ridosso della serranda per sempre abbassata, si voleva rimanesse nascosto e ostacolato dall’intrico
di scrivanie e cavi. Studiavo le pieghe del tessuto, indovinavo il dettaglio delle forme solide rese
omogenee dal panneggio, in cerca di quella cosa, l’invenzione finale… ma non c’era nulla che
spuntasse con imponenza, nulla che raggiungesse il tetto, tirando il telone al limite estremo della
sua capacità coprente. Senza poter perlustrare ulteriormente, bloccato da ogni genere di intoppi,
squadravo da cima a fondo l’area da dietro la barriera difensiva che il professore, forse
inconsapevolmente, aveva frapposto tra un visitatore e le creazioni più significative, intime, il vero
nucleo del suo essere scienziato e individuo. Mossi pochi passetti e mi arrestai subito incappando
come in una ragnatela in un campo, timoroso di trascinarmi con quell’addobbo dell’albero tutto
l’esercito annientato e maledetto di oggetti contundenti avvolti nelle stesse spire. Idiotamente mi
voltai verso D’Andrea là dietro, per quel riflesso congenito che spinge un bambino che muove i
primi passi nell’acqua fredda a cercare l’incoraggiamento del padre rimasto sul bagnasciuga, come
una torretta di controllo (“sto andando bene, papà? Sto andando bene, dottore?”). Feci una smorfia
amareggiata per aver manifestato fisicamente quel pur ermetico barlume di fiducia verso un
soggetto deprecabile, ma egli non mi stava guardando. È strano, ma vedendolo così, con la testa
bassa e il collo gonfio a schermirlo dal freddo, un po’ dimentico di dove fosse, mi apparve più
indifeso. Non so da quale zona bacata del cervello mi uscisse (dovevo essere più stanco di quanto
mi accorgessi), ma mi domandai se anche lui non potesse rassomigliare alla figura d’un padre.
Insomma, tutti quei giocattoli reietti, venuti al mondo per mezzo delle sue mani. Ed era stato un
padre complicato, imperfetto come tutti, che in un momento di distrazione mostrava un aspetto di
fragilità. Lui, perfino lui! E perfino lui doveva aver avuto un padre a sua volta, fantasticavo, un’altra
figura accanto a quella odiata della madre, chissà se sprezzante anch’essa, o amorevole, o del tutto
assente, magari mai conosciuta ma tale da generare una presenza immaginata con malinconia in
sogni irrimediabilmente solitari.
Tutta colpa dell’albero se ho pensato a questo. Sì, l’albero, quello secco in uno sfibrato color
carbone che vedevo sbucare da dietro il garage con le sue punte, ribelli al decadimento della morte.
La porta d’accesso unica del garage che avevo immaginato ostruisse col tronco, nel reticolato
esterno, era un’altra saracinesca, questa ridotta alle dimensioni sufficienti per far passare una
persona alla volta. Non era serrata, fu sufficiente sollevarla con forza. Ma l’alberello aveva rami fitti
e penduli che disturbavano calandosi dall’alto, come spuntassero anche dal tronco, come un
cespuglio di rovi che crede di essere un albero: D’Andrea bestemmiava mentre cercava di sollevare
la saracinesca, coi pungiglioni lignei che gli si conficcavano ora nel posteriore flaccido, ora in
faccia, facendogli perdere il contegno. In quei momenti forse cominciò a mutarsi la sua spocchia,
magari instillandosi in lui il vago dubbio che non fosse valsa la pena di abbandonare la poltrona,
uscir fuori al freddo e farsi prendere in giro da un arbusto impertinente al solo scopo di “darmi una
lezione”. E intanto io rivivevo mio padre. Inebetito nell’aria notturna, col dottore che faticava ad
aprirci un passaggio, respiravo quel pezzo di cortile celato ai passanti davanti la casa. Nostalgico di
altra scarsa erbetta che cresce in mezzo alla pietra scura, d’altri muriccioli grigi con le linee dei
mattoni lasciate visibili per fine decorativo, di cieli serali estivi in cui si librava tra i giochi di
pianterreno un odore di cena pronta misto a urina di gatto. Nostalgico di altre radici trapiantate in un
posto simile da mio padre, o forse era mio nonno chissà, dalle quali si erse un essere capace di
donare l’ombra. Possibile che fossi stato in quel luogo? Non sono estraneo ai dejavu ma questo era
diverso. Che posto stavo ricordando, che posto, non riuscivo proprio a richiamarlo alla mente e la
cosa mi faceva impazzire, al punto da sentire che anche il cuore di D’Andrea pulsava, come il mio,