lontano in cui la razza
degli gnomi non aveva ancora mescolato il proprio sangue alle altre. Lontano, dunque, dagli gnomi
urbani. Si stava riprendendo, i passetti erano più trepidanti perché si sentiva in grado di rispondere a
tutto, o forse un certo nervosismo nascosto esitava a lasciarlo?
-è anche vero- continuò guardandosi nuovamente l’agitarsi dei piedi, una strana nota amara nel tono
–che in qualche modo, sempre “villeggiaturapotremmo chiamarla… ma non del tipo che vi
aspettate voi, temo. In sostanza, si tratta di salire su quei mezzi e andarcene. Partire.
Ci fu lo stesso chiacchiericcio di prima, con i timori ronzanti ancora restii a tramutarsi in grida. Si
prospettava che andasse per le lunghe in questa maniera, un continuo battibecco tra ciò che già
sapevano tutti e la volontà di rifiutarlo.
-ecche è, na migrazione??
-ecche, ce ne andiamo da casa Roggeri dopo tanti anni?
-e che è successo, si deve traslocare adesso?
-beh, forse, sì, la si può mettere in questi termini.-, tentò di rispondere il Bonella alle varie voci che
avevano chiesto -signori! Non nego che la situazione è drammatica. Forse c’è stato anche troppo
poco preavviso, ma ringraziamo il cielo che il tempo abbia voluto disporci di questo spazio per
indire la nostra assemblea, forse è poco ma, per dio, sarà abbastanza. Ora siete allertati e, con un po
di lavoro e la collaborazione di tutti, riusciremo a lasciarci alle spalle questa brutta situazione senza
più voltarci indietro.
I due ratti, creature astute e adattabili, si guardarono per poi voltarsi e andar via senza dire neanche
“con permesso”, le code verminose che oscillavano sul pavimento facendo ciao ciao. Per loro casa
Roggeri poteva pure sprofondarsene in una voragine improvvisamente aperta in terra, non
avrebbero certo tardato a trovarsi un’altra tana di umani in tutto identica, almeno quanto alle loro
esigenze, o meglio un tombino. Dello stesso parere dovevano essere anche i topi, ma essendo un po
fessacchiotti campagnoli, più confusi e titubanti sul da farsi indugiarono ancora in salotto. Per molti
degli altri, invece, si trattava di un vero e proprio dilemma. Un’intera comunità di gnomi, dove si
sarebbe potuta stabilire una volta perduto tutto il mondo costruito addietro? Per non parlare dei tre
spiritelli, abituati a rapportarsi a una sola casa o una sola linea di sanguele creature-folletto del
buio soffiavano terrorizzate nel loro macabro linguaggio. Si capisce come mai l’idea di migrare
creasse tanto scandalo, accentuato peraltro dall’assurda proposta che vi era alla base, di partire
servendosi di un qualche giocattolo dei bambini, ridicola.
-e se ce ne dobbiamo andare, perché non a piedi?
-giusto, giusto!-, ribattevano tra l’ironia e il fervore conformista quelli vicini al ragionevole
Mastrociuffi, le cui opinioni risultavano sempre puntuali e chirurgiche.
-Zuccaforte!-, concludeva a quel punto l’appello Monica.
-quaggiù!- rispose Zuccaforte, una gnoma robusta dalle braccia a mattarello –e ci avrei anch’io da
ridire qualcosa. Noi qui sempre a casa Ruggeri abbiamo sgobbato da mattina a sera, e adesso ci
volete mettere a sgobbare per far uscire un trenino e due macchinette, e non sappiamo neanche
perché. E meno male che non volete comandarci, altrimenti lo sa il diavolo che pretese avreste
avuto!
“brava, brava!”, applaudiva qualcuno. Il Bonella si accarezzava i folti baffi per non dover alzare gli
occhi al cielo, stufo dell’andazzo tipico della turba. Erano agitati, e perciò volubili: a nulla era
servito che Verrante si zittisse per il cipiglio del Bonella, era stato sufficiente un nuovo motivo di
indignazione per ringalluzzirli tutti quanti. Il Bonella e i suoi da parte loro speravano che la cosa
non dovesse proseguire per forza a ping-pong tra risposte dure e nuove proteste, che il tempo
stringeva e c’erano dei motivi per cui si era deciso di prendere certe misure. Occorreva starglielo a
spiegare, purtroppo. Monica, non sapendo come altro rendersi utile al collaboratore, un po
impacciatamente si limitava a spostare una sua espressione che voleva sembrare decisa, “va tutto
bene”, lungo i volti conosciuti della folla, che sperava si rassicurassero a vedersi rivolgere così da
una faccia che avevano imparato a conoscere come onesta e amichevole, sempre la stessa
nonostante la crisi. Il Bonella si ricordò del perché, subito dopo aver preso coscienza
dell’incombente catastrofe, avesse chiesto come prima cosa di andare a chiamare proprio lei. Era un
dibattitore, la sua mente era svelta: c’era sempre da fidarsi d’un suo primo impulso. Parlò sciolto
come gli veniva.
-è importante che, in accordo alle misure che più conviene prendere nel corso dell’evacuazione, e
tenendo conto di certe problematiche che impongono determinati comportamenti, noi tutti si faccia
uno sforzo per non disperderci nel caos. Non dobbiamo far sì che la numerosità della nostra
comunità diventi motivo di panico e disorganizzazione. Al contrario, dobbiamo riuscire a
concludere l’esodo in modo impeccabile, tutti presenti. E l’unica maniera per fare questo è di
distribuirci tra i mezzi di trasporto che, spero, potranno essere a disposizione di tutti entro questa
sera.
Come drogato d’improvvisazione, il Bonella riprendeva spavalderia parlando col tono di un
documento ufficiale dotato di gambe, mai ferme. Tutt’intorno tornavano a levarsi i mormorii, “come
sarebbe, questa sera?”, “esodo, ma fa sul serio?”, poi tentativi di sarcasmo e domande di figli
momentaneamente distolti dai propri passatempi che si sentivano dire dai genitori di ritornare a
giocare. Circolavano tra la folla i due gnomi e il folletto viola di prima, riapparsi dal nulla,
portandosi dietro gente come Scovenzani, Frolla eccetera per trarseli un poda parte e parlare di
cose pratiche, come progettisti di cantiere, intanto che il Bonella e anche Monica, poverina,
cercavano di tenere a bada la parte dell’umore collettivo.
-e magari in nome di questa organizzazione che tanto vantate, mettete noi folletti in un vagone
separato da quello degli gnomi, che non possono stare accoppiati con le tarme, e così via, no?
-già, ben detto, e il prossimo passo chissà qual è!-, si rispondeva tra risa al tipico umorismo dei
folletti, dalle implicazioni satiriche. Se non gli si spiegava loro qualcosa, rifletteva il Bonella,
poteva addirittura nascergli il sospetto infondato che in tutto quel decidere lui e gli altri volessero
costituire un’oligarchia... ma cosa mai era possibile spiegare, come si sarebbe dovuta edulcorare
una verità che non poteva neanche essere pronunciata, neanche compresa fino in fondo?
-macchè, tutto questo è solo perché qualcuno vuole farsi una partita a carte mentre scappiamo, così
non ci si annoia!-, continuavano a scherzare.
-signori, vi prego, questo non è un gioco.-, tentava il Bonella rimproverandosi di aver fatto uscire
quella frase sempre uguale che, proprio in opposizione a quanto affermava, sembrava esattamente
un gioco.
-ora i nostri che più si intendono di macchinari si stanno adoperando per eseguire una
materializzazione più perfetta possibile e poi memorizzarla prima che i Roggeri tornino. Dopodiché
ci organizzeremo in modo tale da esser tutti pronti per questa sera, quando si saranno tutti
addormentati, così da rieseguirla e partire immediatamente. A tal proposito, è estremamente urgente
che si facciano avanti quelli tra di voi che ai vecchi tempi si dilettarono del mestiere di conducenti,
durante le nostre gite. Anche in più d’uno, dovremmo riuscire a “metter suun macchinista decente,
un pilota d’aereo e...
-ma perché? Perché questa urgenza di partire?
-stasera mentre dormono?? E dobbiamo avere tutta la roba nostra impacchettata senza neanche
sapere che è successo?
-a me mi sembra che si sta tanto bene qua!
-che, per caso viene il terremoto??
-servirà preparare dei panini per tutti!
Ormai la questione centrale doveva essere come minimo accennata, cripticamente, quel tanto che
bastava da far trapelare almeno l’ombra orrorifica della realtà terribile, con il suo oscuro potere.
Bisognava spaventarli: era brutto da fare, ma s’era palesata l’urgenza di maniere forti. Si ostinavano
a non capire, tutte le specie, i folletti tentavano di mettere in discussione il tutto dubitando del fatto
che fosse un interesse comune e non esclusivo degli gnomi. Le creaturine unghiute del buio se la
svignarono, giacché dall’inizio si erano trattenute con sforzo dal bruciare alla luce del sole e adesso
il panico di doversene uscire per sempre dagli amati cunicoli le aveva private di ogni freno
inibitore, erano schizzate via in tutte le direzioni per tuffarsi dritte anche nella più piccola ombra,
per poi rannicchiarvisi e mandare territoriali sibili serpenteschi a chiunque si avvicinasse tentando
due chiacchiere. Qualche piccolo gnomo aveva iniziato a fare i capricci perché gli adulti dai modi
troppo eccessivi alzavano la voce, e nel baccano le dieci mosche si guardarono ciascuna con tutti e
mille gli occhi, con una faccia scema, come a dire: ”ma che stiamo a fare ancora qua?”, così
volarono via e si dispersero per l’aria, ognuna nella sua direzione. “Facile per loro, che tempo due
giorni crepano tutte e addio preoccupazioni!”, rosicava qualcuno. Diverso era per le tarme, più
sedentarie, sollazzate inquiline della vecchia credenza in pruno abbandonata in soffitta. La farfallina
nera batteva freneticamente ali e occhi, cercando di destarsi, sembrava non avesse capito bene,
confusa tra immagini residue di sogno che sembravano raccontare un temporale, un diluvio
universale… e il Bonella, ora circondato da gente che sparava domande e obiezioni, alzava il collo a
cercare Monica. La vide aldilà d’un mucchio agitato di chiome e berretti, discuteva di nuovo con lo
stesso ragno e lo stesso vermetto di prima, probabilmente preoccupandosi di come fare a estendere
l’informazione a tutti i loro simili e, soprattutto, di come si era pensato di trasportarli, visto che tutti
insieme arrivavano a pesare forse una tonnellata. Incredibile, c’erano davvero così tanti ragni in una
casa come quella dei Roggeri? Roba che se trovavano un pezzo di ragnatela, con tutto quello che
spendevano in colf e prodotti, si mettevano a gridare. Invece quelli riuscivano a vivere,
clandestinamente, forti dei loro metodi segretissimi. Magari, avere adesso la loro capacità di
adattarsi, adesso che tutti cingevano il tormentato Bonella, rendendogli difficile farsi strada. “E
dove andremo, caro Bonella, dove andremo?”, lo aveva afferrato la povera vedova Ravalli
lamentandosi col suo lugubre tubare da quaglia decrepita. Lui le aveva afferrato la mano
accartocciata, se l’era portata al petto e in slancio attoriale le aveva detto: “andrà tutto bene, si fidi
di me!”, tutto melodrammatico ma risoluto nel dolore, quasi mostrando disarmanti lacrime finte ai
margini degli occhi da rapace. Poi era guizzato via in mezzo alla folla strusciandosi sulla giubba il
sudore della vecchia appiccicaticcio al palmo, fiero e allo stesso tempo disgustato dal suo trucco di
prestigiatore, “cosa non si fa per far star buoni i vecchi!”, mormorava. Se fosse riuscito a
raggiungere Monica, credeva, sarebbero bastati pochi cenni silenti per intendersi e insieme adottare
un nuovo atteggiamento che potesse riportare l’ordine tra quegli animi privati di solide fondamenta.
Solo lei poteva aiutarlo in questa operazione, lei che si era rifiutata di visionare la catastrofe per
come era stata mostrata dalle pratiche oracolari nel profondo della notte. Con estremo raziocinio
aveva convenuto che, sedando la curiosità, sarebbe stata più utile alla causa, così da non esporre la
sua naturale dovizia al rischio di essere sabotata da incursioni mentali di immagini troppo
impressionanti; dunque aveva affermato che le era sufficiente fidarsi del pallore espanso sulla
carnagione di “coloro che avevano veduto”, avrebbe eseguito senza sapere nemmeno, uguale a tutti
gli altri. Ed era proprio questa uguaglianza, il mantenimento della sua integrità di gnoma sempre
uguale a se stessa, non comunicato ma inconsapevolmente percepito dalla gente, a fare da
fondamentale contraltare alle caratteristiche meno amicali del Bonella che si era affidato, con
conseguente approvazione dei pochi altri, il compito di coordinazione generale dellesodo. Lui era
un dialettico, gesticolava, modulava la voce, metteva a tacere, certo una persona rispettabile e un
vero piacere a vedersi durante i pubblici dibattiti, come un grande attore o intrattenitore, ma quando
fosse giunta la paura, si sarebbero mai fidati d’un tipo del genere? O forse erano la stessa capacità
di discutere, le stesse doti attoriali e di leadership che lo rendevano stimato negli altri campi, a
dargli una parvenza sinistra di inaffidabilità e inganno nel momento di crisi? L’ombra d’un
predatore del cielo, traballante nei contorni della sua figura, incuteva rispetto, sì, che tuttavia si
sarebbe mutato al primo sentore d’allarmismo in un irrimediabile senso di imboscata, oltre che di
superbia e convinzione di volare ben sopra le teste di tutti quanti. Ecco perché era indispensabile
unire i suoi sforzi a quelli di Monica, con i suoi sorrisi a labbra strette, la sua serietà utilissima senza
essere eccessiva al punto di farle dimenticare l’affabilità. In più non le era penetrata nel sangue
quella robaccia nera, che lui e gli altri continuavano a sentirsi scorrere dentro senza soluzione da
quando avevano visto, invasivo liquame che scivolando ingloba tutto... magari la gente sentiva
queste cose, fiutava i più piccoli cambiamenti nei personaggi che si esponevano al loro giudizio.
Era forse questa la politica? Cominciava a esistere, malgrado tutto, anche nella comunità dei
minuscoli.
Fortunatamente qualcosa aveva incanalato altrove l’attenzione di una discreta fetta di folla, e
attirava sempre più curiosi che a turno si accalcavano intorno a sbirciare. Al centro del gruppetto
degli esperti di tecnica, si era riuscito a far spuntar fuori un pezzo di locomotiva. Adiacentemente
alla calca avevano costituito un piccolo nucleo lontano dall’animosità generale, concentrati
com’erano da quando gli era stato detto che c’era bisogno di quelle competenze. Avevano l’aria di
un professionale comitato di supervisione dei macchinari, la cui massima priorità era quella appunto
di verificare funzionamenti e meccanismi. Il panico non li aveva ancora raggiunti e avrebbe potuto
farlo solo a lavoro concluso, verificato secondo tutte le prove e controprove che quanto si chiedeva
fosse in effetti fattibile. Anche quando un eccitato “oooooohhhsi levò dalla prima massa che aveva
notato la comparsa di quel modello tentativo di locomotiva, ancora tagliato metà e privo di molti
dettagli, loro avevano semplicemente continuato ad annuire e fare annotazioni, le mani ad
accarezzarsi i menti. Certo quell’oggetto nostalgico aveva fatto passare momentaneamente in
secondo piano il motivo funesto per il quale s’era reso necessario, e una certa eccitazione si era
diffusa tra gli osservatori che già fantasticavano di provarne l’ebbrezza dopo tanti anni. Monica e il
Bonella ne approfittarono per rimettersi un poa posto come auspicavano, stabilire l’assetto dei
prossimi passaggi.
-è la fine del mondo, non è vero?
-non c’è nessuna fine del mondo. Nulla sta finendo.-, rassicurava Monica con tono fermo, da
esercitazione antincendio –dobbiamo solo star certi che, mantenendo l’ordine e la calma, riusciremo
a superare tutto. Siete tutti spaventati, ma sono sicura che non sarà difficile.
-oh, Monica, benedetta ragazza!
“già, meno male che ci sei tu, ora mi tocca il lavoro sporco...”
Il Bonella si avviava a spiegare senza spiegare.
-gente! Descrivervi cosa sta succedendo, ahimè, non è possibile. Si tratta di qualcosa di cui solo in
pochi, e sfortunati aggiungo, abbiamo avuto modo di accorgerci. Quello che chiediamo è massima
fiducia nella gravità del problema!
-e certo, vero?! Che vi costa dirci cos’è?-, protestavano.
-saperlo non vi aiuterebbe, e non agevolerebbe in nessun modo le operazioni.-, disse Monica, quelli
facevano “mmmhhh…” come a significare che se gliela si metteva a quel modo potevano anche
cominciare a valutare la cosa.
-vi possiamo dire poco-, continuava il Bonella senza guardare nessuno, preso dal suo deambulare e
dalle curve dei suoi baffi –ma sappiate che, beh.. alcuni, diciamo, tra i vostri stimati concittadini, e
non mi riferisco solo alla mia stirpe degli gnomi ma anche ad altri tra i popoli qui presenti, insomma
abbiamo dei modi per assicurarci che vada tutto bene, monitorare insomma, e...
C’era forse un lieve imbarazzo nell’esposizione solitamente impeccabile del Bonella? Chi ascoltava
si sentiva confuso, sospettoso come non mai. C’era chi si infilava di fretta come un ladro in fuga per
un boulevard affollato tra i fianchi delle persone ferme in piedi, mormorando “permesso, scusate,
mi sento poco bene...”, anche quella gnoma spiritata e gobbuta della Penelope Sarti, timorosa che
quello scemo del Bonella stesse per vuotare tutto il sacco. Tanto era sempre lei a beccarsi i sospetti
quando succedeva qualcosa, e tutto perché a nessuno piaceva il colorito verdognolo delle sue
occhiaie. Non ci avrebbero messo niente a capire che lei aveva grossa parte nella preparazione degli
intrugli consumati nel corso degli incontri notturni, e anzi già andandosene si era sentita con chiara
pesantezza sulla nuca qualche occhiataccia rivolta ai suoi sporadici capelli bianchi, costanti oggetto
di altrui disprezzo per esser spuntati troppo presto in rapporto all’età ancora giovane. Forse quella
degli gnomi non era una comunità con piena coscienza di essere tale al di fuori delle poche
assemblee; eppure in qualche modo questo non doveva pregiudicarne le funzioni poiché a velocità
notevole si diffondevano i pregiudizi, con solidità si formavano le opinioni su quanto fosse da
considerarsi morale o al contrario immorale.
-ora non statevi a chiedere come facciamo noi a esser certi di come vanno le cose, insomma, non è
così importante e in più vi assicuro che è un discorso noioso, dobbiamo andare al dunque...- il
Bonella agitava orizzontalmente i palmi aperti (il rapace sembrava ora vagamente spennato,
perdeva un podi quota…), con Monica accanto che tentava di rabbonire i questionanti con continui
sorrisi, stavolta addirittura a denti scoperti, e altri cenni d’assenso. Penelope Sarti lo malediceva tra
sé, ormai rincantucciata lontana dalla sala, in un corridoio senza finestre, coi suoi sortilegi incitava
funghi e muffe delle pareti umide a mandargli contro qualche spora dispettosa. Ce n’era là, di gente
che non sarebbe stata per niente contenta di sapere che c’era una certa “élitedi gnomi (e non solo)
che si divertiva a fare come gli antenati dei boschi, quelli che nella notte antica si incontravano per
danzare sotto i cappelli di ammanite bioluminescenti, a godere le meraviglie di strani pollini e linfe
prodotti dalle piante più segrete delle foreste. Nelle case degli esseri umani c’era chi non aveva
dimenticato queste usanze lontane dalla civiltà, ed erano gli unici in grado di comprendere che per
mantenere la stessa era necessario che col favore del buio qualcuno le trasponesse nella modernità,
mantenendole vive e costantemente aggiornate mentre tutti gli altri vivevano ignari la propria vita.
Un bel macello aveva fatto il Bonella anche solo ad accennarvi, nel cercare di spiegare che proprio
non poteva dirgli cosa avevano visto.
Penelope ebbe un brivido che le fece tremare tutto il vestito di foglia di larice, seduta là da sola
contro lo stipite di una camera da letto. Non avrebbe più dimenticato quella notte. Si udiva da fuori
qualche grillo in anticipo sulla stagione, cani da cortili vicini ululavano e tossivano, e dentro la casa
chi era intento all’appuntamento, come sempre, si orientava per gli anfratti bui grazie alle numerose
luci fatate e variopinte di prolunghe attaccate alla corrente, ripetitori di Wi-Fi, l’allarme che non
suonava mai, decoder e console in fase rem che mandavano un ronzio costante come corpulenti
mostri brontoloni, raggomitolati con un solo occhio rosso rimasto mezzo aperto a scoraggiare gli
scocciatori. Lei portava in una sacchetta la miglior merce della settimana, raccolta di soppiatto alla
luce del giorno. Non vivendo nel folto della vegetazione, raramente si riusciva a rimediare
secrezioni magiche di materia vivente ma, anche grazie alla collaborazione di folletti e altre creature
che rizzavano le orecchie al calar del sole, gli gnomi urbani avevano scoperto degni sostituti che
imperversavano in quantità nella casa: per un umano è roba da poco, ma esseri di tali dimensioni
percepiscono nettamente la presenza di certe vibrazioni, onde invisibili ma calde e sostanziose come
nebbia, che di continuo rimbalzano tra un muro e l’altro, che si possono raccogliere a manciate e
mischiare alla polvere. Ci si accorge del passaggio di un banco bello denso per un distinto trillo che
emanano, come stridio di pipistrello, e mettersi al centro di un’ondata procura sensazione di un
idromassaggio di emicrania estasiante. Serrando le palpebre, così abbandonati all’immersione, ci si
vede attraversare la mente, dietro la cavità degli occhi, da una parata di immagini in successione che
raccontano mitologie fatte di pixel, cronache di cronologia ricerche, bassorilievi di emoji e steli di
antichi meme. Basta afferrare un pugno di tale sostanza e gettarlo in pentolame gnomico assieme a
foglioline smangiucchiate, polvere di angoli e altra polvere strana portata da insetti ignoti, più altre
cose variabili, per farne un “oracoloniente male (in più si ha sempre da parte per insaporire il tutto
qualche pezzetto di fungo caduto a terra quando i Roggeri prendono la pizza al taglio). Penelope
ancora non sapeva spiegarsi l’intensità delle cose visionate, forse aveva esagerato con la quantità di
sostanza raccolta quella volta, forse qualcosa ne aveva intensificato all’improvviso i principi attivi,
forse aveva giocato troppo con le sue fatture, e si sentiva un poin colpa... ma ciò che più
spaventava era il contenuto della profezia. Là nel sottoscala dove tutti in cerchio ricevevano la
parabola del nettare, in diversi avevano vomitato copiosamente dopo aver visto quella roba.
Possibile che simili cose si nascondessero nelle vibrazioni della casa? Anche i folletti, più
avventurieri e di stomaco forte, non avevano retto. Se l’erano pure presa con lei in un primo
momento, “Penelope, che roba ci stai dando?”, ma la questione non era da scherzo e subito il
risoluto ma traumatizzato Bonella disse di andare di corsa a svegliare Monica e farla venir là, per
discutere di certe misure da prendere. Proprio in tal modo, pensava Penelope, la festa notturna
aveva iniziato a mutare nei preparativi dell’assemblea, quella in corso dall’altra parte, e che era
arrivata a un punto difficile. Si doveva far capire a tutti gli zucconi dimentichi del proprio retaggio
magico che non c’era da far storie e scappare di corsa, lontano da quella roba. Santo cielo, da quale
inferno sarebbero fuggiti senza sapere e senza possibilità di capire... ma lei, Penelope, di questo non
doveva occuparsi, affari del Bonella e della sua “collaboratrice fidata”. Sospirò, ristette quieta
nell’ombra grigio-bluastra del pomeriggio, fiacca al principio dei suoi sette anni (circa trenta
umani), si attorcigliava con nervosismo attorno alle dita da streghetta i capelli scoloriti. Cominciava
lei stessa a detestarli acutamente. Se fosse riuscita a salvarsi, per prima cosa li avrebbe tinti.
Intanto nella sala i discorsi erano andati avanti e, insieme agli ultimi granelli di polvere che
cominciavano a riflettere i primi pastelli del sole stanco, era scesa anche una sorta di calma. Le
acque irrequiete del panico continuavano a scorrere in una dimensione insondabile presente nel
sottofondo della scena, il lavorio di ansie e paranoie non si era arrestato; nonostante ciò sembrava
che la folla avesse adottato una nuova “faccia collettivache assomigliava a rassegnazione, tutta in
sintonia nella sua atmosfera come un banco di pesci che ragiona con un solo cervello. Non si può
dire con certezza se fosse un risultato ottenuto dalle semplici chiacchiere del Bonella messo
all’angolo miste ai sorrisi di Monica, ma avevano cominciato a capire, forse perché in fondo lo
sapevano già ognuno per sé. Era il momento di accontentarsi delle arrampicate sugli specchi, di
tutto ciò che eludeva il nucleo della minaccia.
-insomma, noi non possiamo dire oltre, ma certo qualcosa avrete intuito anche voi, no?-, si
destreggiava il Bonella, trovandosi davanti facce desolate, spaventate come prima e ora sconfitte
per non sentirsi più in diritto di schermire la paura con l’irritazione.
-ciò che accade in un luogo lo si percepisce dai suoi abitanti. Certo, noi non ci curiamo delle cose
degli umani, ma è praticamente impossibile passare una vita senza ascoltare i loro discorsi. Non
stanno zitti un attimo, è normale sentire qualcosa. E di certo tutti noi abbiamo avvertito nelle ultime
conversazioni quella presenza allarmante...
-ma cosa, cosa avremmo dovuto avvertire?- tentò ancora strenuamente di opporsi Verrante, un
salmone stremato.
-Verrante, non facciamo finta di nulla. Sarà anche vero che quelli parlano sempre delle stesse cose
insulse: vogliamo o non vogliamo comprarci questo, i prezzi del cibo sano sono diventati proibitivi,
hai visto che ha fatto quella persona famosa, poi commentano il programma in televisione e a cena
si aggiornano sui fatti degli altri che hanno sentito nel corso della giornata. Ma non si neghi che a
un certo punto, inevitabilmente, si comincia ad avvertire che c’è sotto qualcos’altro, anche dietro
discorsi che sembrano non cambiare mai si insinua una sensazione diversa. L’avete sentita, no?
Magari non riusciamo più come prima a giocare disinvolti sui davanzali, a sonnecchiare nell’ombra
dei cespugli del giardino, a rubacchiare per casa e nascondere la refurtiva sotto i tappeti. Nelle
azioni quotidiane, un tempo senza screpolature, subentra una stretta invisibile che tende a soffocare
il fiato nel petto, e ci si chiede per la prima volta “perché” facciamo quello che facciamo. Uno
gnomo normale e in piena salute mentale non fa certe cose. Non so ora le altre creature, ma credo
sappiano tutti di che parlo. Dite, gente, non vi è capitato ultimamente di scoprire con un certo
preoccupante rintontimento che, nel mezzo di una vostra attività, vi eravate fermati a fissare il vuoto
per diversi minuti senza far nulla?
Corse un certo sgomento tra gli uditori che rimbalzò di testa in testa cavalcando i bisbigli
preoccupati, quello che il Bonella diceva “aver colto nel segno”. Erano colpiti, ci aveva visto giusto
a individuare un capro espiatorio negli umani che coabitavano l’edificio. Il Bonella e gli altri
nottambuli avevano maggiore coscienza di sé, conoscevano meglio le sfaccettature della natura
gnomica: apparentemente indifferenti alle faccende degli esseri troppo più grandi di loro, con il
finissimo udito erano pur sempre dei grandi origliatori.
-vedo dalle vostre espressioni che sapete. Avete udito che gli umani cominciano a stancarsi, senza
ammetterlo a se stessi. Così mentre accusano le scelte di vita di un altro o esprimono desideri che
neanche sono certi di avere, lasciano passare quel fastidio che giace più in fondo. Si chiedono senza
saperlo, “perché deve essere sempre così?”, ma non hanno il coraggio di rispondersi, ignorano la
domanda, preferiscono continuare all’infinito a dire ciò che li porta allo sfinimento. È meglio per
loro quando sono contenti e basta di quello che fanno, privi di coscienza e profondità. Ma quando
iniziano in questa maniera, è segno che la casa va lasciata: una creatura di piccole dimensioni, come
siamo tutti noi, risente fortemente di un clima del genere. Non si sa mai che cosa orribile potrebbe
accadere.
Si udiva poco traffico lontano, la sirena di un’ambulanza. Stavano tutti in silenzio. Era il lutto di
aver scoperto la propria tristezza e la propria noia, la concentrazione di farne un problema
esistenziale che si generava a partire dalle chiacchiere degli umani. Tutta colpa loro!
-ma allora dove andremo?-, chiese qualcuno dopo un po’. Di nuovo si guardarono Monica e il
Bonella, ricordandosi l’imperativo: “mai mostrarsi stanchi”, e ora un altro, “mai mostrarsi
imbarazzati”, questo assai difficile: ecco venir fuori la mancanza nella loro organizzazione precisa e
funzionale.
-ecco, non vi allarmate. Sappiate che non è il gran problema che sembra: non lo sappiamo ancora
con precisione.
Qualcuno singhiozzò, qualcuno si mise le mani nei capelli.
-ma non c’è motivo di angoscia! Per la miseria, anche gli gnomi e i folletti vengono da qualche
parte. Ce l’avremo, un posto dove tornare.
Seguì un periodo di profonda interrogazione privata, come chinassero tutti il capo in preghiera al
gesto del sacerdote, interrotta solo dagli sporadici clangori dei macchinari evocati dall’equipe
tecnica, progressivamente più esatta nei risultati. Dovevano tornarsene nei boschi? Da secoli non
vivevano più lì. E i ratti, allora, che erano stati i primi a scapparsene, se n’erano forse tornati nelle
steppe della Manciuria? No, al massimo erano andati nelle fogne. Ma per questi gnomi abituati ai
comfort non c’era un rimpiazzo idoneo regalato dall’ambiente. No, dovevano tornarsene al luogo
primordiale e lì reimparare a vivere. Certo era un viaggio lungo, certo che serviva memorizzare la
materializzazione di treni, aerei, perfino navi un tempo piene di piccoli pirati di plastica. Gli uomini
dovevano forse far ritorno alle praterie africane, o forse alle caverne, insieme ai ragni? I topi si
chiedevano se esistesse la campagna prima degli uomini; le tarme si curavano solo di sapere se
sarebbero arrivate in tempo da qualche parte prima di arrivare alla fine dei pochi giorni rimasti, una
farfallina (in questo senso praticamente già morta) russava. I folletti si chiedevano se non fosse più
facile per loro adattarsi a vivere soltanto nei giardini delle villette, tanto anche dentro casa si
comportavano in fondo come ospiti vagabondi e opportunisti; non arrivavano a interrogarsi sulla
complicata questione del luogo a cui far ritorno, si sarebbero arrangiati come sempre era stato vanto
della loro specie. Ma gli gnomi? Monica rimpiangeva i suoi abiti da umana, i suoi scacchi solitari e
le soap opera; Verrante amava alla follia le briciole lasciate dalle ciambelle della colazione. E Il
Bonella aveva visto qualcosa di assurdo.
Tutti avevano ricevuto lo stesso presagio, la stessa ombra che ora era finalmente calata su tutti
infiltrando negli animi di ciascuno una paura dimenticata, la vaga forma scura di un’aberrazione
zannuta e gorgogliante, che risvegliava il sopito istinto alla fuga. Era anche quello un segno che
dovessero tornare alle origini dove simili sentimenti brulicavano. Ma tra tutte le visioni dello stesso
contenuto infausto, ognuno aveva ricevuto sprazzi di qualcosa di diverso. Penelope aveva visto un
forte temporale, un vento impossibile, così tanta acqua da chiamare fuori le navi malridotte. E il
Bonella, spiritato e impallidito, gli occhi più spalancati di quanto avesse mai fatto qualsiasi uccello
predatore, aveva visto proprio lei. La Grande Montagna Luminosa. Era la visione di un folle, c’era
da preoccuparsi per la propria salute mentale, ma l’immagine era stata nitida, ed era convinto di
essere l’unico ad averla vista tra tutti gli allucinati. Non poteva confessarlo, ma in qualche modo,
parola sua, avrebbe col suo ingegno arrangiato le cose in maniera tale da dirigere la grande
migrazione, senza farne parola, proprio verso quella meta di sogno. Sentiva il suono del fiume, un
suono antico che si dice sia per sempre rimasto come un’eco nelle orecchie della stirpe gnomica.
Chissà se laggiù c’erano sostanze altrettanto buone come le vibrazioni di casa. Se c’era da qualche
parte qualcosa che ci si avvicinava, era per forza in quel luogo mitico, non certo in un boschetto
insulso. Il povero Bonella aveva fatto tutto solo per questo. Da tempo sentiva quel vuoto nelle
azioni quotidiane, nei suoi dibattiti pubblici e nel nulla degli “ordini del giornodelle assemblee.
Ormai gli infusi incantatori era l’unica cosa a mantenerlo in grado di fare tutto questo. E a qualsiasi
costo (“per dio!”, si diceva) sarebbe andato dove potevano essercene in abbondanza, verso la
visione promessa. Ed ecco in poche parole qual era l’obiettivo del “sindacoinconsapevole e non
eletto.
Quando quasi tutti se n’erano già andati a fare i preparativi, i tre spiritelli familiares ancora si
guardavano sbigottiti, spaesatissimi, ridicoli a vedersi come caricature tragicomiche. Dove diavolo
sarebbero andati, senza la casa? La loro razza era nata insieme alla formazione dei primi nuclei
famigliari umani, o forse esistevano già prima e si erano in seguito evoluti in modo da fare quel tipo
di vita simbiotica? C’erano familiares allo stato selvatico, magari sottoforma di gelidi fuochi fatui
nei campi d’inverno? Sapevano purtroppo che non avrebbero fatto in tempo a risolvere la questione
della propria esistenza prima del ritorno dei Roggeri. Il loro istinto dispotico gli imponeva di farsi
trovare dagli umani sempre nel posto per loro designato, immobili e privi di vita, nient’altro che
oggetti che hanno una collocazione nella casa. A testa bassa l’abat-jour salutò gli altri, dirigendosi al
suo vecchio comodino in corridoio. Il soldatino dovette semplicemente arrampicarsi e sedersi su un
mobile vicino, la coccinella di plastica fluttuò in cameretta e dentro un cassetto di cianfrusaglie.
...
-guarda, si muove ancora!
-mi fa schifo. Ammazzala.
-poi lascia una macchia di sporco.
-allora usa un fazzoletto.
-lo facciamo fare a papà. Mi fa impressione sentirmi il corpo che ronza dentro la mano.
Erano circa le sette di sera. Il sole ancora penetrava solenne nella sala luminosa, arancione e calda,
bellissima, il vero vanto di tutta la casa. Rientrando il ragazzo si era accorto di aver spezzato,
calpestandola, la punta dell’aluccia nera di una patetica farfalla posata a terra, tutta stordita, pareva
addormentata. E in effetti stava sognando. Uno strano sogno: c’erano un treno che correva nella
notte, qualcuno urlava e bestemmiava: pareva che un pezzo di ferrovia si era spezzato, tutti
sembravano così spaventati che solo a guardarli ci si spaventava di propria volta; poi la scena era
cambiata, e da un canaletto d’acqua piovana sotto un marciapiede saltavano fuori strani mostri
marini, simili a delfini carnivori, che si avventavano su una nave giocattolo. Una bizzarra luce
lunare inondava la scena, attraversando i nuvoloni da cui inesorabilmente precipitavano appuntite
lame d’acqua. Già, uno strano sogno. La farfallina era stremata, ormai non si rendeva conto di
quanto tempo avesse passato in un dormiveglia confuso. C’era stata davvero un’assemblea quel
pomeriggio? Mentre si perdeva come un viandante anestetizzato tra i suoi ultimi pensieri, stillava
dalla ferita all’ala una strana polverina bianca e grigia, che in molti avrebbero apprezzato per le sue
proprietà psicotrope.
-ma che è quella roba, che schifo! Levala, levala!
-e aspetta, dai. Papà avrà trovato fila al Mac.
-puliscila subito, altrimenti ti dimentichi e magari quando viene Giorgio quel suo bastardino la lecca
e ci crepa in casa.
-non è un bastardino, è un Jack Russell.
-non me ne frega niente, mi chiedo perché debba portarselo appresso.
-mah, pare non possano stare a casa da soli...
-aspetta, zitto. Mi pare il campanello.
Si diressero all’ingresso. Nulla più respirava in sala. Un soprammobile batteva le palpebre di tanto
in tanto, chiedendosi che ne sarebbe stato di lui.