IL GOLEM DI SAN PEUCEZIO ALTA
Quando finalmente giunsi all’indirizzo del Dottor D’Andrea, non potei fare a meno di sentire una
certa soggezione. Tuttora non mi ritengo il tipo che si lascia suggestionare da maldicenze e
leggende di paese (non sarebbe peraltro in linea con i comportamenti che l’azienda si aspetta da
me), ma devo riconoscere mio malgrado che, non diversamente da quanto volevano anticiparmi le
varie voci e indicazioni che avevano cercato di dissuadermi in quella giornata, si spargeva da quel
posto un’aria lugubre. Certo, poteva benissimo trattarsi di un banale effetto della tarda sera in un
paese caratteristico come San Peucezio Alta, dove le sporadiche crepe che si delineano sulle case
più vecchie e gli strettissimi borghetti medievali danno adito alle più numerose vertigini di fantasia
scaramantica. È normale, per chi è abituato a vedere palazzi e tangenziali, lasciarsi stregare dal
fascino vecchio di un centro abitato che sta aggrappato a un colle e distribuisce le sue vie su
altitudini diverse: chiesette antiche, i bar che sembrano moltiplicarsi a profusione durante le ore dei
giorni soleggiati per poi scomparire prima del tramonto, gli scorci ariosi di panorama, quelle
caratteristiche officine dove ancora schizzano sui metalli i bagliori e le scintille di mestieri obsoleti,
qualche piccolo pollaio sul retro di una casa proprio affianco all’ufficio postale… tutto questo
incontra la notte in una maniera troppo estranea alle sensazioni della metropoli perché non se ne
resti in qualche modo colpiti, e allora ci si deve aspettare che sogni e impressioni ne vengano
contagiate. Non che l’aria si faccia necessariamente priva del benché minimo rumore, ma rispetto al
traffico e le luci di festa sembra qui che una certa razza di silenzio coli direttamente dai monti più
alti attorno, frammisto a una densa oscurità dove sbocciano racconti sgraziati di vecchie centenarie.
Gettando lo sguardo a ridosso del paesaggio circostante, passate le nove di sera, si sbatte da ogni
direzione contro un vuoto nero nel quale ci si può soltanto immaginare il profilo delle montagne,
dello stesso colore (si ha la sensazione che, non viste, ammoniscano austere con facce brontolone di
pietra e boschi). Dunque, non c’entra niente il cedere alle superstizioni: sono molte le zone di questa
località in cui qualcuno che conduce uno stile di vita urbano come il mio può ritrovare simili
sensazioni, un poinquiete e un pointriganti. Ma a essere onesto non è la stessa cosa per la casa del
Dottor D’Andrea. Qualcosa mi dice che se anche ci tornassi adesso, pur sapendo ormai cosa c’è
lassù, mi ritroverei di nuovo con la stessa sensazione nello stare da solo, in piedi nella notte, davanti
al cancelletto e al garage, in quella viuzza d’asfalto opaco, poche lucette dalle finestre vicine; lì e
solo lì sembra che l’oscurità abbarbicante i contorni delle case sia di sostanza diversa, come un fiato
viziato di fantasmi gelosi che gridino di stare lontani, di esser lasciati in pace. Oltre il piccolo
garage, con la serranda insaccata negli strati di polvere che dava l’idea di esser rimasta chiusa per
decenni, spuntavano le punte spoglie e nere dei rami di un alberello morto, fitti e acuminati come
una capigliatura irsuta. Mi dissi che doveva ostruire col tronco l’altra entrata, aveva qualcosa di
parassitico nel poco che lasciava vedere da fuori, come se le sue spoglie recassero ancora le tracce
di un’insolenza che lo aveva caratterizzato in vita. Alla destra del garage stava il basso cancello
oltre il quale un modestissimo cortiletto conduceva alla porta stretta e scura. Ce n’erano molte di
case così, anche di più rovinate, eppure…
Insomma, non riesco a venirne a capo: i pettegolezzi potrebbero aver influenzato l’impressione
anziché no, o viceversa trattandosi di un’aura che tutti sentono, si sono generate a partire da ciò
quelle chiacchiere sinistre. Forse non ha importanza ed è meglio lasciare il dubbio lì, sta di fatto che
da quando cominciai a chiedere delucidazioni alla gente del posto sul domicilio di D’Andrea ottenni
sempre come prima reazione un’ombra in volto a chi interpellavo, sempre la stessa, calava tutta
d’un tratto quasi capovolgendo l’atteggiamento per pochi secondi. Nell’assistere ripetutamente a
questa metamorfosi, sentivo che cominciava a distillarmi dentro un piccolo timore come una bile
fremente. Sono un popolo tendenzialmente affabile, i sanpeuceziani, per giunta caratterizzati da una
certa spavalderia tutta loro -a volte quasi altezzosa- per le cose che si trovano là, dalla carne cotta
che si assapora meglio in questa o quella osteria, alla fama diffusa di industriosità e destrezza nelle
sapienze manuali ( la stessa poi per la quale sono stato mandato a fare un rendiconto proprio qui, in
mezzo a tanta provincia). Basta accennare a questi argomenti e parlano con espressività viva e
accentuata. Perciò il cambiamento appariva ancora più stupefacente, a maggior ragione quando
dopo un pofinivo col parlar loro del mio lavoro e quelli quasi storcevano il naso. Non riuscivo a
capire se fosse stato sufficiente menzionare D’Andrea, evidentemente uno antipatico a tutti, per
indurre il cattivo umore e in seguito debellare ogni volontà di continuare a conversare con me;
oppure per qualche motivo a quella gente industriosa non andava a genio il mio lavoro che
dell’industriosità fa un interesse primario.
-svolgo delle indagini di mercato per un’importante azienda che opera in molti campi della
tecnologia. Il mio compito è quello di intervistare e stilare statistiche sull’utilizzo e le preferenze per
quanto riguarda apparecchiature, elettrodomestici e così via.
-aah, aaahhh…-, facevano quasi tutti con diffidenza alzando il collo più volte, una risposta piuttosto
omogenea che doveva appartenere al vernacolo locale. Si distoglievano dal confronto,
ancheggiavano un popiù di lato come a voler comunicare che il colloquio era da considerarsi
fisicamente concluso. Mi feci anche l’idea che potesse trattarsi di invidia nei confronti di D’Andrea,
poiché chiedevo subito di lui, com’è anche giusto che fosse: se tra tutte le zone limitrofe alla
metropoli che mi era capitato di visitare mi si chiedeva per la prima volta di alzarmi di quota,
probabilmente non aveva contribuito solo una fama antica del paese, un fattarello limitato al
pittoresco e al folkloristico, ma anche il fatto di sapere che lì viveva un sapiente che si era distinto a
tal punto da far arrivare il suo nome (e poco altro) all’orecchio dei miei colleghi. Mi fecero arrivare
in ufficio un opuscoletto, come una vecchia guida sulle cittadine dei colli, in cui trovai tutta una
serie di informazioni che arricchivano gli accenni sparsi in rete. Se Wikipedia si limitava alla
menzione di una consuetudine medievale, da parte dei signori più ricchi del contado sottostante di
approvvigionarsi di armi e attrezzi prodotti a San Peucezio Alta, la guida invece si dilungava sul
modo in cui i rapporti feudali avevano plasmato e influenzato il territorio; da un elenco di poche
imprese lì stanziate si passava a un paragrafo di società e demografia in cui si diceva che quella
fama ha tramandato qualcosa alla modernità attraverso i festival o, per esempio, nella notevole
percentuale di iscritti a facoltà come ingegneria meccanica tra i pur pochi studenti pendolari che
vivono lì, prendono l’autobus e scendono alla più vicina stazione in pianura. Certo caratteristiche
che farebbero pensare all’idoneità di una nostra indagine, ma non molto supportata dal numero di
abitanti e la loro età media. Ma c’era dell’altro, chiaramente.
“Cerca di capire dalle parole di questa gente operosa se si conosce e si fa uso delle più recenti
innovazioni, se sono bendisposti nei confronti dei nuovi media e le tecnologie avanzate. Ma c’è una
cosa più importante: se ci vai, devi assolutamente intervistare D’Andrea. Tra tutti quanti, è
praticamente un’eminenza, stando a ciò che si dice. Nonostante non si trovi il suo domicilio, è
certamente notissimo e ti sapranno indirizzare o dire se non vive più lì. In tal caso, se non si è
trasferito lontano, dovremmo considerare l’ipotesi di raggiungerlo nel corso di una successiva
indagine.”
Inutile dire che ero incuriosito, se non altro per l’inesistenza di un indirizzo unita a una notorietà
tale da giustificare tutta una ricerca. Doveva essere comparsa nella mia mente un’idea ingenua,
come d’un misterioso alchimista e scienziato che viva recluso dopo essersi fatto conoscere per
l’oscura audacia delle sue sperimentazioni. Immagino che si riproponesse a livello inconscio anche
nel constatare come tutti diffidavano di quel nome. “Lascia perdere”, avrebbero voluto dirmi i più
cortesi, “stai lontano da quella casa e dall’uomo che ci sta dentro”; ma la disposizione a
consigliarmi in questo modo, genuino per quanto pettegolo, lasciava posto a un unilaterale “fuori
dai piedinon appena parlavo della mia occupazione. Il massimo che ottenni fu, appunto, il civico 1
di via Uffizi con qualche indicazione per arrivarci, dalla voce arrochita di un tale che non voleva
saperne più niente e si era allontanato di fretta come a manifestarmi che era tanto peggio per me. Ce
l’hanno con lui perché è più bravo di loro? Ce l’hanno con me perché l’industria di cui mi occupo io
è forse eccessiva, lontana dai loro principi? Ero in ogni caso amareggiato da quanto grette si fossero
rivelate delle persone inizialmente cordiali, quanto poco si mostrassero aperte verso quella che era
l’evoluzione naturale di ciò che vantavano di aver perseguito nella loro storia. Confidavo in cuor
mio nella speranza che l’incontro col Dottor D’Andrea smentisse quei pareri in quanto mere
animosità di paesani superstiziosi, ma ammetto che riuscirci era difficile a causa di quell’aria cupa
che il ricordo della sua persona diffondeva in un istante, così tetra, così convincente nell’instillarmi
uno sfortunato presagio come se fossi stato il primo a sentirlo intensamente nel mio profondo.
Quando ne ebbi conferma, se di conferma si può parlare, il pomeriggio era ormai trascorso
nell’inconcludenza e l’inutilità di provare a rivolgere domande. Era stata in fondo una piacevole
passeggiata tra caseggiati sobri, tutto dello stesso colore grigio del cielo, a tratti accompagnata dalla
musica di Brian Eno che scorreva dalle cuffie alle insenature dei miei padiglioni come un visitatore
abituale che conosca la strada. Quando mi incamminai dalla parte alta del paese per scendere lungo
il viale che mi avrebbe portato a Via Uffizi, i riflessi del tramonto avevano cominciato a scemare,
inghiottiti dal primo blu che precludeva alla notte. Quando invece mi fermai davanti al cancello era
già buio pesto negli angoli discosti dalle case. Certamente allora le presenze funeste uscivano
circospette, quasi impercettibili ma presenti, si irradiavano dalle pareti della vecchia casa. Era
curioso, un domicilio perduto, rintracciabile solo al costo di aver chiesto a molte persone prima di
ottenere la minima informazione necessaria d’un nome e numero, un chiedere che equivaleva quasi
al farsi dei nemici. Via Uffizi, uno. Sul dossier non ce n’era menzione alcuna. Non avevo ancora
letto il resto, l’avrei consultato una volta faccia a faccia con D’Andrea, come a fare un raffronto tra
l’uomo fisico e l’ombra cartacea della sua vita condensata in caratteristiche e gesta sparute. Si sentì
l’abbaiare lontano di un cane di grossa taglia, io ero rimasto per diversi minuti fermo davanti alla
casa. Non si trattava solo dell’atmosfera un pospaventosa, non sapevo come approcciarmi.
Davvero qualcuno che viveva lì avrebbe aperto la porta al suono d’un campanello? Doveva esserci
un modo non convenzionale per richiamare l’attenzione. Non che lì dentro dovesse esserci per forza
una sorta di genio pazzoide fuori dagli schemi, ma almeno, che so, uno che assomigli a un vampiro.
Riflettevo, mentre cercava di incoraggiarmi l’intermittente scrosciare di applausi e risate di un
varietà della Rai, acceso davanti una coppia di morigerati anziani nel palazzetto di fronte e tenuto a
un volume tale da sentirsi per strada, forse per vincere una lieve sordità poveretta. Mi faceva
pensare che si trovavano più vicini di tutti a quello che pareva un personaggio assai controverso,
chissà se ne parlavano ad altri, se riferivano con fare malizioso di quando usciva a buttare la
spazzatura (se mai faceva qualcosa del genere), o se magari la sua vicinanza contaminasse anche la
loro reputazione. Fabbricavo con facilità simili pensieri che erano cuscinetti per il mio
temporeggiare, fintantoché le emanazioni spettrali lì concentrate ancora non mi avevano trasmesso
l’impulso di darmi alla fuga. Forse questa è una via che rimane un pobuia, poco soleggiata anche
durante le ore diurne? Ondeggiavo anzi sul posto, tra una fantasticheria e una possibile soluzione,
che irruppe poi spontaneamente a sconquassarmi con la consapevolezza che forse da solo non mi
sarei deciso. Sembrava quasi un latrato, un urlo rabbioso da dentro la casa, proprio quella. L’impeto
mi colpì, inaspettato per il contegno severo della modesta abitazione, inevitabilmente mi trovai a
impallidire e mandar giù un grosso grumo di saliva spumosa di agitazione. Nel mezzo del ringhio si
erano frapposte delle parole che non ero certo di aver inteso, ma mi sembrava di aver distinto un
“basta”, forse un “ora basta!dal colore del rosso in faccia. Quasi inciampai all’indietro quando
vidi aprirsi la porta in fondo al vialetto e comparire sulla soglia la sagoma scura di una donna.
Ancora più destabilizzante mi apparve il fatto che la sua forma si stagliasse in contrappunto a un
cerchio di luce che proveniva da dietro, dall’interno della casa in cui dunque qualche luce doveva
essere accesa. Fu allora che mi accorsi di una peculiarità alla quale, inspiegabilmente, non avevo
ancora fatto caso: non c’erano finestre. Non è che mostrassero stanze a luci spente, come dovevo
aver registrato spontaneamente e lasciato correre senza altre domande, è che non c’erano proprio.
Era immancabile che sembrasse tutto più buio, si spiegava quell’oppressione nell’aria che prima di
quel particolare trovava soltanto giustificazioni non tangibili. Titubante mi avvicinai al cancello,
come attento per via di uno strano istinto a non sembrare troppo deciso.
-Ehm, salve, è qui che vive il Dottor D’Andrea?
-entri, per l’amor del cielo!
-…come?-, dissi con deciso stupore. Mi sembrava di distinguere in mezzo al buio un bianco
disperato negli occhi inarcati in su della donna, ne percepivo dalla distanza i contorni luttuosi e
affaticati.
-entri, entri, e se non entra vada via, via!!-, implorava contritamente, per non sovrastare le lamentele
stizzite che dalle sue spalle si gettavano ora in strada. Forse non voleva farsi sentire dall’uomo
arrabbiato, certamente il Dottor D’Andrea, ma con chiarezza giungevano a me le note lamentose
della sua voce di squittio, nitidi i sentimenti mortificati che le ammuffivano chiusi in gola. Come
ridestato o spronato, diedi un piccolo scatto inconsapevole verso la casa, quasi mi premesse di
mettere a tacere quello sbraitare prima che qualcuno si potesse affacciare dalla strada, prima che i
due coniugi da dietro il balcone lassù trovassero in me un sostituto al programma serale. La donna
agitava il braccio frettolosa, un podiscosta per farmi entrare, e nella fretta non feci caso al fatto che
il cancello non era chiuso a chiave e l’avevo spalancato con spontaneità per entrare nel vialetto al
più presto, lasciandomi dietro un cigolio raggelante.
...
La porta si richiuse energicamente dietro di me e per poco il latrato cessò. Mi trovavo dunque in
casa del Dottor D’Andrea, o c’era stato un errore? Per il momento ero solo sollevato dalla
recuperata quiete, ma fu un armistizio di breve durata.
-Oé! Oé, Gertrude, ma lo hai fatto entrare? Ah, lo hai fatto entrare, vecchia idiota!- riprese
furibondo, lo udivo dall’ingresso -pazza sei, pazza, e maligna, mi vuoi far del male, io l'ho sempre
detto, ah, l’ho sempre…
Continuò a borbottare con foga, mandando strani fischi in mezzo al discorso. Mi voltai e vidi
Gertrude che mi guardava con un braccio teso per prendermi la giacca. Lenta e tremolante nei
movimenti, fitta di spesse rughe intessute in una sola trama di vimini dalla base del collo alla fronte,
era indubbiamente molto vecchia; passava però l’impressione che non fosse stata la sola vecchiaia a
ridurla com’era. Sciupata, pallida, costretta in una forma più “insulsa”, una versione ridotta di se
stessa. Mi ricordò in un primo momento i malati recentemente usciti fuori dalla prigionia deturpante
di una lunga, intensa malattia, ma cambiai immediatamente idea: sì, era stato qualcosa di diverso,
una cosa più indefinita, a farle questo. Nonostante gli anni, alcune ciocche della chioma corta e
stopposa spiccavano come caratteristiche striature nella massa bianca, ma erano di un colore debole,
uno scuro appassito dai riflessi bluastri metallici. Il suo sguardo era debole ma intenso, desolato ma
penetrante, non desisteva dal fissarsi su di me mentre le cedevo la giacca. Assomigliava a un
animale da fattoria inerme e mansueto, con quel nasone troppo più grande di labbra invisibili e
quelle grosse pupille soggiogate da sopracciglia perennemente inarcuate in una posizione di
sconforto, non capivo se mi comunicasse gratitudine per un sollievo anche solo temporaneo o se mi
trovasse in fondo non molto diverso da ciò che nel passare dei giorni le aveva congelato
quell’espressione in volto. Mi sospinse di nuovo, senza toccarmi, conducendomi verso un angusto
salotto dal lieve odore di incenso (non c’era fumo visibile, ma sembrava aleggiasse una nebbia
trasparente che faceva da barriera per movimenti e sensi). Un orologio ticchettava affannoso, un
fiatone di lancette e pendolo costretti a correre da troppo tempo, mentre di tanto in tanto anche dal
lampadario di serpentine contrite, simile a un ragno morto, la fioca lampadina giallognola mandava
dei battiti contrariati. Nell’alone nebuloso della sua luce soltanto le ombre sembravano nitide,
distraevano, enormi com’erano nel contrapporsi a quelle pareti basse e strette. Insisteva in grugniti
un uomo conficcato caparbiamente in una poltrona rosa carne, mentre andavo a prender posto su di
un’altra uguale, a lui frontale. Gertrude si allontanò velocemente, andandosi a dileguare dietro la
visuale per i corridoi tenebrosi celati da quella greve stanza, desiderosa di sparire. Ora eravamo solo
noi due, io e il dottore. Mi osservava per un po’, si sarebbe detto con odio, poi distoglieva lo
sguardo (“bah!”), poi di nuovo a fissarmi con occhi a fessura. Lo studiavo di rimando, un poin
imbarazzo. Era un uomo grasso, dai polsi spessi, al culmine ultimo dei quaranta. Doveva essere alto
attorno al metro e settantacinque, una statura che unita alla forma a giara del corpo faceva
immaginare un andatura arrancata e scostante; c’era però un che di scattante, sgradevole, come uno
scarafaggio carnoso che impressioni per la sua rapidità in contrasto con la stazza. Portava scarpe
lucide di pelle nera, piantate nel tappeto dai viticci barocchi come basi di rigidi colonne, le gambe
coniche ricoperte da velluto blu scuro. Sotto una giacca nera a doppio petto si alzava e abbassava
estensivamente una pancia gonfia e rotonda, gracidante, pronta a esplodere veleni difensivi al primo
movimento inconsulto. Dalla sommità del petto faceva capolino il nodo di una cravatta dello stesso
colore dei pantaloni, in parte sovrastata da una pappagorgia sudata (la testa tenuta leggermente
china nascondeva il collo). Sulla carnagione chiara spiccava un pizzetto circolare attorno a mento e
bocca, nero come la capigliatura a ciuffi. Arrivato al volto, si accorse che lo stavo esaminando tutto,
gli occhi luccicanti disprezzo. Avevano qualcosa di orientale o faraonico, forse in ciglia lunghe che
serravano i bulbi in una mandorlina tendata. Un fremito della bocca mi avvertiva che gli sarebbe
piaciuto sputare. Batté le dita corte sui braccioli a riassestare la sua posizione e diede un colpo di
spalla all’aria come un bestione infastidito, dalla muscolatura rigida e scricchiolante. Mi sembrava
arrivato il momento di iniziare.
-volvevo incontrare Lei, Dottor D’Andrea.
Un buon inizio. Sentii che c’era da dare per scontato chi fosse, era meglio non chiedere conferma.
-ah, è così? A me, volevi vedere!-, fece con voce smorfiosa, un irritante sorriso ironico. La parlata
era piuttosto squillante, c’erano qua e là rimasugli di un accento da famiglia di “immigratinordici,
forse romagnoli. Oltre lo schienale della sua poltrona una libreria incastonata a forza nella parete,
ricolma sul punto di scoppiare, mostrava i dorsi sfibrati di volumoni dall’aria prepotente, che
sembrava volessero imporsi contro l’umiltà della sala. Per prender tempo mi voltai a vedere cosa
c’era intorno alla mia postazione: un vecchio televisore staccato, senza fili né niente, solitario sopra
le gambe d’un mobile scheletrico. Alla sinistra avevo una parete ornata da massicce tende viola
tenute insieme da un cordoncino, laddove ci si sarebbe aspettata una finestra. Qual era il loro scopo?
Lasciai perdere e sfruttai questa breve pausa per riappropriarmi di una parvenza di disinvoltura, così
da riprendere.
-sì, proprio Lei. È piuttosto conosciuto tra i miei colleghi, e rispettato, si direbbe.- iniziai ad
armeggiare con la cartellina, in cerca del dossier (è vero, potremmo tenere tutto su un file, ma
quando abbiamo a che fare con le persone in carne e ossa è nostra politica quella di servirci delle
stampe, così da tenere qualcosa sotto il controllo di mani e occhi).
-…rispettato ma, mi è parso di constatare tra i suoi concittadini, non molto benvoluto.
-ah! La cosa è reciproca.- fece con aria trionfante. Avevo stimolato un tasto giusto, si era animato e
prestava maggiore attenzione, meno disdegnoso delle mie parole.
-e perché, secondo Lei? Se posso chiedere.
-quelli là…- e si sporse, come a parlarmi più da vicino -non sono altro che degli zotici pieni di
invidia.
“Come mi aspettavo”, pensai, “ed è ora il momento giusto per introdurre l’argomento del motivo di
questa invidia”. Diedi un’occhiata al dossier. Dunque, non era ingegnere, ma non c’era scritto quale
fosse la sua scienza. Esperto in termodinamica, fluidodinamica, chimica inorganica, geologia,
calcolo delle probabilità, un sacco di altre cose… ma risaltava un passaggio sottolineato più volte a
penna: “sorprendente competenza nei campi dell’automatica e dell’intelligenza artificiale”. Pensai
che fosse sorprendente davvero, un luminare di simile sapienza in un paese del genere, in una casa
del genere. Non riuscii a reprimere un fischio sorpreso, cosa che sembrò infastidirlo. Nuovamente
mi osservava torvo, era impossibile accattivarsene l’umore per un periodo significativo.
-mi scusi. È che leggevo qui, sui miei appunti, delle sue abilità. È impressionante.
-tante grazie, non ho bisogno dei suoi complimenti.
-si vede che non ne riceve molti.-, risposi con una certa insolenza, celando sconforto. Mi stava
salendo lentamente una volontà di non farmi trattare da sciocco, di non lasciare che un
temperamento che si comprendeva essere infantilmente acido fosse d’impaccio al mio lavoro.
-ma insomma, chi diavolo è Lei?- sbottò, questa volta guardando il foglio che avevo in mano, come
inquisitorio verso un odioso orpello che aveva la strafottenza di metterlo a nudo, in mano a uno
sconosciuto altrettanto strafottente per essere venuto fin lì.
-maledetta Gertrude, maledetta! E non far finta di non sentirmi da dentro i cunicoli, vecchiaccia,
topo di fogna!- si agitava sulla poltrona, volgendosi per quanto concesso dalla corporatura in
direzione dei corridoi. -ancora a spolverare quelle squallide fotografie, eh? E già che ci sei perché
non cambi pure il vetro?
Capii che D’Andrea e Gertrude si intrattenevano più volte al giorno in simili scambi unilaterali.
Non commentai la cosa, facevo gli affari miei.
-lavoro per l’azienda ***, svolgo indagini di mercato sull’utilizzo di tecnologie e comunicazioni.
Tra i miei compiti rientra anche quello di intervistare individui come Lei, esperti in determinati
settori, che…
-va bene va bene va bene, la smetta, non mi interessa.- fece in un solo fiato irritato, agitando la
mano circolare. Al di là del disprezzo che tributavano alla sua persona, non era stato uno scetticismo
diverso da quello dei compaesani nei confronti del mio operato. Ce l’avevano con l’azienda, per
qualche motivo? Era francamente strano pensare che ne avessero mai sentito parlare. Non volevo
credere che si trattasse banalmente di uno di quei tanti paesi in cui basta pronunciare espressioni
come “tecnologie e comunicazioniper attirarsi diffidenza e sdegno, e d’altronde non mi sembrava
che fosse questa la spiegazione, non essendo nell’aspetto un posto troppo arretrato: vantava cose
antiche, certo, ma non al punto da lasciarsi totalmente assorbire dai ruderi e gli ectoplasmi della sua
storia. Insomma, tutt’altra cosa che uno di quei borghetti arroccati quasi del tutto abbandonati, e a
contraddire le smorfie mostrate al suono di quelle parole già bastavano un piccolo negozio Apple in
centro, di fianco alla telefonia mobile, un supermercato, o anche solo una coloratissima insegna coi
vari gusti di gelato fuori da un bar. Il colmo era ritrovare un rifiuto simile in qualcuno come quel
professore, quello scienziato. Forse si assomigliavano un potutti, i sanpeuceziani? Mi rivenne in
mente una persona, tra le tante che avevo provato a intervistare invano, quella che aveva avuto la
reazione in assoluto più concitata. Avevo incontrato la donna, sulla sessantina, dai capelli di un bel
fulvo focoso, fuori da un alimentari con una busta di seta piena di spesa, sorridente. Inutile ribadire
il cambiamento. Ma non si limitò ad adombrarsi come tutti, aggiunse che D’Andrea “ha fatto una…
cosa, quello là, una delle sue ne ha inventate, che finché ci stanno ancora i santi lassù in cielo non
gli si può perdonare!”, ed era scappata via esageratamente, la voce inacutita e forte, con la busta che
oscillava impicciandosi in maniera comica coi passetti frettolosi. Iniziava a sembrarmi gente d’un
film, una commedia un posurreale, montava la suspense verso il personaggio-incognita e perno
dell’intreccio, uno in cui forse si riproponevano a modo suo i comportamenti di tutti gli altri. Ma
volevo capire se la percezione m’aveva ingannato, se potesse in fondo trattarsi nel suo caso di
qualcosa di diverso.
-non ha simpatia per la nostra azienda?-, chiesi. Feci caso in quel momento al cattivo stato della sua
pelle, in diverse parti del viso era arida, come ripresa a stento da un’antica bruciatura. Ebbi la
spiacevole sensazione che si fosse procurato la secchezza da solo, come se spinto da una macabra
pulsione per la pelle morta, una gioia nell’estetica della screpolatura.
-ma che ne so, non me ne intendo. Insomma, che vuole da me, per disturbarmi a quest’ora di sera?
-oh, l’ho disturbata? Mi dispiace, non era mia intenzione. E che stava facendo?
Mi guardai attorno, come cercando qualcosa che giustificasse un’attività interrotta. Sul tavolinetto
frapposto tra noi non c’era neanche una tazza da tè, i libri erano tutti al loro posto negli scaffali, le
pieghe indolenzite della poltrona rivelavano che stavano sorreggendo quel peso da ore… dovette
cogliere qualche traccia di sfida nel mio tono di voce e, forse, non posso negare con certezza che
fosse presente; sul momento non me ne resi conto. Il naso corto sussultò un fremito porcino nel dar
fiato a una risatina maleducata, si sporse di nuovo a sventolare la grossa faccia aggrottata in
un’espressione come di bambino che moduli vocette insopportabili nel fare il verso a qualcuno.
-ebbene, stavo pensando, se ci tiene a saperlo!
-pensava?
-già, pensavo, pensavo! E allora? Non è usanza, alla grande città? Si capisce, altrimenti non gli
salterebbe al cervello di mandare gente in giro a bussare alle case, per far stupide domande.
-ma in verità, io non ho bussato…
-l’ha fatto, e senza ritegno alcuno, bloccando già allora il mio pensiero. Debbo farlo ogni sera, sulla
poltrona che è il mio unico piacere, ma no, non è concesso, c’è una congiura in atto da tutte le parti
contro i cervelli ben assestati. È vero, Gertrude? Già, fai le tue faccende laggiù, così che non possa
sentire il tuo stupido ciabattare per casa. Questa casa, coi suoi sozzi fantasmi…
Ci fu un impercettibile ticchettio lontano, come da una porticina solitaria in fondo a un corridoio
buio. Un rumore timido e senza forza, un singhiozzo privato di suono. L’ultima frase del professore
sembrava come un’allusione. Che stava facendo Gertrude? Intanto pensavo alla mia stasi di fronte
alla casa. C’ero dentro, adesso, quell’invisibile nebbione lugubre era rimasto fuori a cingere le mura
come tra grinfie di folletto. Anche all’interno una nebbia invisibile, rendeva l’inspirazione
affannosa… ero davvero entrato? O si trattava forse di un’illusione, l’inganno di una bestia magica?
Il colle era tornato alla sua originaria foresta, i mostri guardiani mi ipnotizzavano con ologrammi di
case, strade, un salotto. In un simile trabocchetto, non dovevo finire col perdere consapevolezza dei
miei stessi gesti. Davvero avevo bussato? Ero convinto che là fuori, a parte il televisore della
vecchia coppia, non ci fosse nulla a smuovere una particella d’aria.
-tch! È solo per quanto mi piace… voglio dire, per quanto è funzionale questa poltrona, che non vi
ho già cacciato tutti e due fuori a calci. Uno si ritrova con la rara fortuna di una cosa che funziona
per bene, in mezzo a tanta follia, se la tiene stretta.
-sembra che la follia non la veda solo nei suoi vicini di casa, gli “zotici”.
-sarò libero di vedercela dove mi va a genio.
-anch’io le sembro folle, o è solo la mia pretesa di intervistarla a esserlo?
-non ho chiacchiere inutili, io, che si possano spartire con qualche professorucolo o analista della
metropoli, che mi vede come una gemma avvolta dai ciottoli senza valore del paesino. Ah! È troppo
tardi ormai per accorgersene! Chi non capisce la mia arte sta bene dove sta.
“La mia arte”. Erano parole d’astio da tipico professore allontanato dagli ambienti accademici,
pieno di risentimento, vendicativo. Era normale che proseguissi su questa pista. “Tombola”, mi
dicevo, mentre riportavo gli occhi a scorrere tra le righe del dossier, in cerca di domande, curioso (a
questo punto quasi non c’entrava il lavoro) di indagare in quale punto avesse messo in disaccordo i
“follisia di paese che di città. “Ne ha inventata una delle sue”, aveva detto la signora. Cresceva
l’irritazione di D’Andrea nel vedermi leggere.
-ma insomma! Perché non mi lascia in pace? Che cos’ha Lei da chiedere a uno come me?
-ah, non saprei. La sua prospettiva sui progressi della robotica, forse?-, tentai. Doveva essere “la sua
arte”.
Sbiancò, per una frazione di secondo. Fece un buffo movimento di torso, come uno starnuto in
silenzio.
-come?? Che cosa ha detto??
-mah, niente. È solo che mi sembrava potesse essere un suo interesse, a giudicare da qui-, e mi
portai il foglio ben davanti alla faccia, D’Andrea reprimendo a stento una bestemmia -perché vede,
si parla di intelligenza artificiale, di automatica, e
Fu il mio turno di impallidire. Non so dire, se fosse stato un bene non aver letto tutto il dossier in
anticipo, ma quella parola, scritta lì, l’unica nella sua riga, cerchiata a penna, col suo suono antico e
tombale, occulto… quella parola per un breve e spiacevole momento ebbe pieno controllo del mio
senno, lo aveva intrappolato in una morsa e trasportato via in volo verso terribili reami di fiabe
macabre. La foresta maledetta, gli incantamenti che ricoprivano questo monte, la ragione tartassata
da fatture! È proprio una cosa vera, il crescere della soggezione in quel luogo. Ma qualcosa, un
aiuto mi era stato lasciato, una traccia che mi conducesse verso il sentiero che esce dalla selva.
Guardai con più attenzione, con un istinto speranzoso:
GOLEM
Era sepolta, dissimulata, sotto cascate di informazioni da preambolo. Anche il collega che aveva
redatto il file si rendeva conto che posizionarla in questo modo significava accentuarne il brivido.
Ma era stata cerchiata davvero, con la penna. Dovevo seguire il tratto, familiare, il riconoscibile
inchiostro di un capufficio, per cavarmi fuori dalla paura. Lì c’era stata una persona conosciuta,
viva, che leggendo la stampata aveva deciso di apporre dei segni, certo che sarei stato in grado di
interpretarli. “Non farti trascinare dalle forze ignote che stanno in agguato qui dentro”, diceva. È
solo una parola che esprime un concetto, che possiede una spiegazione. Il tratto si gettava fuori
dalla cerchiatura, proseguendo in linee sovrapposte verso uno spazio oltre il colonnato
dell’impaginazione. Era una freccia, con la punta rivolta a una piccola annotazione scritta nello
stampatello svogliato di chi ha poco tempo: “chiedere assolutamente”. Adesso era tutto chiaro,
riacquisivo il colorito. Gente d’alta quota, timorosa di giganti e geni, aveva disdegnato l’uomo con
la sua “artespaventosa (un’invenzione delle sue…). L’ambiente universitario doveva allo stesso
modo averlo allontanato, reputando i suoi risultati pericolosi o, chissà, reazionari. E ora lo tenevano
tutti a distanza, lasciando accumulare attorno alla sua casa un fitto strato di emanazioni sinistre,
come se il golem fosse nascosto fisicamente in quel luogo… era ovvio, certo! “Chiedere
assolutamente”, questo il significato della mia visita, la sua creazione deve effettivamente trovarsi
qui, da qualche parte, in questa casetta minuta! Scompare dalla mia mente la foresta, sgusciano
fuori i demoni. Ora c’è spazio per una cosa soltanto: la carta reca un ordine, un comando, quello di
chiedere assolutamente, e a proposito di una cosa ben precisa. Ciò che sta scritto, io devo eseguirlo.
Sento scorrermi dentro una maggiore sicurezza.
-che c’è?? Dammi qua!!-, ruggì D’Andrea tra frenetici gesti goffi di palmi aperti nell’aria per
afferrare il foglio senza efficacia, rifiutandosi come faceva di alzarsi dalla poltrona.
-questo? Non se ne deve preoccupare, è tutto sotto controllo.
-maledetto!! Esca da questa casa!
-e perché non lo ha gridato subito a Gertrude, con la stessa intensità di adesso? Era curioso, forse, di
parlare con me.
-ah! HAH!-, sbottò ironico il suono più forte che avesse prodotto, le grigie pareti mandarono un’eco
da perforare i timpani. -e come no! Curioso di discutere di robotica, con uno sbarbatello amorfo
rimasto alle tabelline, uno scimpanzé da statistica! E magari adesso facciamo venire qua quella
analfabeta di Gertrude per dibattere di critica hegeliana!
-se vuole parliamo di un argomento più specifico.-, mormorai allusivo.
Per un porimanemmo in silenzio. Già, c’era un orologio in quella sala, un pendolo fiacco
all’ingresso, tic tac tic tac. Me n’ero dimenticato. Il Dottor D’Andrea, da sporto che era, si ritrasse
dentro la poltrona, accavallando una gamba sull’altra, poi invertendo quella d’appoggio. Le unghie
mangiucchiate sulle dita roteanti affondavano nel bracciolo.
-mph. Già, e chissà qual è questo argomento, signor “indagine di mercato”. Non c’è niente di niente
che faccia al caso suo o della sua porca azienda, dentro questa casa. Questa casa puzzolente, eh,
Gertrude!!
“Sa dove voglio arrivare”, pensai. Ciononostante dovevo arrivarci gradualmente, dovevo farlo
parlare, allungare la manfrina. Confesso che a quel punto fui animato da una certa malizia,
consapevole che indurlo a esporsi equivaleva a tartassarlo subdolamente.
-non lo escluderei subito. Del resto, se fosse davvero come dice Lei, allora non avrebbe nemmeno
fatto in modo che la trovassimo, che arrivassi al cancello di casa sua.
-ancora che insiste?! Io l’avrei fatta venire qui?! Questo è troppo, ora la smetta o…
-forse non mi ha fatto venire qui personalmente, ma le dispiace meno di quanto vorrebbe far
intendere. Vero, Dottor D’Andrea?
-e suppongo che un tipo come Lei, tanto acuto con quei suoi ridicoli occhiali dalla montatura troppo
spessa, sappia argomentare interessanti punti a favore di questa sua brillante tesi.
Presi il cellulare, ricordandomi all’improvviso che mi ero accordato con una collega per aggiornarci
in tarda serata. Molto tempo doveva essere passato inavvertito, sarà stato l’effetto obnubilante della
cappa dall’odore di incenso, trucchi oppiacei da brucaliffo. “Ci hai parlato?”, chiedeva
sull’anteprima. Stavo per rispondere quando ho notato l’espressione di D’Andrea, una specie di
diabolico sorrisetto trionfante. Contrariamente ad altri miei gesti che lo avevano innervosito, come
si fosse sentito mancato di rispetto, aveva interpretato quest’ultimo come un mio modo di
svignarmela dalla sua domanda pungente, una mossuccia dettata da disagio e imbarazzo. Mandai
ripetute occhiate da giù in su, dal cellulare alla faccia che mi galleggiava davanti, e sentii un
pungolo sotto al torace che mi spronava inspiegabilmente a modificare i miei modi. C’era forse una
recondita derisione rivolta al tema della cover del cellulare intravedibile tra le mie dita, il disegno
centrale di un mammifero arancione con le gote gialle, dalla coda lunga che culmina a saetta -
un’insegna videoludica. Lo misi in tasca, per il momento.
-beh, Dottor D’Andrea, non serve essere brillanti, basta conoscere l’umanità.
-me ne frego!
-Lei, come molti della sua specie, è un uomo appesantito dall’ego, un bestione d’ego come un
dinosauro cornuto. E detesta sentire quell’espressione, “quelli della sua specie”. Deve essere
necessariamente orgoglioso. Lo è, non lo neghi, se è riuscito a fare in modo che non venissimo a
conoscenza del suo indirizzo pur lasciando che si diffondessero informazioni così precise sulle sue
capacità e conoscenze. Le informazioni passano e brulicano se si vuole che passino, e Lei lo sa
bene. Sa quanto è facile.
Dopo uno strascicato mugolio idiota, D’Andrea rise sul serio, per la prima volta, dall’inizio della
serata. Una risata di petto, lunga e ricca di miscugli vocalici.
-hahohahohehahoh… informazioni, dice Lei! Hah hah hah… mi ascolti, parassita: sono sicuro che
comprenderà bene.
Trasse da una taschino della giacca, -che sembrava piuttosto una fessura tagliata a forza con un
coltello- un foglio di carta spiegazzato e una vecchia penna stilografica, e si mise a scribacchiare
qualcosa con aria compiaciuta.
-mettere in giro informazioni: a che pro? Le informazioni hanno valore solo e soltanto quando
possono farti ottenere qualcosa. In tutti gli altri casi, è impossibile affermare che esistano.
Strappò la striscia del foglio su cui aveva scritto e la piegò molte volte, fino a farne una piccola e
spessa pallottola. Mi risparmiai dal chiedergli cosa stesse facendo, domanda che avrebbe senz’altro
prodotto uno scontato, stereotipico “si faccia gli affari propri”. Gli si era fermato in volto un
sorrisetto che increspava la pelle ruvida in mezzo al pizzetto.
-ho due domande-, chiesi dopo un po’, colto da improvvisa ispirazione.
-certo, per la sua intervista.
-quella? No, no, non arreco tanto disturbo. Mere curiosità personali.
-oh, allora fa bene a chiedere, la curiosità è una cosa buona. Peccato non avere la testa per contenere
la conoscenza. E, per fare un triste ma dovuto tributo a quella sublime disciplina della robotica di
cui mi chiedeva, c’è da dire che non sempre è possibile mettere mano ai circuiti e sperare che
l’automa s’aggiusti.
-bene. Ha finito?
-chieda, chieda.
-esiste qualcuno a questo mondo che Lei non disprezzi, a parte se stesso? Che so, una vecchia
fiamma, una povera madre…
Un’altra volta esplose una risata, sregolata, ostentata. Tamburellandomi la cover del Galaxy in
tasca, pensai che fosse proprio un individuo banale. Per forza, doveva entrarci la madre con tutto
questo, con la miseria emanata tutt’intorno a quell’uomo.
-hey, Gertrude! Gertrude, vieni qua, sbrigati! È inutile, non la incolli quella crepa!
Aspettammo l’arrivo di Gertrude. Rammentai di nuovo il pendolo, mentre il professore sembrava
divertirsi a calcolare quando sarebbe comparsa la donna in base alla frequenza dei passetti
borbottanti dietro le pareti, una camminata di umiltà patetica.
-deve sapere che ne ho combinate anch’io, da ragazzo. La povera Gertrude non s’è mai ripresa dallo
sgarro che impressi con la fionda sulla foto della mia prima comunione. Dopo decenni ancora ci si
ferma davanti, a contemplarla con quella sua apprensione cretina. Gliela mostro dopo, se vuole, è
certamente la cosa più interessante che possa farle vedere in casa: due spaccature perfette, di
impeccabili geometrie concentriche che mandano riflessi cristallini, una proprio in faccia al prete, e
l’altra su quell’insipida ostia tesa davanti alla mia bocca spalancata.
Per essere un misantropo quasi recluso, aveva una certa disposizione verso le chiacchiere sui fatti
propri, pensai, o forse nelle acque inquinate dei suoi ricordi burberi non potevano che riaffiorare
sempre le stesse pochissime cose che erano state capaci di toccarlo. A immaginarmi gli altri circuiti
di quella mente brillante, li vedevo anneriti, sfrigolanti di puzza bruciata. In quel momento entrò
Gertrude, una lievissima sfumatura d’odio, pareva, a modificare appena la solita espressione di
agonia perenne. Nel vederla comparire, D’Andrea sfoggiò un ghigno perfido, sadico.
-allora, Gertrude, vecchia carcassa! Hai finito per questa sera di adorare le chincaglierie della tua
matrona morta stecchita? La tua innamorata, devo dire, lurida lesbica!
Gertrude inspirò svenevole, ben oltre la capacità dei suoi polmoni rimpiccioliti. Gli occhi fattisi più
grandi del solito non esprimevano altro che paralisi di dolore, una dimenticanza della risorsa della
fuga.
-te le baci pure di notte, scommetto, perché sei una feticista, una sporca, perversa… neanche sai che
vuol dire, è inutile che annaspi! Ti fanno paura queste parole, vero? E il tuo feticcio, la puttana di
mia madre…
La povera donnina risucchiò squittendo un malloppo d’aria per scacciare un grumo di vuoto dal
petto, quel fischio inconfondibile che so ben riconoscere come il principio di un attacco di panico.
Mi alzai dalla poltrona per andarle incontro.
-e che pulisci a fare questa casaccia orribile? Tanto non se ne andrà mai la sua puzza! Forse è per
questo che ti piace, vero? Pensa, neanche il mio genio è sufficiente a coprirla, cotanta lordura
-D’Andrea, la smetta.-, cercavo di accarezzare la schiena di Gertrude, ma mi sembrava distante,
sola in un dolore suo. Mi sentivo distante anch’io? Qualcosa intoppa la memoria di quei momenti.
Ricordo che le cose mi sembravano accelerate, forse contagiato per riflesso dalle memorie
sensoriali dei miei vecchi attacchi di panico, momentaneamente tornato agli anni della mia
formazione con le loro vertigini tumultuose… non riuscivo a reagire in tempo agli ultimi eventi che
mi sembravano aver preso una fretta maggiore, avevo perso un poil filo di cosa facevo e cercavo là
dentro… ormai l’interno del mio corpo era come la stanza, piena di cappa d’incenso aspirata dentro.
-non faccia l’altruista, Lei, sarebbe alquanto fastidioso. Chissà, magari cambio idea sul mostrarle
una certa cosa.
Sentii un’ondata calda dietro le orecchie. Dopo un po’, la mancanza di finestre cominciava davvero
a pesare. L’aria asfissiante aveva certamente contribuito all’alterazione del mio stato, oltre che di
quello di Gertrude. Potei guardarla meglio, avendo riacquisito un podi fermezza: si era calmata
anche lei. Il torace mingherlino continuava a palpitare, i polsi le tremavano nel massaggiarsi il
petto, la boccuccia secca traballava a pesce, ma il rischio dell’attacco di panico sembrava
scongiurato. Probabilmente sapeva come gestire queste cose, ma mi chiedo per quanto possa
resistere a lungo in questo modo un’anziana della sua età. Volevo assisterla, ma… non so.
Camminando piano mi mantenevo voltato all’indietro, come a dirle il “tutto bene?che non mi
usciva, bloccato da un muro invisibile tra denti e labbra insieme ad altre parole di conforto. Tornai a
sedermi davanti al professore, recuperavo il senso dell’obiettivo che mi ero posto. C’era qualcosa da
vedere lì.
-allora, ci siamo divertiti. Io almeno, e sotto sotto anche la Gertrude. Solo Lei pare un poturbato.
Non si sarà mica dimenticato della sua seconda domanda? Io la aspetto.
-la ricordo. È nel garage che lo tiene, vero?- tagliai corto.
-tengo cosa, di grazia?-, fece con aria innocente. Aveva ancora voglia di giocare. Come i
compaesani si adombravano repentinamente, mi sembrava che anche lui fosse andato incontro a un
cambiamento radicale. Dall’iniziale stizza era passato alle continue malizie di un bulletto sicuro di
sé.
-capirà che non mi riferisco alla foto incorniciata della sua prima comunione.
-è un vero peccato.
-deve essere un tipo nostalgico, Dottore.
-solo di questa poltrona. Pensi, che riesce a tenermi in questo buco di merda. La sua è comoda?
-è così pieno di risentimento che mi sembra un bambino.
-e Lei forse vuole che la conduca al più vicino specchio, così che possa indirizzare al reale
destinatario questa sua psicologia spiccia che piace tanto a voi giovani occhialuti.
Parlò d’un fiato, ormai superbo come un leone. Ebbi il timore che fosse trapelato qualcosa del mio
lieve giramento di testa, forse un vago ritorno di quel vecchio giallore di pelle che mi valse tanti
nomignoli, anni fa.
-che maniere! Viene a farmi un’intervista e poi non è disposto a rispondere di sua volta alle
domande di cortesia. È Lei, nonsocomesichiama, a esser pieno di risentimento. Non so se per sua
mamma, sua nonna, la sua insulsa faccia o il suo lavoro che la tartassa -le vedo vibrare il suo pezzo
di plastica cinese in tasca, a proposito, risponda con comodo. Risentimento a me, bambino a me! Si
vergogni: mi è bastata questa sera per farmi odiare da Lei, per molestare le budella molli del suo
fiacco sentimentalismo, lo stesso di tutti quanti. E sa cosa ho fatto per riuscirci? Niente!
Assolutamente niente! Voi sciocchi non fate altro che servirvi da soli, apposta per farvi prendere in
giro, tutti così suscettibili.
Accolsi il suggerimento, questa volta purtroppo per distrarmi da un reale disagio. Cosa stava
succedendo? Mentii a me stesso dicendomi che al di là di ogni interpretazione su chi impugnasse il
favore della situazione, controllare le notifiche in cerca di comunicazioni importanti dell’azienda
era una cosa che andava fatta. Quello che D’Andrea mi rivolgeva dall’altra parte del tavolino era
adesso il suo vero sorriso, uno spicchio di luna in mezzo a guance grottescamente arrossate, sotto
stralci striminziti di occhietti perfidi. “È un colloquio difficile, ma mi parlerà di quella cosa”, tasto
invio, due spunte; è facile mentire con la punta d’un polpastrello, doloroso sperare che la bugia si
avveri quando la si sente come un dovere insindacabile, ed è fonte di una strana emicrania fare tutto
questo al centro di vibrazioni d’ironia velenosa. Credevo che quegli occhi, quei pungiglioni
sondassero in blocco la cover del mio cellulare, i miei occhiali, il bracciale blu del Meyer di
Firenze, il riccio più lungo che mi calava sulla fronte: come se vedesse un collegamento tra tutte
queste cose nella ridicolaggine e l’insulso (mi auguro ancora di essermi in quel momento sbagliato
sulla suggestione di un tic nervoso a lato della mia bocca). Come stimolato da barbarica gioia alla
prospettiva di “sconfiggermi”, fu in un baleno ispirato da un impeto tale da indurlo a uno sforzo
muscolare notevole per la sua persona in profonda simbiosi con la poltrona: con lancio furbesco
spedì veloce contro Gertrude, rimasta in piedi ad ansimare sulla porta aperta, la palletta di carta che
aveva fatto prima, quella su cui aveva scritto (qui stavano i riflessi latenti a cui ho accennato). La
povera vecchia sussultò, risvegliata di soprassalto dal proprio incubo luttuoso, e subito scattò in una
moltitudine spontanea di gesti curiosamente ritmici, ben precisi, ritualizzati. Era ancora altrove,
sebbene più calma, ma l’ennesima violenza del professore l’aveva costretta a passare in fretta verso
un punto intermedio tra se stessa e il mondo, dove a tenerla a galla erano proprio quei perpetui
rimescolii di braccia e dita, danze di piedi, imitazioni manuali e scongiuri mormorati. D’Andrea rise
rumorosamente, colmo di soddisfazione.
-guardala, guardala! La tipica scaramanzia di San Peucezio, il massimo per i turisti!
Notai che mentre scemavano i movimenti più pittoreschi e lentamente si chinava a raccogliere e
spiegare il foglietto, ancora battevano ritmicamente i piedi afoni sul parquet, teneri e innocenti sotto
le venose caviglie visibili fuori dall’ultimo lembo del vestito. Leggendo, ancora formulava in
silenzio la minuscola bocca. Andò in un’altra stanza, rituffandosi nel buio che più spesso abitava.
-non c’è rimedio alla superstizione che infonde questa gente semplice e bigotta: questo paese sorge
su un colle abitato sin dal neolitico da popolazioni indigene pre-latine dedite a fuochi notturni in
onore di spettri e combattimenti sacrificali. Roba del genere ha sempre pullulato come peste in tutte
le ombre dei boschi di qua, e la gente ci ha sempre vissuto a contatto. Poi si sono inventati la fede
cristiana e questa fama dell’operosità per farci un’ascia bipenne da usare contro l’ignoto,
rinnegando di aver trangugiato secoli di melma negromantica. Qui fede e sveltezza di mani sono
esattamente la stessa cosa, nient’altro che tarocchi irrazionali per schermarsi dall’irrazionale. Ed
eccoti la triste Gertrude: pratica queste mosse cattoliche di periferia, con le mani appiccicose di
sudore da fabbri e totale ignoranza di quanta eredità pagana, blasfema, si annidi in ogni gesto, suo e
di tutte le care signore devote che impestano le case di rosari.
Gertrude ritornò con due bicchieri di limoncello, fecero un cozzo soffocato sul tavolino basso.
D’Andrea, non certo per un moto d’educazione, aveva scritto sul foglietto che l’ospite (io, cioè)
desiderava da bere, e quella non aveva fatto storie, eseguendo come scritto. Era un’altra sua
dimostrazione, un altro proseguimento di quella fase della serata in cui s’era accorto di averci preso
gusto. Come il breve excursus storico. L’indomani mattina, dopo una nottata inquieta in albergo,
vidi scorrermi di là dai finestrini dell’autobus che scendeva dai boschi verso le paludi bonificate le
immagini di guerrieri vestiti di cervo, indaffarati tra scie di sangue e teschi da spargere tra quei
territori dove oggi sorgono le industrie, ciminiere torreggianti sul suolo acquitrinoso.
-ecco a che servono, la devozione e l’operosità- fece D’Andrea con un cenno del capo, odorando nel
calice di limoncello -l’industriosa prontezza di San Peucezio che porta subito la bevanda in tavola.
Gertrude, come Lei, mi detesta. Ma proprio come quell’odio la consuma, è incancrenita da tutti gli
altri generi di fanatismi, che la costringono a ciò che non vorrebbe fare. Credulona, sentimentale: la
Madonna e la mia stupida madre morta sono la stessa cosa nella sua testa. Perciò per quanto mi
detesti non riuscirà mai a disobbedirmi. Posso scriverle quello che voglio anche su un pezzetto di
carta, così, e per umiliante che possa essere non lo troverà mai insopportabile quanto il mancare di
rispetto al figlio della sua povera santa matrona, quella che non esitò a chiederle di cambiarmi tutti i
pannolini. Non obbedirmi è per lei come bestemmiare.
Ero stanco. Ma non volevo dargliela vinta, non fosse altro che per non dargli la soddisfazione di
averci preso a considerarmi uno stupido e inutile a partire dal mio aspetto, dalla mia età, la mia
professione, quelle cose visibili che quell’uomo di sconfinata superficialità usava come appigli per
esercitare una prepotenza sfogata solo su una vecchia moribonda e indifesa, a quanto pare
insufficiente. Per quanto sfuggisse era un sanpeuceziano: c’era il modo di far scattare in lui
l’operosità e la devozione che prendeva in giro, così da ottenere per me che egli facesse qualcosa, si
mettesse in moto per un mio obiettivo. Come Gertrude eseguiva un ordine, come una signora con la
spesa in borsa gridava e fuggiva al nome “D’Andrea(provai un breve spasmo d’odio per la gente
del posto). La sua fede era se stesso, la sua devozione era l’orgoglio: su questo dovevo far leva, con
le ultime forze rimaste.
-sta da tempo evitando la mia domanda- provai. Diedi un colpo di tosse e poi proseguii, nella voce i
residui di un attacco di mal di gola represso -forse ha paura che dopo queste sue brillanti
dimostrazioni, ciò che il suo genio ha progettato non possa invece rivelarsi all’altezza. Tante
chiacchiere, insomma.
Non ero per niente convinto, ma era abbastanza stupido, a modo suo, da imporsi di non ignorare la
provocazione.
-e che problema c’è?- fece fintamente concitato, imitando la comunicazione umana -la porto a
vedere le mie invenzioni. Come ha detto, sono nel garage. Mi segua.
A un impropero del professore tornò Gertrude a portarmi la giacca. Mentre mi alzavo dalla poltrona
il pendolo aveva cambiato vocali: clack, clack, all’infinito. Era patetico, quasi imperdonabile, essere
arrivati a farsi condurre al garage dopo essersi persi in tanti discorsi inutili. Certo, ormai avrei avuto
ciò che mi era stato ordinato di ottenere, ma contrariamente a quello che mi aspettavo e volevo, per
il gusto di averci indovinato, mi sembrava non fosse stata la semplice vanità a indurgli le ultime
parole, la concessione che mi serviva: piuttosto, un contentino che si può anche concedere a un
fesso, dopo una serata in cui si è ormai nella sicurezza di aver raggiunto il massimo compiacimento
possibile. Una sensazione amara come di rimpianto permaneva dentro me, spina in circolo.
-ah, senta. Ora che sta per andarsene, vorrà forse sapere come mi sono accorto che lei era qua fuori.-
disse beffardo, mentre raccoglieva la voglia di lasciare la poltrona.
-non ha importanza.
-oh, invece sì.
Lo disse in modo strano. Per la prima volta da quando ero entrato sentivo di essermi infiltrato in una
tana, tutta tunnel e terriccio freddo pieno di vermi. Avrei dovuto accorgermene subito: questo
dicevano i rumori dell’orologio, la cappa, Gertrude, le tende chiuse senza finestra, la tv inutile.
Tutto ribadiva il messaggio non detto dall’occupante seduto in fondo alla galleria principale:
nessuno può entrare qui. Mi aveva fissato con espressione dura, abbandonati anche i sorrisi falsi o
diabolici, e ci fu la netta impressione che con quello sguardo mi trascinasse verso un’impossibile
zoomata sulla sua faccia, con atterraggio disastroso su pochi peletti atri in mezzo alle sopracciglia.
Un brivido gelido e sudato mi agitò la colonna vertebrale.
-la sentivo respirare. Mentre era fermo, là fuori, che studiava la situazione. Come uno che crede di
saper studiare, ma purtroppo respira anche Lei. Respirate, respirate tutti, in continuazione, siete di
un fastidioso che fa perdere la pazienza anche al metallo. Respirate, con quelle narici, quei tubicini
caldi nel vostro nasaccio sudicio… è disgustoso.
Forse era disgustoso davvero.
Ci eravamo lasciati alle spalle la sala a luce spenta, il mio limoncello intatto com’era stato portato
da Gertrude nel bicchiere sopra il tavolino. Seguivo per pochi passi in un breve corridoio la figura
di spalle di D’Andrea sguazzante nel buio, procedeva spedito come fluttuasse. Mi si attaccava alle
spalle lo sguardo di Gertrude che ci seguiva dappresso, sentivo spiacevolmente che frugasse
qualcosa alle mie calcagna senza neanche sbattere le palpebre. D’Andrea si scostò per farla passare
con la chiave ben in vista, la mano cadaverica come reggesse una lanterna. Aperta la porta si liberò
una ventata glaciale. Sembrava proibito deturpare le viscere dell’abitazione con l’illuminazione
elettrica, e nel poco che era possibile distinguere nel buio, reso meno forte soltanto dagli stiracchiati
rivoli di una luce rimasta accesa in una stanza lontana, riconobbi una sorta di anticamera verso
l’esterno. Come pensavo, per accedere al garage si doveva passare per un quadrato di “giardinetto
murato, e prima ancora era necessario attraversare quei due metri stantii di sgabuzzino nel quale la
seconda porta bucherellata infiltrava il gelo da fuori, rinchiudeva i turpiloqui furibondi dei venti in
uno sbattere di cardini. Urtai con la testa una lampadina scoperta, appesa a un filo che pendeva dal
soffitto. Doveva essere rotta da decenni. Una manata decisa del professore separò il legno marcio e
umido della porta dal proprio contorno, consentendo all’aria notturna di investirci in pieno e
sovrastare l’odore muffito di legni di scopa, quel vago sentore di topo. Mentre il professore
procedeva fuori, ristetti come scosso dalla diversa natura del buio esterno, e nella lentezza del mio
incedere fui bloccato da qualcosa. Mi voltai: dal fondo dell’anticamera, sporta scomodamente dalla
soglia del corridoio, Gertrude mi aveva afferrato la giacca. I suoi occhi, sempre uguali,
specificavano implorazione. Implorava me.
-ti prego, uccidilo.
-come?-, bisbigliai sbalordito.
-uccidilo, uccidilo, è l’unico modo. Ti prego!- piagnucolava disperata, la voce bassa e acuta come
un lamento funebre. Era seria. Quella vecchia mortificata mi stava seriamente implorando di
eliminare il Dottor D’Andrea. Confuso mi liberai dalla presa e le diedi le spalle, girandomi più volte
in tic compulsivi di sgomento. Vide allontanarsi la sua “ultima speranzanell’intermittenza del mio
volto in movimento, ora basito ora inespressivo. E mettendo piede nel riquadro esterno, man mano
che mi allontanavo, vidi la sua sagoma retrocedere nella nerezza del corridoio, riempiendosi dello
stesso vuoto scuro. Così Gertrude scomparve per sempre dalla mia esistenza.
...
Fasci di tubature contro le pareti, lastre di circuiti incompiuti larghi come letti a una piazza, buttati
alla rinfusa tra pavimento e tavoli; sono molti, piccoli tavoli e scrivanie, disposti caoticamente in
direzioni diverse, occupano la maggior parte dell’esiguo spazio in cui è impossibile muoversi con
disinvoltura; giacciono su questi, mezzi incartati tra fogli pieghevoli di progetti e schizzi, la
maggior parte degli articoli d’interesse; monitor d’inizio secolo dissezionati, motori artigianali; una
testa meccanica, dotata d’occhi vitrei; pentolame vario (?), scheletri di braccia meccaniche
ingrovigliate di fili rosso sangue; macchie d’oli, bruciature acide sulla superficie del legno;
cartelline di floppy disk, CD, meccaniche, cianfrusaglie; spoglie d’un becco Bunsen alla cui base è
rimasto saldo un pezzo ostinato di tubo, strappato come un cordone ombelicale; una cuccia,
estremamente malridotta, si leggono appena le lettere sbiadite di un nome da pastore tedesco sopra
al buco, “Schachner”; giocattoli: burattini di ferro defunti, strappato per sempre il loro status di
oggetto capace d’animarsi, stanno sinistramente accasciati col collo spezzato e la mandibola
spalancata rivolta all’insù verso la luce pastosa delle lampade, tutte simultaneamente accese sui vari
tavoli per mezzo d’un sistema ricavato da illuminazioni natalizie pendenti ovunque in un labirinto
di liane. Prendevo avidamente nota di tutto, ligio in quella sempre piacevole fase del mio lavoro,
attento alla scrittura come dedicassi a ogni lettera tracciata la sua speciale importanza. Recuperare il
rapporto con la carta e le mie mansioni si stava rivelando rinvigorente, la solerzia riusciva a
scacciare ciò che di spiacevole stava prendendo piede in precedenza. D’Andrea se ne stava chiuso
in un nuovo silenzio, di umore ancora una volta mutato, a braccia conserte in un angolo tra
l’ingresso e il muro. Teneva la testa bassa verso il pavimento, ondeggiava un posul posto come
nell’atteggiamento di chi ha fretta di andarsene per il freddo o la noia. Mi aveva dato quel
contentino e adesso voleva chiudere, apporre la firma alla sua vittoria il prima possibile, così che
me ne potessi andare e finalmente lasciarlo a “pensareda solo. Credo che davvero non avesse
orgoglio o interesse alcuno nei confronti di tutto ciò che il garage conteneva, al di fuori del piacere
che poteva dargli il pensiero che la vista di quelle cose fosse sufficiente a zittirmi. Invece, si può
forse dire che fossi concentrato. Dunque: due mobili scaffalati d’acciaio, sbattuti contro il muro, un
poin pendenza, tenuti fermi dal rovinare a terra soltanto da scatoloni pieni di ferraglia posti alla
base, dai bordi sporgenti di qualche tavolo; sugli scaffali stavano macabre parti anatomiche di
droidi, sembravano esser state mozzate da enormi forbici mentre il corpo era ancora in funzione;
non riuscii a indugiare molto su quella vista. Su altri scaffali stavano bulloni e attrezzi dal pungente
odore di ruggine, l’unico che si senta in questo luogo dove il metallo sembrava aver respinto da
tempo immemore ogni incursione di vita; a sinistra dello scaffale più vicino stava un calendario di
santi, datato 1991, e ancor più a sinistra un vecchio adesivo con lo stemma di una squadra di calcio
bianconera, che non riconosco; alla destra dell’altro, un altro calendario, di automobili, datato 1973.
Mi sembrava di distinguere dalla distanza nell’angoletto buio l’immagine di marzo di una piccola
Fiat d’epoca, lo stesso tipo di macchina che probabilmente era stata capace d’entrare qui dentro. Mi
chiesi se non esistessero parti riutilizzate dell’ipotetico veicolo in vista in quel disordine, magari le
sagome tubolari che sembravano sporgere da sotto i teloni gettati su ciò che in fondo alla stanza, a
ridosso della serranda per sempre abbassata, si voleva rimanesse nascosto e ostacolato dall’intrico
di scrivanie e cavi. Studiavo le pieghe del tessuto, indovinavo il dettaglio delle forme solide rese
omogenee dal panneggio, in cerca di quella cosa, l’invenzione finale… ma non c’era nulla che
spuntasse con imponenza, nulla che raggiungesse il tetto, tirando il telone al limite estremo della
sua capacità coprente. Senza poter perlustrare ulteriormente, bloccato da ogni genere di intoppi,
squadravo da cima a fondo l’area da dietro la barriera difensiva che il professore, forse
inconsapevolmente, aveva frapposto tra un visitatore e le creazioni più significative, intime, il vero
nucleo del suo essere scienziato e individuo. Mossi pochi passetti e mi arrestai subito incappando
come in una ragnatela in un campo, timoroso di trascinarmi con quell’addobbo dell’albero tutto
l’esercito annientato e maledetto di oggetti contundenti avvolti nelle stesse spire. Idiotamente mi
voltai verso D’Andrea là dietro, per quel riflesso congenito che spinge un bambino che muove i
primi passi nell’acqua fredda a cercare l’incoraggiamento del padre rimasto sul bagnasciuga, come
una torretta di controllo (“sto andando bene, papà? Sto andando bene, dottore?”). Feci una smorfia
amareggiata per aver manifestato fisicamente quel pur ermetico barlume di fiducia verso un
soggetto deprecabile, ma egli non mi stava guardando. È strano, ma vedendolo così, con la testa
bassa e il collo gonfio a schermirlo dal freddo, un podimentico di dove fosse, mi apparve più
indifeso. Non so da quale zona bacata del cervello mi uscisse (dovevo essere più stanco di quanto
mi accorgessi), ma mi domandai se anche lui non potesse rassomigliare alla figura d’un padre.
Insomma, tutti quei giocattoli reietti, venuti al mondo per mezzo delle sue mani. Ed era stato un
padre complicato, imperfetto come tutti, che in un momento di distrazione mostrava un aspetto di
fragilità. Lui, perfino lui! E perfino lui doveva aver avuto un padre a sua volta, fantasticavo, un’altra
figura accanto a quella odiata della madre, chissà se sprezzante anch’essa, o amorevole, o del tutto
assente, magari mai conosciuta ma tale da generare una presenza immaginata con malinconia in
sogni irrimediabilmente solitari.
Tutta colpa dell’albero se ho pensato a questo. Sì, l’albero, quello secco in uno sfibrato color
carbone che vedevo sbucare da dietro il garage con le sue punte, ribelli al decadimento della morte.
La porta d’accesso unica del garage che avevo immaginato ostruisse col tronco, nel reticolato
esterno, era un’altra saracinesca, questa ridotta alle dimensioni sufficienti per far passare una
persona alla volta. Non era serrata, fu sufficiente sollevarla con forza. Ma l’alberello aveva rami fitti
e penduli che disturbavano calandosi dall’alto, come spuntassero anche dal tronco, come un
cespuglio di rovi che crede di essere un albero: D’Andrea bestemmiava mentre cercava di sollevare
la saracinesca, coi pungiglioni lignei che gli si conficcavano ora nel posteriore flaccido, ora in
faccia, facendogli perdere il contegno. In quei momenti forse cominciò a mutarsi la sua spocchia,
magari instillandosi in lui il vago dubbio che non fosse valsa la pena di abbandonare la poltrona,
uscir fuori al freddo e farsi prendere in giro da un arbusto impertinente al solo scopo di “darmi una
lezione”. E intanto io rivivevo mio padre. Inebetito nell’aria notturna, col dottore che faticava ad
aprirci un passaggio, respiravo quel pezzo di cortile celato ai passanti davanti la casa. Nostalgico di
altra scarsa erbetta che cresce in mezzo alla pietra scura, d’altri muriccioli grigi con le linee dei
mattoni lasciate visibili per fine decorativo, di cieli serali estivi in cui si librava tra i giochi di
pianterreno un odore di cena pronta misto a urina di gatto. Nostalgico di altre radici trapiantate in un
posto simile da mio padre, o forse era mio nonno chissà, dalle quali si erse un essere capace di
donare l’ombra. Possibile che fossi stato in quel luogo? Non sono estraneo ai dejavu ma questo era
diverso. Che posto stavo ricordando, che posto, non riuscivo proprio a richiamarlo alla mente e la
cosa mi faceva impazzire, al punto da sentire che anche il cuore di D’Andrea pulsava, come il mio,
serbava avvenimenti ed emozioni, che anche quell’albero l’aveva piantato un padre, il suo, con le
ossa a marcire proprio sotto quella terra infondendogli lo spirito, che ora si stava vendicando, che
puniva suo figlio attraverso le braccia del sarcofago di legno morto. C’era stata un’altra San
Peucezio nel mio passato e l’avervi fatto “ritornomi stava costando la perdita del controllo, come
molti avvenimenti avevano cercato di segnalare alla mia sordità, alla sensibilità che ha perso
l’abitudine di certe cose. Se non fossi stato richiamato dal fracasso di membrana metallica flessa e
cingoli necessitanti una lubrificata, sarei sprofondato in un buco al centro di questi pensieri e non
avrei forse più fatto ritorno. Sarei rimasto sul colle, diventando un tutt’uno col paese, fin quando un
giorno non avrei davvero assassinato il dottore (avrei mai potuto farlo? M’immaginai la scritta del
direttore modificata, “chiedere assolutamente, e poi uccidere assolutamente”. Dovevo eseguire, o
non voglio più pensarlo, né raccontarlo dopo questa volta).
Volevo chiedere a D’Andrea un’altra fotografia, diversa da quella della sua comunione. Doveva
esserci da qualche parte una foto di quella vecchia auto. Magari un bambino cicciottello seduto per
scherzo nel portabagagli, con un sorriso scaltro a denti scoperti e un’ombra di demonietto ad
anticipare il temperamento futuro. Ma non mi trovavo lì per questo.
-…dottore? Ehm…
-eh? Che? Che vuoi?-, si destò da chissà quale sogno a occhi aperti. Forse da infreddolito non aveva
più voglia di darmi del “Lei”.
-allora, io vado, eh…
-ah beh, era ora!
-no, ecco, intendevo, vado…
Indicai genericamente, con un goffo agitare di mani, tutto quello che mi stava davanti, per alludere
all’idea di passarci attraverso. Gli risvegliai la gelosia addormentata a spirale in una cesta.
-cosa?! Ancora?? Da quando in qua serve mettere le manacce addosso alle cose, per fare un dannato
sondaggio?
-è che, mi chiedevo… no…?- facevo nel procedere titubante in un’orchestra di tintinnii , sperando
di sgattaiolarmela grazie allo schermo dell’insicurezza. Iniziare a fare qualcosa nello stesso
momento in cui si sta chiedendo il permesso di farla.
-indietro! Indietro!! Queste sono attrezzature estremamente fragili, non permetterò a un pivello
inesperto di esaminarl…
Non tardò il primo botto. A tentoni, alzavo le ginocchia per quanto possibile prima di riaffondare la
gamba in uno qualsiasi degli spazi apparentemente liberi tra la matassa verde scuro di lucette
natalizie spente, ma qualche lembo finiva sempre per offendersi e far cadere qualcosa dall’altra
parte della stanza. Dopo un paio di balzi scattanti fatti per evitare una caduta, mi trovavo ormai
incastrato tra fili intrecciati e spigoli di tavoli, senza possibilità di tornare indietro. In fondo il
professore non doveva tenerci poi molto, chiaro com’era che non entrasse da secoli là dentro;
nondimeno, mi seguivano da dietro sue blasfemie e improperi, tornati alle gloriose frequenze del
latrato che me lo fece conoscere in mezzo alla strada. A essere sincero, nonostante tutto, un pomi
pento di quel mio comportamento. Fregarmene della sua privacy e addentrarmi tra le sue cose, in
casa sua, non era né professionale, né corretto, né nulla che aspiri a essere in mezzo alla gente. Ma
era più forte di me: già vedevo la mia mano, tesa davanti ai miei occhi come l’immaginaria spada di
Macbeth, con un magnetismo che la trascinava a sollevare quei teloni, a scoprire cosa c’era sotto…
c’era solo quello, ero drogato. Ripeto: poco professionale. Certamente D’Andrea non avrebbe mai
chiamato la polizia (e quelli non sarebbero accorsi in suo aiuto), non aveva altro che le sue orribili
minacce per difendersi, ma in quel momento neanche ci pensavo, posseduto come un insetto
notturno dai lampioni. Mormorai “scusa…” a un povero pinocchio cromato, decapitato dall’impatto
col pavimento. Purtroppo mietere vittime era necessario se volevo avanzare, mentre D’Andrea mi
urlava “maleducato di merda”. La scelta di queste parole mi scatenò un’ilarità del tutto insensata.
Sta di fatto che quasi mi pisciai sotto per non dover scoppiare a ridere, mentre camminavo a braccia
avanti con una faccia senza dubbio demente nel garage più strano e incasinato che avessi mai visto,
all’interno del cervello del professore. Chissà, magari proprio per questo in tutti questi anni aveva
tenuto chiunque fuori dalla casa di sua madre, per rimandare al più tardi possibile l’eventualità in
cui venisse uno da fuori a disturbare col suo respiro per poi andare a finire proprio così, immerso là
dentro a piantargli i peggiori casini. Credo di aver provato per pochi secondi una gioia purissima e
priva di dubbi, l’euforia di un pargolo. Ed ecco infine i teloni: sì, è chiaro, pregustavo le tubature di
un vecchio motore, magari la targa della famosa cinquecento, le parti di un vecchio radiatore (mi
piaceva, quando queste mani erano più piccole, aggrovigliarle casualmente sulle parti delle
macchine, fingendo di aggiustarle. Sembrava che quel gusto dimenticato mi fosse tornato tutto
insieme). Puntare la mano qui, dove sembrano esserci dei tubi, si direbbe, la sagoma coperta di un
tesoro di frattaglie meccaniche. Quest’altra sagoma fa pensare alla scultura di un uovo a grandezza
umana, impone una piega liscia e spaziosa; chissà cosa c’è sotto. Sembravo in corso di scelta
davanti a una vetrina di dolciumi, ma avevo saltato la fila. Tirai, strappandolo via, l’orlo di una
grossa coperta e…
Cadere su tutte quelle cianfrusaglie fu abbastanza doloroso. A giorni di distanza sento le lamentele
di costole e muscoli arrossati, quelle che non potevo ascoltare nel mezzo della situazione. Così dopo
l’impatto iniziale della caduta all’indietro, smettevo di accorgermi di tutte quelle cose aguzze che
mi si conficcavano tra le pieghe del corpo, quelle che avevo fatto finire a terra prima. Con la nuca
urtai il bordo di un tavolo e subito si innescò la suggestione del sangue in subbuglio, che mi portava
d’istinto a toccarmi là dietro tra i capelli in cerca di umidità appiccicosa; ma l’unica fuoriuscita
visibile era quella sui palmi, screpolati dal brusco strascico a ritroso su ferraglia tappezzante il
pavimento. Insomma, avevo fatto bene a porre grande attenzione nello spostarmi in quel labirinto,
ero andato bene. Ma non credevo che il solo spavento potesse davvero spingere un corpo cosciente
con tale impeto. Nello stesso momento in cui lo scoprii, mi sembrò di udire, frammisto ai
frastornanti tumulti interni del terrore, come vaga eco da una stanza comunicante, anche un forte
sospiro svenevole di D’Andrea dal suo angoletto. Non sono certo di aver sentito bene, ma fui
consolato dall’idea che anche il creatore di quella cosa fosse rimasto suggestionabile alla sua vista.
Non c’era effettivamente nulla in quel garage di altezza tale da toccare il soffitto, ma questo solo
perché le dimensioni del mostro non corrispondevano alle aspettative: non era un gigante d’argilla,
l’automa dalla massiccia corporatura e l’altezza inferiore al metro e novanta. Ma ciò che perdeva in
altezza lo compensava con un’imponenza d’altro genere, intangibile, un’aura che gli conferiva
l’impressione d’essere di fatto gigante. Vederselo comparire all’improvviso equivaleva al terrore
fantastico di rinvenire un antico manufatto maledetto da cui visibilmente scaturissero effluvi
pestilenti, gettato con nonchalance sotto i teloni d’un vecchio ripostiglio come fosse stato il triciclo
di plastica. Disteso com’ero, schiacciato per terra, lo vedevo immenso. Ero completamente
inghiottito dalla sua ombra.
-heh…-, rimasi con una specie di singhiozzo impotente che voltandomi indirizzai al professore,
come in cerca di risposte. Lo vidi nel suo momento peggiore, rosso, non capivo se per la rabbia o
per qualcosa di indefinibile, ma se anche un misero soffio fosse uscito dalla sua bocca avrebbe
avuto la consistenza terribile di un incendio di fiamme nere. Ma non poteva parlare,
irrimediabilmente sottomesso alle contorsioni spontanee della sua faccia, una parata di tic
traballanti dove si incontravano un’abbassata di mutande pubblica sulla via di scuola e il
rinvenimento di cento cadaveri sotto il letto. Riportai lo sguardo avanti, ai lati del corpo freddo. Là
dovevano esserci i tubi, le parti della macchina, una visione giocosa e amichevole, ma c’erano solo
travi biancastre. Travi di un materiale alieno, si incurvavano e diramavano in ogni direzione creando
sotto il telo l’illusione di un familiare pattern meccanico, quello che ci si aspetta di trovare in una
normale officina. Non era così, la consistenza nuda di quelle barre stillava come linfa interrogativi
nauseanti, su quale potesse essere la loro natura, se fossero vive, o parti smembrate da una cosa
viva, o di un metallo sconosciuto di un’altra galassia. Costituivano la rete, la gabbia toracica al cui
esatto centro geometrico pulsava il cuore del golem. O forse la rudimentale prigione del suo letargo,
l’elemento di cui esso giornalmente s’informava. Guardarle mi faceva star male. Era meglio tornare
a guardare quello, col mio petto che ancora non si riposava da un battito incessante.
Il torso, che costituiva la parte mediana del corpo nella sua interezza, sembrava esser stato ricavato
da un grosso vaso di terracotta pesantemente sbiadita, ridotta a tinte sabbiose. Sulla sua superficie
erano intagliate a bassorilievo quelle che ricordavano delle scimmie, esseri gracilini dagli occhi a
palla e le lunghe code attorcigliate a spirale, incastonate al centro di architetture stilizzate di templi.
Sotto il labbro del vaso si intravedevano poche linee sinuose e vagamente arboree, come di capitelli
corinzi. Le lunghe gambe erano pilastri di marmo, dalla base circolare poggiante a terra e
l’estremità opposta intagliata a punta di lancia per conficcarsi nel ventre del vaso. Al contrario le
braccia di ferro erano provviste di articolazioni visibili, simili a pulegge o rotori, terminanti in mani
robotiche dal design tondeggiante. Stava inserita nell’apertura del vaso una testa di toro, scolpita in
pietra lucida di un blu intenso. Quattro cavità gli costellavano il muso: due per le corna, due per gli
occhi spenti, che pur sembravano fissare nella loro assenza come tagli solenni. Il vuoto che li
riempiva era minaccioso, precludendo alla trasformazione imposta dallo scorrere della vita dopo
tanto riacquisita. Bisognava accenderlo. E io dovevo “chiedere assolutamente”.
Zoppicando cercai di tornare indietro, non più preoccupato di far cadere gli oggetti trascinandomeli
coi fili. Occorreva una certa distanza dalla bestia, occorreva creare un minimo spazio di manovra
nelle sue immediate vicinanze. D’Andrea scattò agitato verso il labirinto, inciampando e sbattendo,
un rivolo di sangue che gli colava dal naso. Non so se cercasse di raggiungere me o il golem, non so
per quale motivo, ma forse sperava di imprigionare sotto la coperta uno qualsiasi dei due. Rimaneva
distante, confuso come un animale dello zoo, davanti agli ostacoli da lui stesso disseminati negli
anni dei suoi esperimenti. Di nuovo guardando il golem, diedi le spalle allo scienziato mentre gli
rivolgevo a fatica una prima domanda, il fiato appena recuperato.
-si può accendere con il Bluetooth?-, avevo già la mano pronta a estrarre il telefono, come nel
duello finale.
-Bluetooth? Bluetooth?!?-, tuonò lui -quanti anni pensi che abbia questo coso? Va a floppy disk,
deficiente!
Ebbi modo di capire in seguito che l’esser riuscito a ottenere dal professore un’istruzione sul
funzionamento del mostro fosse stata un’occasione fortuita. Egli non voleva che si accendesse, non
voleva veder prendere vita alla sua opera più straordinaria, quella che più di tutte avrebbe dovuto
infondergli la presunzione che sfoggiava senza controllo o ragione. Non voleva che si vedesse,
nemmeno. Non pensava che sarei arrivato a tanto da introdurmi così a fondo nei ruderi del
ripostiglio, non era il freddo che gli rendeva allertato l’ingresso al suo interno. Perciò, l’unica cosa
che potesse indurlo a rispondere inavvertitamente a una qualsiasi domanda sul conto del golem, era
uno strafalcione tecnico. Solo così, per feroce istinto intellettuale e amore della sua arte, poteva
scattare e pronunciarsi. Per il resto fuggiva lontano da ogni altra implicazione della sua esistenza.
Lo aveva relegato a un buco della casa che odiava, e che allo stesso tempo gli garantiva la
sopravvivenza assieme alla restante eredità, ma fingeva che non ci fosse. Dei floppy disk, all’inizio
posizionati ordinatamente in una custodia scoperta, giacevano sparpagliati a ventaglio come tante
tessere del domino cadute proprio sotto al professore, pochi metri dietro me. Li guardai. Li guardò a
sua volta. Si rese conto di cosa aveva detto e arrivò l’ennesima bestemmia, ma mi ero già avventato
ai suoi piedi.
Fummo sul punto di ingaggiare una lotta bestiale per appropriarci del bottino, e sono certo che se ne
avesse avuto modo mi avrebbe morso alla nuca. Ma non poteva piegarsi fino a raggiungermi,
incastrato com’era, e si limitava a menar zampate all’aria, graffiandomi testa e schiena. Riemersi
vincitore, in mano una piccola stele irradiante aura mistica e puzza di plastica nera degli anni
novanta. Ma non c’erano formule, incise a cuneiformi o scritte col pennarello indelebile, che
palesassero l’effetto del comando magico custodito. Neanche gli altri erano stati contrassegnati: uno
valeva l’altro, non c’erano ordini specifici da far eseguire al golem, la sua non era l’esistenza di uno
schiavo; tutti quanti avevano un’unica funzione, la stessa, e cioè quella di risvegliarlo. Di nuovo
arrancai in direzione del mostro addormentato senz’anima, di nuovo fui sul punto di inciampare
quando tornai indietro intimorito, dopo aver inserito il floppy disk in una sottile fessura orizzontale
sottostante le froge bovine, scoperta a un’attenta ispezione. Avevamo paura entrambi, io e il Dottor
D’Andrea. E per metterci lontani al riparo dal crescente ronzio di surriscaldamento dei circuiti,
eravamo riusciti senza pensarci a scavalcare tutto quanto, di nuovo al punto di partenza nei pressi
della stretta saracinesca che dava sul cortiletto interno. Sembrava che volessimo entrare nelle pareti,
mentre si stava risvegliando. Sfoderò le corna arcuate. Come proveniente dal fondo di un tunnel,
comparve inizialmente fioco un punto luminoso nelle cavità oculari, sempre più grande e brillante,
fino a scintillare di bagliori argentati che permasero come bulbi glaciali a generare gli occhi veri e
propri, due sfere di chiarissimo e freddo etere radioattivo. Non si muovevano, non avevano
sfumature, non potevano comunicare altro che il proprio pallore perfetto. Poi, contro ogni
previsione, la figura si erse sospinta da ruote in miniatura che fuoriuscirono da sotto la base dei
pilastri, una ciascuna. Mosse pochi “passie si arrestò. Spostandosi i cingoli avevano sferragliato
raccapriccio, un rumore come masticazione di sassi. In un battito vertiginoso da provocare infarti si
flessero rapidissime le braccia, che in un sol colpo spedirono tutto ciò che giaceva tra noi e lui -
scatole, tavoli con tutto quello che c’era sopra, anche le ributtanti travi dal pallore lunare- contro le
pareti laterali. L’onda d’urto era palpabile, eravamo stati per un secondo nel ventre di un terremoto.
Il garage appariva più spazioso, con tutti gli oggetti ammassati al muro, schiantati uno sopra l’altro,
morti, patetici, cadenti. Un sentiero o piazzola univa me e il dottore al mostro, potevamo muoverci
liberamente, raggiungerlo, e lui raggiungere noi. Ma non solo per effetto dello sgombero violento di
ogni ostacolo, anzi era come se per effetto del risveglio la stanza si fosse magicamente ingrandita,
per far spazio al suo potere. Dovevamo essere all’ora delle streghe, la resurrezione si rinforzava
degli spiriti pagani in festa tutt’intorno alla casa.
-c’è un interruttore, un interruttore, là alla destra!!-, gridò D’Andrea, spaventato dall’eventualità che
la notte di fumi maligni attanagliante quell’angolo di mondo penetrasse all’interno, forse
accrescendo la forza della creatura. Le lampade da scrivania che fino a quel momento avevano
illuminato l’ambiente erano infatti andate distrutte, come tutto il resto. Un pannello di neon si
accese a un mio gesto proprio al di sopra della testa cornuta. Sentii che quella luce scolastica lo
ridimensionasse, rendendolo meno oltretombale, e ne fui sollevato. Ciò non toglie il senso di
magnificenza, di sublime pathos che vorticava come un sistema planetario attorno a un centro
costituito dalla statua vivente. Da un punto interno del volto taurino, si levò una voce cristallina e
aristocratica, dal timbro maschile. Uniforme, logica, sembrava provenire dal cuore di un fuoco
azzurro.
-salve, mio creatore.-, disse rivolto alla generica direzione in cui ci trovavamo.
-mph. Salve, Tatanka.-, rispose D’Andrea fortemente a disagio, un tremito roco nella parlata, si
imponeva di non sollevare lo sguardo da terra per nulla al mondo.
-grazie per avermi svegliato.- diceva a me, o non poteva sapere chi fosse stato? -ricordi dove
eravamo rimasti l’ultima volta che ci siamo visti?
-l..l’ultima volta?- incredulo, vedevo D’Andrea balbettare. Questo “Tatankalo aveva alienato da
tutti, lasciandolo a gonfiarsi e compiacersi di se stesso, eppure ora sembrava quasi vergognarsene. È
anche possibile che fosse un altro sentimento a umiliarlo così, una paura conoscibile solo da lui.
-la confessione, Oliviero. La tua anima implorava aiuto.
Assistevo sgomento alla discussione criptica tra un uomo e una macchina che avevano condiviso un
passato strano, certo che sarei stato capace di rivelare a un essere dalla voce tanto calma ed educata,
angelica, anche i miei segreti più intimi.
-l’anima? Non esiste, l’anima! Sono codici, dati…
-certo, Oliviero. Adesso la pensi così. Ma allora…
-smettila di chiamarmi così!
-…allora eri preoccupato.
-preoccupato, io?!? Ma se non mi è mai fregato niente di nessuno, di…- ansimava, non riusciva a
finire le frasi.
-saprai anche tu, mio creatore, qual è il modo in cui siete programmati voi altri. Altrimenti non
avresti mai programmato me in un’altra maniera: così insegna la logica.
-…siamo? M..ma io…
-non mi avresti fatto in grado di leggerti così bene.
-possono esserci degli errori, per quanto perfetta la programmazione, possono insorgere dei…
-certo, possono esserci degli errori. Ma mi hai programmato per esserne consapevole, in quei casi,
mio creatore. So riconoscere un difetto meccanico, l’autotutela che mi hai correttamente imposto mi
obbliga segnali d’allarme al sopraggiungere di qualsiasi deformità, di hardware o software. E non è
così, non c’è mai stato da parte mia un errore di lettura.
-e…e allora?!? Ero solo un ragazzo in fondo, va bene, un ragazzo!!! Uno stupido, un ragazzo è per
forza stupido, dannazione, anche quando è il più geniale di tutti, e io lo ero, ero comunque il
migliore, ero…
-eri un ragazzo. Come gli altri.
-al diavolo!!- D’Andrea si avventò sulle pareti, prendeva a calci gli oggetti già rotti; strappava,
lanciava in aria, scagliava, colpiva. Le vene gli saettavano nelle tempie.
-questa robaccia l’ho fatta io, questi modellini, tutte creazioni di quel tempo pigro e molle!!
Guardale!
Distruggeva i burattini, riduceva il ferro in poltiglia. Gli cadde davanti la cuccia di Schachner. Si
fermò, incantato per un attimo, poi fece volar via anche quella. Percosse gli scaffali, tranciò a metà
il calendario della chiesa.
-e allora?? Vuoi forse giudicarmi per quello che mi frullava nel cervello quando ancora facevo
queste schifezze! Il mio genio doveva ancora prendere la sua forma definitiva, non ero io, non ero
io quello!
-ti sbagli: non mi hai costruito per giudicare, Oliviero, ma per osservare.
-basta!! Quel nome, basta!!- gridò il professore, tappandosi le orecchie.
-e quello che osservo ora non è diverso. Non ti piace quello che ha detto il sacerdote. Non ti piace
quello che ha fatto. Non ti era piaciuta la confessione.
-t..taci!
-la dama D’Andrea, madre ricca, torva, alta…
-ti sbagli, è morta, non me ne frega più niente, non…
-…devota, conservatrice, malinconica, ammalata. Depressa, spesso. Severa. Violenta, spesso. E
allora, cosa avevi detto al prete? In che consistono, questi “pensieri impuridi voi umani?
-non ascoltarlo!-, urlò D’Andrea rivolto a me. Mi afferrò le spalle, mi scosse, ormai tanto disperato
da toccare un essere umano -è un mostro bugiardo, un fantasma giudeo, un…
-allora Oliviero, descrivimi ancora il sapore di quell’ostia. Hai detto che sapeva di cartaccia sporca,
la… consistenza… mi incuriosiscono, questi vostri “sapori”. O “gusti”, si dice?
-non…
-“gusti strani”, ti diceva, giusto? Sulle ginocchia, sette “atto di dolore”, il pavimento di nuda pietra
della chiesa è gelido.
-BASTA!!! BASTAAAA!!!!! SPEGNI QUELL’AFFARE, SPEGNILO, SPEGNILO!!!
Non gridava a me, non gridava a nessuno. D’Andrea, anzi, Oliviero -il personaggio del “Dottor
D’Andreasapeva benissimo che quel coso non si spegneva, che occorreva solo attendere
l’esaurimento del tempo di ciascun dischetto- insomma, Oliviero, il “ragazzo”, desiderava solo che
si spegnesse, non importava come, non importavano le leggi scientifiche. Possibile che il golem,
nonostante gli splendenti occhi meravigliosi, nonostante il monotono gentile e imparziale delle sue
parole, il suo distacco ultraterreno… possibile che lo stesse prendendo in giro?
-silenzio, Oliviero: respiri troppo forte.
Il professore scappò via. Tra disperati “bastaa squarciagola e altre grida, corse velocissimo alla
serranda, calciò via il mattone usato per tenerla ferma in stato di semiapertura, fece in tempo a
fermarla col piede e ritirarla su. Come un lampo si lanciò fuori, a dirotto verso la casa, lasciando
ricadere la serranda alle sue spalle e chiudendomi dentro, da solo col golem. Più tardi, finito il ciclo
di vita del dischetto, avrei preso a pugni la serranda per farmi liberare, e quando D’Andrea venne ad
aprire quasi prese a pestarmi con mani e piedi. Era di nuovo furibondo e latrante come al massimo
della sua forma, mi inseguì per i corridoi e per il cortile, tentando di colpirmi sul serio, lanciando
soprammobili che si fracassavano attorno a me, urlandomi di sparire per sempre (non che avessi
alcuna intenzione di farmi vivo). Non rallentai che prima di aver risalito tutta la sporgenza del colle
in fondo alla quale stava Via Uffizi, deciso a non far mai più ritorno a San Peucezio.
Eravamo però rimasti a me da solo con il golem. Dentro un garage chiuso, sperduto tra le colline
della provincia, ancora privo della volontà di uscirne. A pensarci adesso, mi sembra quasi che la mia
mente fosse regredita a una sorta di condizione atrofizzata, che non saprei come altro definire se
non “uno stato scemo”. Non che fosse palese nel modo in cui mi ponevo, ma ricordo distintamente
una sorta di intorpidimento che mi faceva pensare “toh! Che bello!a ogni mio movimento.
Riscoprivo il mio corpo, il suo essere all’interno di un ambiente, forse un riflesso inconsciamente
attuato per schermarmi dalla paura. Il professore era andato via, non c’era più nulla da “chiedere
assolutamente”. Avevo dunque concluso così il mio lavoro? A che era servito, salire fin lassù,
passeggiare tutto il pomeriggio per le strade a chiedere cose a gente che non voleva starmi a sentire,
se non per ritrovarmi alla fine in questa situazione folle? Forse quello a cui dovevo chiedere
qualcosa era “Tatanka”. Bel dilemma, visto che non avevo ancora reimparato a parlare: i discorsi
assurdi di una faccia da mucca in pietra riguardo al percorso di catechesi di Oliviero D’Andrea,
luminare di robotica e magia nera recluso in un paese arroccato, mi avevano lasciato perplesso e
ammutolito. Parlare dopo aver ascoltato cose tanto contorte mi sembrava come una mancanza di
rispetto. Poi ricordai che senza permesso mi ero messo a camminare in mezzo a oggetti cadenti e
fragili in casa di un altro, e compresi che tutto ciò che serve per parlare è semplicemente la stessa
faccia da culo.
-ciao.-, dissi.
-buonasera.-, mi rispose Tatanka (giurai di averlo visto fare un cenno del capo, un discreto inchino
appena percettibile). Non si poteva aggiungere altro, non aveva senso instaurare un rapporto più
profondo, una relazione di scambio, tra me e lui: era tutto perfetto così com’era, come si vedeva.
Non è una cosa che possa essere comunicata mediante una qualsiasi descrizione, c’era solo da
trovarsi alla sua presenza; ma in ogni caso, era bellissimo. Può sembrare poco credibile, a sentire la
storia per come è stata riferita. Ma così come molte vibrazioni diverse avevano guizzato
liberamente nell’aria di quella sera, anche la sua bellezza era una cosa che dava il privilegio di
essere percepita soltanto a chi si lasciava sottomettere da essa, a chi era capace di accettare di
trovarsi al suo cospetto. Perché vederlo implicava riconoscere di essere prostrati mentalmente.
Questo modo attuale di commentare gli eventi è tuttavia una mia ricostruzione: non provo più le
stesse cose, riconducendo alla mente la semplice immagine del golem. Ma in quei momenti esso
riempiva il mondo. Suturava gli spazi vuoti dell’esistenza, i punti di fuga, i buchi incompiuti,
impossibile dire in fondo cosa diavolo fosse. Potevo anche provare, a dire qualcos’altro, ma in che
modo, e a che pro? Non c’era il modo: il training dell’azienda mi aveva insegnato a parlare
spigliato, mi aveva fatto ingoiare a forza un ripugnante (ma progressivamente gradevole) repertorio
fatico e gestuale allo scopo di conseguire obiettivi nel rapportarmi a categorie di persone: clienti,
potenziali clienti, intervistati, avversari, colleghi. Anche col Dottor D’Andrea avevo messo a frutto
tali insegnamenti nel rispondere “a tono”, nell’impormi il desiderio di sfida laddove lo avrei
semplicemente lasciato a marcirsene con le sue fisime. Le scimmie rappresentate sul “petto
facevano scivolare i miei occhi giù per le spirali delle loro code, scombussolandoli; volevo
possedere anch’io raggi argentei che mi schizzassero fuori dagli occhi, urlanti contro il mondo
l’esistenza di sortilegi incantevoli, o volevo accontentarmi di plasmare una forma che fosse capace
di tanto, come era riuscito a fare il professore; mi interrogavo sui limiti del sangue, ponderando
l’esistenza di una linfa che dona vita alla pietra. Mi sovvenne la scorrettezza dei miei
comportamenti e quella leggerissima sensazione amara, ma che pericolosamente permane, ogni
volta che eseguo le procedure manipolative che mi sono state insegnate. Ma nessuno mi aveva
insegnato a rapportarmi a questo. No, non c’erano formule, non c’erano modi di “fregarlo”, non…
niente. “Ciaoera il massimo rendimento, avevo esaurito le cose giuste da dire. Ero in un garage
dove avevo trovata delusa l’aspettativa di rinvenire una macchina vecchia smontata, come mi
piaceva smontare le macchinine Hot Wheels da bambino. O forse rinvenire una bicicletta in
miniatura appartenuta al piccolo Oliviero affianco alla cuccia vuota, ricordi di pedalate di fianco al
cane in corsa sotto il tramonto. Ero improvvisamente parassita di un’infanzia, di altre mille infanzie
simili, della mia. Avevo dimenticato le cose che sapevo fare. Lui, il “creatore”, non aveva potuto
fare altro che fuggire via, poiché quello che sapeva era tutto quello che aveva, pertanto era stato
spogliato. Io avevo altro?
Avevo un adolescente malaticcio, che parlava sempre a bassa voce. Non andava sempre d’accordo
con tutti. Teneva un diario dove registrare i suoi pensieri, uno brutto della Bastardidentro che non
gli piaceva ma che aveva tenuto in quanto regalo, e lo aveva portato con sé anche quando per la
prima volta guardava con aria colma di rimpianti e piaceri dolceamari fuori dalla finestra di un
ospedale. Grandi e simpatici uccelli simili a corvi con la coda bianca si posavano sui rami dell’alta
conifera, il sole ostruito dall’altezza degli edifici del complesso non giungeva bene a terra e ciò
rendeva bellissimi i pochi raggi cadenti. Qualcuno aveva portato da leggere, regalini, cose da
mangiare non sempre disponibili, un vecchio Game Boy, così, per scherzo, una cosa simbolica.
Ricordo che una notte di quelle ebbi un sogno erotico sull’infermiera e non riuscii a guardare bene
in faccia la mia fidanzata di allora quando venne in visita, mentii dicendo che ero preoccupato dal
programma scolastico arretrato. Non ricordo perché ci lasciammo, ma ricordo che dopo non volevo
pensare a niente. A mamma dissi che non sapevo se prendere antropologia o informatica. Allo
specialista che mi seguì durante la terapia aziendale non parlai di quando, per non cadere vittima
dell’ennesima violenza, accettai di fare un dispetto al ragazzino ancora più malaticcio di me.
Iniziazione, macchia. Al capufficio scrissi per messaggio che le voci che giravano su D’Andrea
erano balle, che non si era trattato di una visita di particolare interesse accademico. Al golem dissi
un altro “ciaoquando capii che aveva quasi finito.
-spero di poterti leggere ancora in futuro.-, disse lui.
Rimasi per un pofermo in piedi, incantato a guardarlo, ripetendomi quanto fosse bello (una testa di
vacca, ma è mai possibile?), finché non si spense. E anche allora, passarono forse cinque minuti,
forse mezz’ora di vuoto silente prima che iniziassi a picchiare e chiamare sulla serranda. Mi aveva
ridestato uno starnuto e per pochi momenti detestai con intensità ingiustificabile la sensazione del
muco freddo nel naso, trovandola vergognosa. Dovevo muovermi se non volevo finire congelato e
restare per sempre ibernato lì, in una tra chissà quante altre antiche grotte sul colle.