CREPITIO
Tre cacciatori erano seduti attorno a un fuoco, al riparo dai venti in una conca rocciosa. Stanchi e in
silenzio, non smettevano di contemplare con intensità le scarne fiamme vorticanti a pochi passi
dalle loro gambe incrociate, rese momentaneamente inermi da interminabili scarpinate verticali
lungo le spine dorsali dei picchi più aspri, tra un costone e l’altro di quelli dove soltanto i caproni
arrivavano a nutrirsi di brulli arbusti e gettare lo sguardo quadrato a ridosso delle vallate sottostanti.
Fango di boschi e granula di sentieri si erano depositati nelle più profonde trame dei loro pantaloni,
quasi diventando una cosa sola con la materia tessuta dagli uomini. Il calore del piccolo falò
molestava i bulbi oculari fissati dritti a penetrare le sue tinte calde, come a raccoglierle e farne
provvista in vista di sfumature più fredde profilantesi all’orizzonte del giorno venturo. Anche
quando il volto avvampava e gli occhi parevano seccare, privati di liquido, i cacciatori non
perdevano la concentrazione rivolta al fuoco. Non c’era verso che vivessero con superficialità o
distrazione quel momento tanto importante, in cui dopo marce e arrampicate durate mesi
recuperavano un flebile ma sufficiente contatto con un elemento appartenente alla vita della gente e
gli affetti, che periodicamente abbandonavano per avventurarsi sulle alture; quasi una regola non
scritta, quella di lasciarsi assorbire dall’alone arancione che benediva la conchetta gelata, una prassi
imposta dalla natura stessa della loro occupazione -che, tra di loro, non necessitava di presentazioni
in una lingua che non fosse quella del silenzio, lo stesso che si avverte al risveglio in un altipiano
cosparso di bassi e giovani aghifogli, quando la mattina penetra nella pelle come mille lame.
Richiamava in loro un remoto bisogno di umanità, necessario per continuare ma che rappresentava
un pericolo particolare, per cui neanche in quei casi potevano permettersi di abbassare la guardia.
Diverso dalle infinite possibilità truculente acquattate tra i meandri rocciosi e nell’oscurità della
foresta, il rischio di lasciarsi abbandonare mollemente alla culla temporanea creata dal momento
della combustione equivaleva, a lungo andare, alla stessa cosa: lasciare il corpo alle montagne, ai
capricciosi numi del meteo e agli avvoltoi, altri dei che con ali nere li avrebbero condotti attraverso
il passaggio successivo, che sembra inarrestabile per tutte le cose e puntella il paesaggio dei suoi
presagi ovunque ci si incammini (fetori dolciastri, farina di materia non più in grado di respirare,
humus rigonfio…). La forma di conforto concessa a chi sceglie questa vita assomiglia alla nostalgia
di qualcosa che è stata consapevolmente resa vaga, sepolta in un luogo sicuro, come ficcata in una
tasca nascosta in fondo allo zaino per essere tirata fuori al momento opportuno. E quanti mesi erano
passati, da quando avevano intrapreso la caccia corrente? Due? Sette? C’era chi si soffermava sul
ricordo di un abbraccio, una carezza di pochi istanti in sospeso su una soglia, incontaminata, senza
parole, solo quel mormorio costante che persiste laddove c’è qualcosa di costruito, di cui ci si
accorge soltanto una volta che ci si è allontanati; qualcun altro, di vita più solitaria, si soffermava
sul ricordo di una mosca sonnolenta che si strascicava lungo la parte bassa del vetro di una finestra,
contenta di esser riuscita a entrare in quella grossa scatola di ciliegio levigato, dove qualcosa, da
qualche parte, produceva un calore che fuori non esisteva. Solo il legno, lavorato ed eretto a
racchiudere il lato sedentario delle loro esistenze tra pareti e lievi sensazioni, accomunava i vari
background. Poi si era riconfigurato, fatto selvaggio nell’infinità di alberi, ed era sempre meno
liscio, sempre più umido e pieno di bruchi tra le fessure man mano che si allontanavano da dove
erano partiti, nel giorno in cui, come di consueto, si era ripresentata l’improvvisa consapevolezza di
doverlo fare, un’idoneità del momento fiutata soltanto da ricettori invisibili che spuntano col
mestiere. Nel buio echeggiò l’ultimo fischio di un uccello diurno ritardatario, forse smarrito. Il
crepitio schizzante fuori dalla legna morente diffondeva con ipnotico ritmo una quiete che attutiva
tutti gli stimoli dell’esterno in un cuscinetto di tepore familiarizzante. Per questo, i passi di un
quarto cacciatore che era giunto in quel luogo e che andava a sedersi non si presentarono come
un’irruzione, ma come una naturale evoluzione del battito della benevola terra in tregua. Nessuno si
voltò, nessuno salutò, nessuno protestò. Quest’uomo portava scarponi davvero massicci, più spessi
e orsini di qualsiasi altra calzatura in dotazione agli altri, affondavano in ogni superficie spargendo
tonfi brevi e sicuri, come punteggiatura di un discorso rude. Un baccano inusuale nel contesto
annunciava che il nuovo arrivato si stava sistemando, tra sciaguattare di indumenti umidicci di
pioggia e piegature varie di bisacce, gesti di mani grosse che si indaffaravano tra fili e spaghi, le
uniche serrature concesse in alta quota, dove le vette si arrogano il diritto di estendere la propria
granitica potestà ai segreti dei visitatori inaspettati. Nulla si può nascondere agli occhi della roccia,
e al massimo è dentro la roccia che ci si nasconde: un’altra legge che non necessita di essere scritta,
declamata, o di essere definita in quanto tale, semplice decoro che appartiene alle creature che
frequentano tali luoghi. Per un poci fu di nuovo soltanto lo scoppiettare di tizzoni, lamenti lontani
di animali, e i discorsi imperscrutabili degli agenti della natura, forse intenti ad assemblare la
prossima nebbia o a monitorare frane lontane. Tra una fiammata e l’altra forse vorticava pure
qualche pensiero, ma si esauriva prima di mutarsi in angoscia che rischiasse di intaccare la
precisione dei gesti che mai doveva separarsi dai corpi lì seduti, esecutori gelosi prima di tutto della
propria infallibilità. Respiri profondi ma non ingombranti, sentimento di stanchezza grata e
accettazione della sporcizia accumulata sulla pelle. L’ultimo arrivato fu il primo a parlare. Non si
deve credere, infatti, che i cacciatori diventino necessariamente silenti come la pietra che
scavalcano, o burberi come il tasso che scava i cunicoli sotto il terreno che calcano. Si ammettono
discorsi udibili, purché nei contenuti non si distanzino da ciò che pertiene il mondo manifesto entro
i confini creati dall’inizio e la fine della missione in corso. Si ammette la conversazione, anche
quella sul tempo, anzi, è particolarmente apprezzato un parere, saturo di esperienza altrui, su ciò che
una qualche forma strana delle nuvole suggerisce, su quanto le orecchie hanno captato in un
incrociarsi di venti da neve.
-quando neanche di bestie ce ne sarà più, pure questa montagna crollerà.- disse il corpulento
cacciatore ora intento a sfregarsi le mani in prossimità del fuoco, in un atteggiamento che in qualche
modo si mostrava più trepidante e aperto rispetto agli altri. Un insignificante sputacchiare aveva
dato il via al discorso della bocca mantenuta costantemente umida, famelica di frescura.
-si farà un cumulo di rocce prima, e poi col tempo l’erosione ridurrà tutto a una valle, come quella
là.- con il capo proteso accennò a un punto indefinito nel buio pesto al di là del cerchio di luce,
certo di farsi intendere da quelli della sua specie che come lui si facevano un tutt’uno con il
territorio, le direzioni e i paesaggi nel momento in cui li attraversavano.
-l’ultima volta che abbattei un uro capobranco, mi parve di sentire il lamento della montagna nel
rimbombo che ha fatto cadendo. E di nuovo un’impressione così a vedere il cratere che ha impresso
nel terreno, quando ho trascinato tutto quel suo peso spaventoso tirandolo per un corno. Mi sono
detto, è giusto che quando crolla una bestia di questo calibro, la terra mostri la durezza del colpo,
rechi i segni della sofferenza che significa. Ed era un animale eccezionale, dal manto bianco, le
corna alte e incurvate come magnifici archi. Una di quelle prede che ti fanno capire molte cose.
Trasse da un piccolo impacco un trancio di carne secca, e lo addentò rumorosamente. Gli altri si
volsero, ognuno con un’espressione diversa, con una diversa forma di curiosità. Sentendosi
osservato, l’altro indicò la carne.
-questo? No, questo è solo parte delle provviste.- rise con una certa autoironia -Carne di paese, si
sente il sapore di strade e chiacchiere. Quando catturo le mie prede, la carne la vendo. Mi vivo la
montagna già troppo, da volerne sentire il sapore anche quando torno tra la gente. E poi, quell’uro,
parliamo di una preda di molti anni fa, neanche so dire quando. Ma è una di quel paio di cose della
mia vita che ricordo bene, che ce le ho in faccia. Il bianco di quell’uro è diventato il bianco dei miei
occhi stessi.
Con un movimento un pogrottesco, a metà tra uno scongiuro di una nonnetta superstiziosa e il
gesticolare eccessivo di un imbonitore circense, si spalancò un occhio con due dita spesse come
bastoni, messe a forma di forbice; lo mostrava, indicava agli altri, come potessero vedervi proiettata
la morte dell’animale. Osservavano interessati, senza far commenti, poi tornarono al fuoco con
nuovo sguardo, la testa brulicante di lievi stimoli introdotti dalle cose ascoltate. Lui fece per
affumicare un’estremità del trancio, a capo chino per proteggersi dall’impatto iniziale col calore di
cui si era persa l’abitudine. Era molto alto e robusto, dai muscoli dritti e intagliati come pilastri,
come fosse venuto al mondo uscendo così da una quercia. La barba nera e fitta, non eccessivamente
lunga, ricopriva tutto il volto rossastro, le pupille umide ondeggiavano in occhi grandi. I capelli
corti e spessissimi erano ritti e uniformi sulla testa schiacciata, fatta eccezione per uno spicchio
lungo una tempia dove sembrava fossero stati bruciati, lasciando visibile una voglia sanguigna dal
pattern maculato che si estendeva sulla cute. Nel complesso aveva il tipico aspetto del
guardaboschi, oppure del cacciatore specializzato nella cattura di animali di grossa taglia, quelli
troppo pelosi e dal carattere difficile. Si avvertiva una certa sensibilità nel suo parlare, come spesso
accade in tipi del genere. Gli altri si erano avviati a riflettere su quell’argomento raramente
frequentato, le conseguenze che nascevano dalla conclusione di una missione. Se, come sembrava
suggerire quell’uomo, un giorno un monte su cui camminavano sarebbe crollato per questa ragione,
occorreva capire se era necessario che cambiasse qualcosa nel modo in cui si approcciavano al
mestiere, l’unico mondo che sentivano di conoscere. Non si conoscevano tra loro, non conoscevano
i nomi: sulle montagne non si sentiva mai “come ti chiami?”, e nessuno si chiedeva chi fosse un
passante, perché se di un “collegasi tratta sono gli occhi e l’istinto i primi a rivelarlo. La
competizione non aveva ragione d’esistere, le montagne si estendevano sconfinate, immense,
nessuno le aveva mai percorse tutte e nessuno lo avrebbe mai fatto a meno di campare fino alla
morte dello stesso dio che le aveva messe in terra. Parlare di prede era diverso dal parlare di bottini,
diverso dal saggiare valori o misure. Era anch’essa una conversazione che non deformava
l’ambiente, orchestrata al crepitio come insieme di suoni sgorganti da anime radicate nella
profondità immobile degli enti inanimati più antichi, genitori della terra. Uno alla volta, con
disinvoltura mimetica, quasi si abbarbicasse alla natura stessa dei boschi come liane in simbiosi,
raccontarono qualcosa, di una qualche caccia passata.
Il primo cacciatore era un uomo alto ed esile, dalla pelle molto grinzosa, con rughe aggraziate che
salivano dalla base del collo fin sotto gli occhi grigio-ambrati. Massimamente privo di barba, ma
sulla testa una chioma di paglia biancastra era tenuta ferma in ciocche da lacci rudimentali. Le mani
lunghe non raggiungevano mai le labbra per staccare una sottile sigaretta di foglia marrone, che
pendendo indefinitamente dava all’aspetto del cacciatore una sottile sfumatura buffa, da
“personaggio”. Tra tutti, sembrava quello più ipnotizzato dal fuoco, forse a causa dello schermo
argenteo delle pupille che dava l’impressione di celarlo dalle altre cose circostanti. Sospirò rivolto
al tremore delle fiamme, come aspettandosi di scrutare sotto le loro arcate, nascosto al centro del
fuoco, lo sguardo di qualcosa di familiare e poco rassicurante al tempo stesso, di cui per abitudine
accoglieva la sfida. Cominciò a raccontare, con un tono che pareva essere inquieto per impostazione
naturale.
-fu proprio la mia ultima cattura. Una chimera, selvatica come poche altre creature. Non ne avevo
mai incontrata una, ma credo che in genere siano più grandi di quella, forse era un esemplare
giovane. Non fatevi ingannare dalla criniera tutta larga e irsuta, che le fa sembrare più spesse di
quello che sono: scattano a una velocità impressionante, sembrano davvero saette imprigionate
dentro una bestia. L’ho trovata mentre perlustravo il fondo di un crepaccio desolato, ripidissimo, il
modo in cui passa la luce laggiù fa sembrare che è sempre nuvoloso e grigio, come grigie sono le
pareti rocciose e tutte quelle ossa che cospargono il terreno. Ogni passo è un rotolare di frammenti e
sassetti, scricchiolano ossicini e denti, tutto sembra sulla via della rovina. La chimera è piombata
all’assalto a breve distanza da dove mi trovavo, è venuta giù correndo verticale dall’alto, con artigli
a pugnale tutti sfoderati, che la tenevano aggrappata a ogni sporgenza come un ragno pazzo.
Soffiava e ringhiava, ho alzato la testa verso l’alto dandomi tempo di accorgermene e spostarmi,
tutto il resto ho dovuto pensarlo in fretta. Mai un animale mi ha spaventato a tal punto, nel modo in
cui si muoveva, ogni strattone inarrestabile, come tremasse dalla furia e le sostanze magiche che
scorrono dentro i suoi organi… era un concentrato di follia, un’esplosione di ferocia reietta posta a
comando di quel cimitero naturale fatto di rocce scarne e arbusti spinosi. Sbavava, colava questa
roba tossica fumante, toccando terra si inscuriva diventando quasi nera, e se solo quelle grinfie o
quelle zanne mi avessero raggiunto sarei morto all’istante. Fortunatamente però, a una creatura del
genere, così frenetica, manca il controllo. È forse proprio per questo che non mi ha preso al primo
agguato, intanto perché l’avevo sentita arrivare, e poi è probabile che con quel moto così tremante,
tutto brividi e nervi accesi, non sia capace della pazienza necessaria a prendere la mira per bene. Ho
capito che quando degli intrusi arrivano nel suo territorio, poiché sa di non riuscire a contenere
l’energia che possiede, risolve la questione con una scommessa: se ci riesce, ottiene un’uccisione
certa, altrimenti è abbastanza da spaventare e allontanare qualsiasi cosa.
-però ha trovato te-, disse il cacciatore robusto.
-sì, ha incontrato me.- non voleva essere una lusinga, e l’altro nella replica non voleva sottolineare
le proprie abilità. Non c’è l’individualità nelle mosse di un cacciatore esperto, sono giuste perché
l’esperienza le plasma in un certo modo. Il cacciatore robusto avrebbe potuto dire anche “ha trovato
me”, o che avesse trovato uno qualunque di quelli seduti attorno al fuoco, tutta gente che sapeva il
fatto proprio, come infallibilmente a ciascuno di essi era stato suggerito dagli affinati sensi di
cacciatore consumato. Ribadire che la bestia avesse incontrato quell’uomo era come ribadire che
avesse incontrato un cacciatore generico, il concetto astratto e universale dell’occupazione in cui si
identificavano anche al punto da perdere altri aspetti, cari e importanti. Era come porre l’enfasi sul
succo ancestrale dello scontro, come disegnare con le stelle nel cielo la lotta di due giganti, uno
animale e l’altro cacciatore, estesi lungo tutta la via lattea. La scena che un meccanismo misterioso,
intagliato nella parte più misteriosa e inquieta nel cuore, li aveva spinti a incarnare e ripetere fino
alla fine dei giorni: una lama si contrapponeva alle armi che erano state affilate dall’evoluzione, e
ciò che l’evoluzione aveva posto su due gambe si intersecava in un sanguinario amplesso di muscoli
e tensioni con una statura speculare, un’andatura quadrupede che aveva deciso di ergersi per
imitare, spaventare, incombere con tutta la potenza di una stazza scolpita dalla foresta. Il lungo
corpo eretto, ombra di morte per occhi umani, struscia la sua enorme pelliccia di astri sul fondo blu
del cosmo, carezzata da lontano da altre piccole stelle vicine, simili a lucciole che assistano allo
scontro della notte dei tempi senza prendervene parte (gli insetti, per quanto curiosi, hanno da
sempre un mondo un poloro). L’altro corpo di muscoli nudi indaga se stesso osservandosi dal
basso, riflesso nella costellazione, cercando di interpretare qual è il significato dei suoi contorni.
Sarà l’ingegno contro l’istinto, o qualcos’altro? Per i cacciatori è una cosa più semplice,
automatica…
Non occorse spiegare come fosse avvenuta la cattura, non è di questo che parlano gli uomini che
affrontano la montagna. A meno che non sia necessario per quello che vogliono dire, non si
dilungano sui dettagli del modo in cui un’impresa è stata portata a termine, non c’è orgoglio o
millanteria in destrezza e bravura. La chimera era in gabbia, questo il risultato. Le sbarre, fabbricate
dalla gente delle miniere, resistevano ai poteri di qualsiasi creatura. Là dentro però, la chimera non
si stancava mai e dopo aver azzannato o colpito a zampate una sbarra, subito passava all’altra, senza
arrestarsi: anche con la convinzione di essere fuori pericolo, un tale spettacolo dava quasi
l’impressione che prima o poi ci sarebbe riuscita. E intanto ringhiava, sibilava, mandava gorgoglii
dalla gola, come una vera meraviglia posta a servizio della distruzione. Al cacciatore uscito dal
luogo remoto dove essa abitava sembrò di risuscitare da un abisso che nessuno poteva immaginarsi,
una volta approdato dove intendeva far ritorno, ormai forato, invaso da unoscurità forestiera al
posto dove tutti stavano in piedi. La bestia, la lontananza della sua dimora avevano cancellato il
ricordo della civiltà, e i peli aguzzi nelle narici feline non avevano forse mai captato odore di
umano.
-non so perché, ma mi piace pensare- disse il cacciatore canuto -che per questo motivo, un nuovo
eccitante dato sensoriale, una roba mai sentita prima, la chimera fosse entrata in uno stato ancora
più febbrile, più incontrollabile ancora di quanto non fosse di solito. Ma è probabilmente la mia
immaginazione, probabilmente la chimera si comporta sempre così, senza che sia possibile notare
mai una variazione nella sua indole. È che, voi lo sapete, è sempre molto forte ciò che succede
dentro un animale quando per la prima volta una cosa strana come un essere umano entra nelle sue
narici.
Annuirono. In sincrono con l’essenzialità del breve cenno, balenarono in un recesso della mente di
ciascuno scene diverse, risalenti alla giovinezza. Il terrore di un coniglio selvatico in un boschetto
vicino casa, proprio dietro un campo coltivato; l’attenti che irrigidisce il collo di un capriolo alla
prima uscita più in alto, gli uccelli che si tuffano tutti insieme fuori dalle fronde in una chiassosa
nube a ventaglio. Il cacciatore sospirò di nuovo, ancora una volta rovistando un dubbio incagliato
nel fuoco, che insisteva a spiarlo nonostante l’impassibilità, l’immunità alle fisime che l’avventura
scolpisce negli umani che se ne rivestono. Si preparava a una parte più faticosa del racconto, più
faticosa in effetti di qualsiasi caccia o scalata. Usciva dai tipici discorsi dei cacciatori per
menzionare aspetti proibiti. Ma anche in questi casi, un cacciatore non intendeva lamentarsi.
-portai la gabbia alla via del mercato, era tempo di fiera e i passanti brulicavano.- tutti capirono
allora il sospiro, motivato dalla presenza nel racconto della gente che rimaneva a bassa quota, con la
quale sempre sorgevano incomprensioni.
-non ero certo l’unico ad aver messo in mostra un animale- proseguì -diverse gabbie ornavano quel
lato della via, a ridosso da un colle. Ma la mia era la gabbia più grossa, e tutti gli altri gradualmente
si erano allontanati da dove stavo io, cosicché si vedeva questo grosso cubo un poal centro
dell’attenzione, e diverse spanne a destra e sinistra tante gabbiette sorvegliate da occhiate cariche di
sospetto nei miei confronti. Dovevo portar sfiga agli affari.
Il cacciatore robusto rise di nuovo allo stesso modo, come a dire che non fosse ammissibile
altrimenti. Una cacciatrice in armatura assunse un’espressione quasi malinconica. Non si erano mai
viste fossette tanto pronunciate a incuneare le labbra di qualcuno del mestiere, ma era solo una delle
tante risposte che erano comparse al sentir parlare di quell’argomento. Un cacciatore piccolo, in
posizione molle, sembrò tremolare mentre guardava altrove. Quello coi capelli bianchi indugiò sulle
deformazioni che le cose dette avevano prodotto sui presenti, respirandone l’eco per farsi deformare
a sua volta, un muso forzatamente divertito dal constatare la giustezza dell’aspettativa che la
pietanza preparata e offerta avesse un retrogusto amaro. Se avesse avuto più fiato, più scambio tra
sé e i suoi simili, lo avrebbe mutato in un risolino, prima di proseguire.
-gli animali nelle gabbie, tutti di piccola taglia, avevano preso a tremare. Più la mia chimera
tremava nel modo suo, più a tutti gli altri prendeva un tremore d’altro genere. Polli impauriti, topi,
furetti addestrati per la caccia, un maiale fuori da una gabbia, tenuto a un guinzaglio, si era fatto
rigido come una statua e guardava dritto avanti a sé, come se stesse per finire al macello in mezzo
alla piazza. L’animale più interessante era un cucciolo di viverna, non più grande d’un gallo. Si
arrampicava sulle maglie della gabbia con la scioltezza dei gechi sulle pareti, cacciava la lingua nei
fori, soffiando in direzione della chimera. E in effetti bastava guardare il proprietario per capire,
bastava osservare il suo aspetto per capire la sua diversa politica negli affari. In mezzo a quei
contadini e allevatori, preoccupati solo di crescere buoni esemplari da uova e da carne spiccava
quest’uomo, tutto bardato di vesti ad arabeschi sovrapposte, parevano tanti tappeti che si era buttato
addosso con tutta la polvere. Si era cosparso di ricami d’oro, gialli ocra brillanti, serpentine vegetali
per attirare l’attenzione, ma aveva anche qualcosa di sporco. Mi venne da pensare per qualche
ragione che fosse un uomo di scarsissima igiene personale, ma che riveli questo aspetto solo a chi lo
vede al riparo dalla luce del giorno, in metamorfosi notturna. La campana formata dalle vesti
nascondeva un’agitazione di piedi che neanche fermi sul posto riuscivano ad arrestarsi, una
trepidazione sviluppata di pari passo con il coinvolgimento negli affari strani che andava a cercarsi
con strana spontaneità. Dovevo averlo notato già, qualche altra volta.
Si fermò brevemente per un tentativo sforzo di memoria, il cui scopo era solo quello di comunicare
agli altri che la sensazione trasmessa dall’uomo era quella di conoscerne il personaggio, per chissà
quale via. Non poteva ricordare davvero, la memoria dei cacciatori era troppo densa di mappe,
informazioni, pattern del sottobosco, ramificazioni di sentieri lungo un costone, odori di funghi…
non c’era spazio per volti e caratteri. Ma qualcosa di quell’individuo, che spuntava fuori solo ai
mercati, aveva trovato posto in una nicchia già scavata nell’immaginazione del cacciatore, proprio
corrispondente alla sua figura. S’era fatto brillante ed esotico, per mostrare fino a che punto lontano
si spingeva il suo assorbimento negli affari, per fare un contrasto con quella sua barba ricciuta e
appuntita, frastagliata e nera, unticcia, che non prometteva nulla di buono. Era tutto un contrasto,
l’occhio sinistro di azzurro pungente come cristallo lacustre contro la pelle olivastra, e contro l’altro
occhio, di un marrone intenso che pareva diventare rossiccio in certi giochi di luce. A reggere lo
sguardo mandato da quelle pietruzze di opposta glassatura, cresceva la sensazione di conoscerlo.
Sembrava esercitare sui clienti due forze opposte: un occhio li trascinava a sé, l’altro li respingeva,
col naso aguzzo ne fiutava l’attitudine che avrebbe portato alla prevalenza dell’una o l’altra
tendenza. Ma a tutti restava una certa fascinazione nei suoi confronti, che assorbiva come nettare e
in parte immagazzinava in una memoria prodigiosamente selettiva; in vista di una futura visita
presso una fiera, si sarebbe rafforzato dell’idea di conoscere già, in alcune parti profonde
inaccessibili ad altri, molti dei potenziali clienti. Godeva nel lasciare negli altri il ricordo di un
odore di sabbia e bazar, di tabacchi strani, nel riuscire a imprimere in tutti senza sforzo
l’impressione della sua curiosità, tale da non arrestarlo nemmeno davanti a cose sinistre, un tratto
che spaventa la gente comune ma che in fondo la affascina. Tuttavia non riusciva a leggere bene
quel cacciatore con la sua buffa sigarettina, con in gabbia una bestia più interessante della sua. Volle
studiarlo subdolamente, capire se fosse un ostacolo.
-e devo dedurre, collega,- gli si era rivolto dalla distanza, sorridendogli di sbieco -che quella bestia
feroce l’ha catturata proprio lei!
-esatto.-, rispose il cacciatore col suo tono basso e cupo.
-l’ha ficcata lei là dentro, in quella gabbia, con le sue stesse mani!
Non disse nulla, sembrandogli che avesse già risposto.
-sì, si capisce subito che è di quella specie, lei. Quanto a me, mai e poi mai andrei a ficcarmi in un
simile pasticcio, ci tengo troppo alla mia pellaccia-,diede tre piccoli calci alla gabbietta della
viverna, che aggrappò più forte le maglie per non perdere equilibrio -manco fosse per prendere
questo piccoletto, qua. Ma quando si tratta di esporre una bestia, o anche una sua piuma, un uovo,
una squama, e fruttarne qualcosa, inventarsene il valore… là sono io a non aver rivali.
Il cacciatore osservò la giovane viverna, tutta intontita, ora quieta per riprendersi dalle scosse. Gli
occhi rossi spalancati, i muscoli tesi, era pietrificata. Soltanto la base della gola, a ben vedere, col
suo affannato pulsare anfibio segnalava che fosse una cosa viva. In pochi gesti era stata mutata in
un oggetto inanimato, uno fra i tanti del mercato. Si voltò poi verso la sua chimera. Una zampata,
un sibilo di lingua rossa, poi scattava e prendeva a girare in tondo rapida, poi di nuovo un balzo ad
avventarsi contro il tetto. Impazziva per il fatto di essere contenuta; poteva mai esistere un gesto che
riducesse anche quella alla quiete di una merce sul bancone, pronta per essere ispezionata dalla
mano di un avventore e portata in una casa?
-oggi, però, le cose sembrano un podiverse… -il commerciante fece qualche passo verso la sua
postazione -permette? Posso avvicinarmi al suo esemplare? Mi serve, capirà, un’occhiata più da
vicino, da intenditore. -a quest’ultima parola diede un ghigno di affabilità mal riuscita. Il cacciatore
fece un cenno col capo, senza interessarsi ulteriormente. Manteneva lo sguardo sulla strada, dove i
passanti irrequieti, proseguendo davanti alla chimera, acceleravano il passo con diffidenza, e
qualche bambino meravigliato veniva trascinato con forza da una madre vigile; alle sue spalle, il
commerciante che eseguiva le sue stime non era affar suo.
-mmh, davvero un bell’animale…- disse accarezzandosi la barba -vediamo se…
Ci fu un forte rimbombo metallico, frammisto a un assordante insieme di sibili vari. Il
commerciante fece un salto all’indietro, impallidendo per una frazione di secondo, si udì il respiro
mozzato. Poi, in un baleno riprese il suo colorito, e rise ostentatamente. Aveva avvicinato una mano
alle sbarre, per testare chissà quale caratteristica, e in tutta risposta la chimera si era avventata con
maggiore violenza, impressionante come un piccolo lampo che corre su zampe.
-non c’è dubbio, questa è una bestia eccezionale, migliore di qualsiasi cosa su cui abbia messo le
mani io… - tornò alla viverna, un altro calcio. -questa peste, la ottenni da un falconiere straniero,
che incontrai presso un’oasi orientale. Era sceso dagli altipiani non lontano da là, tutti arsura e
piante grasse, e se ne stava tranquillo a bere un infuso, col falcone appollaiato di fianco a lui, senza
nessuna fretta com’è tipico della sua gente. Un tale stupido! Non sapeva niente delle proprietà
magiche della viverna, nulla del valore delle uova e del veleno, della dentatura nel mercato nero. Fu
un gioco da ragazzi, me la sono fatta dare per due monete, e adesso me ne frutterà dieci volte tanto.
O anche di più, se mi riesce di trovare uno fesso come lui, hahaha!
Il cacciatore non comprendeva discorsi di quel genere, pur senza disprezzarli, e non commentava.
Si rendeva conto del fatto che non fossero poi tanto separati dalla sua professione, anzi, ne erano
nella sostanza parte integrante. Si limitava alle catture, talvolta le uccisioni, nella sfera privata della
sua esistenza, egli contro la vastità della natura selvaggia; in comunione solo con l’animale, con la
vita e la morte, con quel tuffo inebriante che le tiene unite come un filamento agonizzante, il
momento in cui lo si trova dopo mesi di esplorazione a rappresentare il punto più sublime
dell’attività intera, e di ogni attività umana. Ma poi, occorreva far ritorno tra la gente, e là altre cose
si verificavano. Credeva che nessuno, se non un cacciatore come lui, potesse carpire l’essenza del
rapporto profondo che si generava nella caccia, che sembrava parlasse ogni volta, comunicando
un’essenzialità ancestrale in cui si racchiudeva il significato ultimo delle cose, un sostituto al
bisogno umano di ricercare un senso. Era convinto di essere nato con l’idea che trovare un senso
nelle cose fosse impossibile, perciò non c’era altro destino che quello, l’unico che gli avrebbe
riempito il cuore di qualcosa di diverso, che lo distraesse dal vuoto. Eppure quelle persone,
interessate più che alla sostanza reale del suo lavoro, a tutta la parte successiva -cosa fare della
cattura? Carne, addomesticamento, trofeo, eliminazione, libertà?- anche loro, insomma,
conoscevano forse una forma di pienezza, diversa e raggiunta in modi diversi. Poteva egli, in effetti,
scrollarsi di dosso la responsabilità di tutto ciò che accadeva in seguito? Poteva lasciarsi assorbire
dai sogni di epicità, che fermentavano la mente in simbiosi con le montagne, al punto tale da
ignorare che era sempre lui a tornare ogni volta, a inserirsi in quella fase successiva per un impulso
indefinito e nascosto? Pensò ai legami che conosceva, o aveva conosciuto, con altre persone. Si
veniva al mondo da una famiglia, e si finiva per generarne un’altra di propria volta. Si
sopravviveva, si prendevano decisioni che determinavano l’esistenza stessa di un villaggio, di una
comunità. Decisioni che odoravano di chiuso e caldo, di accogliente, di utensili ed empatia, di odio
e invidia, di calendari e feste. Lontane, lontanissime da decisioni di bufera e ululato, di artiglio e
grandine, di eco senza fine tra gole e caverne. Ed era a quella stessa vita che stava facendo ritorno,
anch’essa parte di lui. Il cacciatore raccontava di quando la sua preda stette al mercato, e il fuoco
mutava forma di continuo. Stava accadendo qualcosa. La cosa invisibile acquattata tra le fiamme lo
stava finalmente smuovendo, stava insidiando un sentimento illeggibile dentro di lui, e lui
raccontando lo estendeva a tutti. Tornavano sui propri pensieri, generavano questioni. L’aria
ondeggiava, smossa da ondate di energia lontana dai sensi, generatrice indisturbata di groppi alla
gola. Era una proprietà di quel fuoco, forse un falò magico donato dalle viscere della terra, oppure si
trattava di qualcos’altro?
-mi misi a osservare la chimera. Sentir parlare quel tizio mi aveva messo come una voglia di
prestarle maggiore attenzione. Anche i passanti, di fronte a me… qualcosa mi faceva distogliere lo
sguardo. Non mi andava più di vedere la pelle nuda, gli abiti. Cominciavano a trasmettermi
inquietudine. -fluttuò nell’aria un’impressione aliena. I cacciatori ascoltavano, assai presi, come
bambini, e come bambini cercavano di ignorare una certa ansia derivata dall’estensione del buio
tutto intorno al cerchio sicuro del fuoco, quelle cose nascoste oltre l’alone arancione di luce.
-invece, mi accorsi che guardare la chimera mi calmava. Proprio come si dice, sembra che nei suoi
tratti si incontrino più animali, molto diversi. Nella parte davanti è come un grosso gatto selvatico o
una lince, snella, dai contorni aguzzi, eccetto che per la folta criniera, che a guardarla dà
l’impressione di lacerare come aculei di istrice, urticante come un cespuglio d’ortiche. Volto
triangolare e orecchie appuntite, canini lunghi, lingua rossissima e verminosa. Il bel manto è
giallastro, con striature e macchie che si intersecano. Nella parte posteriore però si fa scuro, fino a
diventare nero e di consistenza stopposa, come torba sfilacciata: un poun incontro tra il pelo
rovinato di un cane randagio e lana di montone. Anche i piedi, diversamente dalle zampe feline
davanti, si induriscono come avessero zoccoli per cozzare sui picchi. Spuntano da questo pelo molte
code dure, come placche ossee, code squamose di rettile di varia lunghezza, che muovendosi fanno
rumore come sonagli. A questi e ai soffi da gatto si uniscono delle ali, non molto grandi e invisibili
se non si è attenti, come di insetto. Battendo sulla schiena danno un ronzio costante ed energico
come il volo di uno scarabeo. Questa la creatura che avevo catturato, in cui cercavo una qualche
forma di conforto. Sfidai quegli occhi arancioni, quelle pupille verticali. Non smetteva di soffiarmi,
di spalancare le fauci per intimidire, le vibrisse che si agitavano. E in quel volto che mi odiava, d’un
odio che può provenire solo dal crepaccio in cui è nata e cresciuta, ho trovato il sollievo dall’odio
che poteva provenirmi dagli altri.
Il cacciatore si inclinò lateralmente, per raggiungere col braccio teso un bastone. Si mise a ravvivare
il fuoco, come per concedersi una breve pausa. La cacciatrice presente, colpita dal racconto, prese
a guardarsi con intensità inspiegabile il pugno chiuso, come cercasse di entrarvi e nascondersi sotto
le nocche. Il cacciatore robusto, seduto all’estremità opposta del semicerchio, non gli levava gli
occhi di dosso, mentre l’altro teneva il collo sollevato con aria sognante. Ognuno a modo suo
attendeva il seguito.
-“ha portato un mostro quaggiù!”, “vuole vendermi carne avvelenata”, “se facessimo una pelle di
quella cosa, chiunque la indossi ne uscirà maledetto per la vita”… presi ad attribuire questi pensieri
alla gente che passava, non volevo fidarmi di loro. Non mi volevo fidare di nessuno che potesse
odiarmi soltanto per aver portato lì quell’animale magnifico. Lei non mi avrebbe mai odiato per una
mia azione, quale che fosse. Il suo odio, forse, neanche ha questo nome, ed esiste solo come
iscrizione antichissima e immortale sulle matrici delle nostre stirpi opposte. Dovrei liberarti, qui,
ora, mi dicevo. Dovrei cacciar fuori zanne e artigli anch’io, farmi spuntare le code, produrre bava
tossica, diventare un insieme grottesco di membra aberranti che non dovrebbero mai unirsi. Dovrei
tendere la mano così agli sconosciuti, in queste fattezze, spaventarli a morte per essere più creature
in una, salutare e ruggire al contempo. E se ti liberassi qui, per le vie del mercato, mia chimera,
potresti correre in giro e cambieresti con la tua apparizione le vite della gente, infondendogli un
timore della morte mai conosciuto, o magari conducendoli tu stessa alla morte, con una sola
zampata o più lentamente con le tue sostanze demoniache; o al limite, ti avventeresti su di me per
primo, e lotteremmo rotolando qui nella polvere, assassinandoci a vicenda, e sarei contento di
morire in questa maniera.
Il cacciatore riferiva i suoi pensieri così come gli si erano presentati allora. Era sorprendentemente
facile ricordare questi particolari. La sua anima era stata plasmata, quasi avesse essa stessa generato
ali di insetto e code di rettile, mandanti sibili lungo tutte le membra a ogni suo moto. Bastava
guardarsi dentro per ritornare all’asprezza del paesaggio in cui l’aveva trovata, asprezza che ella
doveva aver assorbito pascendosene da che era venuta al mondo. Il cacciatore da allora si era sentito
un nuovo odore addosso, di silicio sgretolato, midollo di roditori fracassati su guglie millenarie,
detriti portati da venti viziati.
-la invidio, amico mio. -gli aveva detto il commerciante vestito di deserto e spezie -ma sa che le
dico? Sarò contento fin tanto che oggi vedrò compiuti dei buoni affari. Non importa che non sia io a
concluderli, purché ci siano. Mi dica, dunque, che intende fare di questa sua bella bestia? Cosa se ne
ricava? Veleni, elisir? Forse la testa nella sala grande di un nobile, che pagherebbe alti prezzi pur di
averla e vantarsene coi visitatori. A quelli piace inventarsi storie, di come hanno ucciso i mostri più
spaventosi, ma spesso il massimo della campagna che conoscono è una passeggiata nel
lussureggiante giardino di famiglia. Io ho commerciato con tutti, e conosco ogni tipo umano. Per
esempio…
Il commerciante ruotò il collo lentamente, più volte a destra e sinistra, per dare uno sguardo
ricognitore ai paraggi. Leggeva nei passi e gli atteggiamenti storie famigliari, tendenze e
insicurezze, convinto di avere in pugno tutti in virtù della sola furbizia. Qualche passante si
accorgeva di avere addosso, simile a una macchia di sporco da sbatter via a pacche energiche, lo
sguardo arrogante di quella torretta barbuta roteante su se stessa.
-sì, in effetti qualche piccolo nobile potrebbe passare da queste parti e domandare della sua bestia.
Un piccolo nobile con qualche voglia di farsi credere più grande. Ma, a giudicare dalla
maggioranza- accennò chiassosamente, in modo che potessero sentire, agli altri commercianti che
aveva lasciato più in là, tra pollame e maiali -direi che abbiamo perlopiù un pubblico popolano.
Poco male, non si preoccupi! Gente rozza e superstiziosa, può vendergli un osso come amuleto,
sangue e urine come una panacea. Ma queste sono solo idee mie: la preda è la sua, sta a lei decidere
come sfruttarla. Per curiosità, mi direbbe a cosa aveva pensato? È il minimo, dopo che le ho svelato
certi trucchi del mestiere!
Ammiccò gesticolante, cercando di lasciar intendere per accattivarselo che raramente degnava
qualcuno di tante attenzioni, del privilegio della sua esperienza. Il cacciatore non voleva saperne
niente, ma… già, cosa ne avrebbe fatto? Con il corpo era là, le gambe ce lo avevano portato quasi
da sole, come facevano al ritorno da ogni caccia (ma perché?)… con la testa, però, era ancora sulle
montagne, ancora nel momento sacro della tenzone tra nature dal sangue opposto. Non poteva
rispondere, non poteva capire cose tanto umane. Rispose allora nel solo modo possibile, schiudendo
la stessa vaghezza che galleggiava nel suo cuore.
-io sono un cacciatore, il mio compito è di prendere la bestia, o di ucciderla. Quale cosa tra le due,
lo capisco quando sono là. Una bestia rara così, la catturo e la espongo agli uomini. Cosa se ne
debba fare, sta a loro stabilirlo. La mia parte è già fatta, e non è questione di guadagno.
Il commerciante sorrise malignamente, scoprendo fino alle gengive due file di denti ingialliti, gli
occhi infossati in una sorta di piacere autoerotico della vittoria, i piedi sempre frettolosi ora fermi.
-aaah, aah, capisco…- accondiscendeva con tono eccessivamente cordiale, con scherno mascherato
da dolcezza, come si rivolgesse a un marmocchio -allora, beh, la lascio ai suoi, ehm, “affari”, e io
bado ai miei… mi stia bene!
Detto questo ritornò alla sua postazione, tutto soddisfatto, col naso a sperone puntato a squarciare i
cieli, a incidervi l’arroganza di un uomo che costantemente li sfida. Era tutto come aveva previsto,
il cacciatore era un idiota, e in nessun modo poteva rappresentare un ostacolo ai suoi affari. Che
merce sprecata, quella chimera nelle sue mani! Ma era inutile provare a sottrargliela, non ci sarebbe
mai riuscito: aveva inquadrato il tipo. Certo, come commerciante poteva ottenere qualunque cosa
desiderasse, ma la regola era che si muovesse per ottenere soltanto ciò che dava più profitto. E in
quel caso, per quanto piangesse il cuore a vedere una simile rarità andare a male così, la cosa
migliore da fare era lasciarla dov’era. La gente, per quanto raggirabile, del tutto stupida non era
(non stupida quanto il cacciatore!), non si avvicinava a chi neanche aveva idea di cosa stesse
facendo. Nemmeno avere in palio una meraviglia poteva cambiare questo fatto, un fondamentale
problema di atteggiamento. In sostanza, aveva vinto lui: era ancora la forza attrattiva più forte nel
mercato degli animali, quel giorno. Continuava a ridersela sotto i baffi, non prestando più
attenzione ad altro che i passanti, come avesse cancellato dalla sua testa il cacciatore e la sua
chimera, ormai informazioni insulse che intralciavano il guadagno. Più tardi nella giornata gli riuscì
di vendere la sua viverna per trenta monete, dopo di che scomparve.
-un tale venne a chiedermi perché mai avessi portato la bestia al mercato- continuava a raccontare il
cacciatore -sembrava quasi disgustato. Il mercato è un luogo che ha del sacro, diceva. Sacro!
Per un istante sembrò che per la notte montana potesse librarsi qualcosa di simile a delle risate, non
più udite da quando, prima delle parole, le scimmie decisero di scendere in pianura camminando su
due gambe. Un cacciatore che iniziava a rendersi conto di aver annaspato a lungo tra le estremità
del suo essere, non più afferrabili come una volta, si appellava al relitto della presunzione di un
tempo, contando sul fatto che anche gli altri lo facessero. Non ci credevano più neanche loro, ma
cominciava a ritornare la debolezza e avevano un certo bisogno di bugie. Che fosse la vecchiaia in
avanzamento per tutti, a rendere la stanchezza di una missione in grado di manipolarli tanto? Forse
di quei tempi si iniziava a invecchiare prima.
-che ne sanno, loro, di cosa è sacro?- derideva la gente, poco convinto, nervoso nel riso che trovava
riflesso nelle altre nuove insicurezze attorno al falò -non c’è suono di rocce laggiù, niente di così
perentorio come il battere di zoccoli duri contro un dirupo. Non c’è eco neanche a pagarla, neanche
a pagarla con l’oro finto che tanto amano far circolare. Eppure questo ometto era capace di
convincere. Più parlava, più gente si fermava, molta più di quanta se ne fosse fermata prima a
vedere la chimera. Erano diffidenti, come scappassero più lontano possibile dal punto in cui stava. E
invece è bastato un primo temerario insolente quanto basta da mettersi a far discorsi, capace di
mettere a frutto quella stessa diffidenza come arma e non come incentivo alla fuga… poteva quasi
scoppiare una rivolta contro di me e la chimera.
Il fuoco avvampò l’ultimo strenuo tizzone di un tronco perituro. Una fiammata arcuata fece un
balzo più alto della sua ormai flebile altezza, come fosse il respiro finale, una parola densa di
sdegno. Sul viso di chi stava davanti si distese un boato caldo.
-“non si può mangiare la carne di questa creatura, non produce latte né uova”, mi diceva indignato.
Io volevo dirgli che di uova ne produce eccome, deponendole in anfratti irraggiungibili a meno di
saper arrampicarsi come lucertole; dove poi si schiudono, consegnando il contenuto famelico a un
mondo che è carestia e minerali, carcasse, isolamento. Ma a quello non sarebbe potuto interessare,
perché tutto ciò che vuol farci con le uova è mangiarsele.
“E chi può dirgli niente?”- pensò tra sé, senza mostrarsi -“quando io stesso ne ho mangiate tante,
prima di chiedermi da dove venissero?”
-e così la sua tesi era che avessi disturbato la quiete delle persone per bene, facendogli vedere la
chimera soltanto per farmi bello. Della bellezza non so che farmene, dicevo io. Però, in un attimo
che mi voltai alla chimera in gabbia, per non doverlo guardare in faccia, mi accorsi che la trovavo
bella. Era dunque la bellezza, l’averla trovata con tutta la sua aridità e asprezza, a darmi l’impulso
di mostrarla? Non glielo potevo mica dire. Quello blaterava di come i cacciatori si vantano di prove
di coraggio e non portano niente sulla tavola. E tutti a incitarlo, a gonfiargli la parlantina. Mi pareva
che i volti di tutti si andassero a coprire dello stesso mediocre alone grigiastro che gli faceva da
barba, che sputacchiassero come lui dalla foga, che al posto dai capelli crescesse quel suo copricapo
bianco a due alette lungo le orecchie. Diventavano tutti come lui, coi denti lunghi e stretti e gli
occhi in cavità sempre arcuate e pronte al rimprovero, con le braccia più spesse delle gambe,
l’addome duro e le stesse opinioni. Mi circondava una squadra di ometti tarchiati e tozzi dalla testa
dura, laddove c’erano contadine e artigiane, pastori e figlioletti, vecchi e sfaccendati di passaggio al
mercato. Dissi loro che prima o poi sarebbero venuti a lamentarsi: se altri villaggi fossero stati
costruiti, altre strade aperte per far sentieri e mercati lungo i versanti della catena montuosa, prima o
poi la chimera sarebbe discesa a sterminare il loro bestiame. Io portandogliela davanti davo la
possibilità di decidere, nel qui e ora, cosa farne. Anche ucciderla, se tanto detestavano vederla, per
sventare la minaccia futura. Continuavo a gettare occhiate verso di lei, prima inquieto e poi sicuro,
dicendomi che tanto a lei non cambiava nulla, che si dicesse di farla morire o lasciarla in vita, di
venerarla o disprezzarla: nessuna parola umana avrebbe avuto alcun effetto sugli scatti inarrestabili
contro le pareti della sua prigione, nessuna frase avrebbe sovrastato i sibili selvaggi. Mi inorgoglii
del suo comportamento come fosse un figlio.
-“e allora potevi ucciderla già che eri a mille metri sopra i fatti nostri!”, mi ha risposto. “Che senso
ha portarla quaggiù, se non vantarti della tua bravura, che a noi non serve?”, e appresso a dirgli
bravo e giusto. Questo si è avvicinato alla gabbia, in maniera diversa dal mercante di prima. Nei
gesti di quello almeno si avvertiva la sua conoscenza, derivatagli dalle numerose esperienze in giro
per il mondo, che lo avvertiva del magnetismo misterioso irradiato dalla creatura. Se avvinandosi le
ha mancato di rispetto, lo ha fatto con la consapevolezza della bestemmia insita nel suo gesto, in
nome di quella curiosità che va contro gli dei. Mai si sarebbe sognato di ritenerla una cosa da
niente. Invece quell’oratore di campagna si era gonfiato di sfida e disprezzo. Piegando le braccia
scure e pelose, spesse come travi, con le nocche infilate nei fianchi, si era piantato lì davanti a non
batter ciglio nemmeno quando la chimera si avventava con gli artigli fuori dalle sbarre, a un palmo
dalla faccia che la squadrava come fosse nient’altro che un insetto fastidioso. C’era qualcosa di
ammirevole nella faccia tosta di quell’uomo, nell’estrema ignoranza che gli permetteva di
imbruttire un animale più mitico e grande di qualsiasi cosa la sua mente avesse mai concepito,
riducendolo a una scocciatura; una roba da sbruffoni, una roba “stranadalla quale magari un fesso
si lasca incantare, ma lui no, non lo freghi. Sa dove stanno i suoi piedi, calcati nella polverosa strada
del mercato, sa dove stanno i suoi pugni, ficcati nei fianchi a mostrare tutto lo sdegno di una vita
orgogliosa di semplicità e onestà. È assurdo, ma riuscivo ad ammirarli entrambi. L’uomo schietto e
ottuso, ma che ha vissuto cose a me estranee, la bestia selvatica fatta di bestie diverse, che ha
vissuto come me uccidendo e difendendosi, scappando verso l’alto in nascondigli remoti. Volevo
essere entrambi, volevo esser fatto delle opposte energie che li animavano, volevo fuggire da quel
mio ruolo in mezzo a tutto ma nel cuore di niente. Un intermediario tra due mondi che non si
parlano è uno che ancora una volta deve ritornare tra i monti da dove è venuto e riflettere di nuovo
su quello che fa, prima di scendere e ripercorrere i passi che l’hanno portato a smarrirsi.
Per un poil cacciatore si rintanò in discorsi indicibili, per il suo solo orecchio interno. Si toccava
una mano, imitando senza accorgersene il tocco lontano di un’altra persona. E mentre suo malgrado
veniva posseduto da un ricordo immerso nel legno e il calore domestici, un’ombra sembrava esser
finalmente strisciata fuori dal fuoco. La rara, temibile manifestazione delle traveggole del
cacciatore, al suo capolinea quando inizia a scorgere nelle ombre del mondo strani allungamenti,
mosse che non ci sono, spettri. Come sgusciante dalla scorza ignea, una forma schiacciata e
uniforme, nera e incolore al tempo stesso, composta del nulla, estendeva numerosi arti atrofizzati
per arrancare a fatica lungo il terreno concreto che non costituisce la normale superficie dei suoi
passi. Come un neonato gattonava, reimparava lo spostamento. Tutta piena della stessa sostanza dei
suoi contorni, non aveva occhi ma sembrava guardasse e si facesse guardare, per gli occhi
dell’immaginazione fuori controllo d’un montanaro sognatore. Non era aggressiva, non incuteva
timore, ma ispezionava i dintorni con curiosità fastidiosa: laddove rivolgeva la sua occhiata
inesistente, spuntavano fuori altre piccole ombre, batuffoli scuri in fermento risvegliati da un capo
emerso dal letargo. Legioni che formavano fiotti guizzanti e che, ci si rendeva conto con un brivido
come di numerose zampette viscide sulla pelle, erano annidate nelle fessure imperscrutabili tra le
cose del mondo. Ora si eccitavano alla fuoriuscita di ciò che era della loro stessa sostanza, ma più
grande, la versione migliore del loro essere. Gli altri cacciatori non la vedevano procedere
macilenta, quella “cosascura. Oblunga e liscia, smussata dal fuoco da cui usciva senza terminare
mai, si avvicinava -chissà a cosa- senza far rumore. “sì, so che ci sei”, sembrava invitasse a pensare.
“me l’hai fatta, sei riuscita a impressionarmi”.
Molte volte l’aveva incontrata, percependola senza visualizzarla, a braccetto con la sua coscienza,
separata da essa come una seconda testa. Il cacciatore dalla chioma bianca non sapeva comportarsi.
Si muoveva come tra le bestie e i demoni delle montagne anche in mezzo agli uomini, mandava
sporadici sbuffi di asprezza granitica frammista nel tempo delle cose molli e tenere. Riecheggiavano
parole che erano la forma sonora del tocco d’amore impresso nella memoria tattile, aleggiante sui
pori, voce confortevole giunta a cambiare le implicazioni dei suoi sbagli.
“non ti rimprovero per il male che puoi fare a me o agli altri, ma per quello che puoi fare a te stesso.
Se ti comporti con le persone come quando sei a caccia, prima o poi accadrà il contrario. Sei
confuso, sei un miscuglio; ti ricorderai del sentimento, delle debolezze quando starai in mezzo a un
bosco. E a quel punto che succede? Qualcosa salta fuori per succhiarti il sangue?”, lo prendeva in
giro. Quel momento era arrivato. Ci siamo, pensava il cacciatore, mi sono fregato, sto avendo
l’allucinazione di un mostriciattolo che esce dal fuoco. Ho paura e nostalgia, e mi sta venendo da
ridere. Non visto dagli altri, tutti resi meditabondi dalla storia e dalla notte, piegò la bocca
compulsivamente, un sorriso di nervi e contraddizioni. “sei proprio un animale strano tu, lo sai?”,
gli aveva detto ridendo quella stessa voce, in un’altra occasione (era in fondo un tipo che dava
modo di esser preso in giro affettuosamente) -“cambi a seconda di ciò che hai intorno, ma a volte ti
dimentichi di farlo. Vuoi avere più facce, più parti del corpo. Neanche tra tutte le bestie che hai
preso ce n’è una contorta come te.Lei gli faceva ballonzolare come un giocattolo flaccido la
sigaretta nelle labbra.
Si riebbe di colpo. La creatura del fuoco era sparita senza lasciar traccia, non seppe dire quanto
tempo fosse trascorso in silenzio, dall’ultima interruzione della storia. Ripensò alla chimera, alla
sconfinata e inspiegabile affezione che aveva sentito crescere nei suoi confronti. Era stato come il
senso di brivido nello scoprire pezzi di sé nascosti, terribili e meravigliosi, letali ma straordinari
come un brivido fiabesco.
-mi costrinsero, insomma, ad andarmene. Non volevano la chimera là in mezzo a loro, non
volevano me. Avevo frainteso la gente. Che cambia se la uccido qui, davanti a voi, o se torno su in
montagna a compiere quello che dite andasse fatto sin dall’inizio? E invece non potevano tollerare
la morte di un mostro in mezzo a una strada, perché credono fortemente nei giorni e il loro
succedersi. Scannano oche, maiali, con normalità e destrezza di gesti, perché sono creature che
hanno il permesso di vivere e morire vicino a dove dormono gli uomini. A questi si riuniscono
attraverso i prodotti della loro morte. Invece un mostro, un nemico, si para davanti al viandante
nella foresta, o ai margini del campo che va a depredare; è in questi luoghi alle estremità della vita
che la sua sgradita esistenza è contemplabile, è lì che ha il permesso di soddisfare con la sua morte
violenta il bisogno di sicurezza che tutti hanno. Tutto questo, io, non lo avevo previsto e compreso.
Non volevano vederla, né pensare alla sua esistenza multiforme in quello spazio delle loro vite,
lontano da leggende e spauracchi. Non dovevo portarla laggiù. Così risalii la montagna,
trascinandomi dietro la gabbia che la mia fatica aveva condotto a valle. Arrivai sulla sommità di
un’altura verdeggiante, tutta sparsa d’erbe alpine e fiori appuntiti coi petali solari. L’aria era fresca
come un ghiacciaio purissimo, le gole e i picchi si alternavano sull’orizzonte severo, le valli sotto
erano un pavimento lontano puntellato di ruscelli e mulini, su cui ombre di nuvole e aquile
scivolavano più grandiose della vita. Mi entrava tutto nei polmoni, mi riempivo di allucinazioni
d’alta quota, e ributtavo fuori aria calda e corrotta che veniva aspirata a sua volta da una chimera
che mi stava accanto, pochi passi discosta da me, come un compare di camminata con il quale mi
stessi riposando ad ammirare il panorama. Ci lasciammo l’un per l’altra molti ultimi sguardi, vecchi
e stanchi d’argento opaco, aguzzi e incandescenti di ambra selvaggia che splende nel buio. Quello
che accadde poi di quella bestia lassù, io, cacciatore, creatura che per mestiere cattura e uccide, non
intendo dirlo. Ciò che non cambia è che la chimera non è più con me, né con nessuno.
Irraggiungibile come intendeva essere dalla sua nascita in mezzo a crani spolpati. Quale che fosse il
modo, una separazione c’è stata, ed è stata una separazione giusta. Non ho rimpianti.
Il debole fuoco crepitava sotto improvvisi capricci del vento, nuove immagini vorticavano nel
neonato spazio inospitale dei pensieri solitari. Forse altre creature attendevano di uscire.
.
A quell’ora, nel sottobosco ai margini di radure e spiazzi, si muovevano come fantasmi gli esseri
più piccoli e sfuggenti, maestri della notte di sensi acutissimi. Con piccoli e rapidi balzi
scampavano alla picchiata silenziosa di abitanti del cielo, poi correvano verso buchi nella terra e
restavano nascosti fino al tramonto successivo. Chissà se si incontravano tutte in uno stesso luogo,
le prede mancate. Complottavano magari alle spalle dei cacciatori che hanno fallito, per dargli il
tormento, farli pensare. La cacciatrice davanti al falò agguantò l’aria, dando come una zampata per
afferrare il vuoto. Riguardandosi il pugno chiuso, ben saldo a stringere il nulla, faceva una strana
smorfia amara che implicava una certa rassegnazione: qualunque cosa fosse quella che
l’osservazione delle mani le portava alla mente, era così e basta, poco da fare. Gli altri, lasciati
come in sospeso dal finale di una storia che non aveva spiegato loro niente, osservavano incuriositi
quei suoi gesti, vogliosi di altri strani racconti. Bastava mostrarsi in questo modo, per far sì che essi
saltassero fuori o gli venissero incontro, in quella notte strana dove strani timori emergevano per la
prima volta dopo innumerevoli imprese.
-vengo da una famiglia che si è sempre dilettata di arti magiche. Io stessa conosco qualche
trucchetto, che preferisco non usare secondo alcuni miei principi. I miei genitori non sono, non
erano propriamente dei maghi, ma sin da piccola sono stata a contatto con persone di
quell’ambiente. È per gli artefatti misteriosi che provenivano dai boschi, la scienza di funghi e
pozioni, lo studio delle forze sconfinate della natura che osservavo quotidianamente nel mondo
attorno a me, che stabilii la forma della mia vita. Dall’unione tra le mie origini e ciò verso cui mi
stavo dirigendo, come la bambina che con zaini e amuleti attraversa il bosco sconosciuto per
arrivare dalla nonna, ottenni questi.
Le mani diedero in un guizzo fulmineo che squarciò il presente, e nell’istante successivo erano
apparsi enormi artigli alla sommità delle dita. Sfoderandosi avevano prodotto una contrazione nel
volto plumbeo dei cacciatori, un’espressione nella quale quasi prendeva forma una sorta di stupore
effimero. I volti erano poi tornati a spegnersi, dando giusto il tempo alle sinapsi di far arrivare
quella domestichezza con le brutalità del mondo, forgiata dalla pratica, che subito li abituava a ogni
novità. Era un meccanismo evolutivo che li rendeva una razza a sé. Un essere nelle cui vene scorre
soltanto sangue umano che sfoggia artigli del genere, una cosa mai vista -ma è sufficiente un attimo,
ed essi sono registrati soltanto come uno dei moltissimi strumenti per uccidere che il mondo sembra
produrre all’infinito, c’è un meccanismo per il quale ci si deve aspettare di incontrarne uno nuovo
ogni giorno, niente per cui fare baccano. Lei li ritirava ed estendeva, dentro e fuori a ripetizione,
come giochicchiando annoiata con una banalissima parte del corpo che ispira movimenti
compulsivi. Curvi e lunghi, lisci e regolari senza alcuna scanalatura, brillavano di magenta scuro
come bulbi di fiori o insetti che suggeriscono di stare alla larga. L’armatura, fatta di spuntoni e
scaglie lucenti, non era meno minacciosa. Doveva essere pelle sotto la quale un tempo ribolliva in
rivoli un sangue incandescente, o che magari luccicava riflettendo i raggi cadenti dalla superficie
agli abissi di un lago.
-sono velenosi. Qualsiasi cosa feriscano, ne rendono il sangue infetto. Se dovessi berlo io, invece, il
veleno rovente da me prodotto diverrebbe comune acqua. Posso cacciare soltanto per me stessa,
nutrirmi da sola acquattata sugli alberi.
Piegò la bocca contenuta tra due delicate rughe che addolcivano il profilo duro della mascella,
scavavano una certa maestria nella pelle olivastra. Ogni piccolo movimento dei muscoli facciali le
scuoteva la coda fulva ben stretta a torreggiare sulla nuca.
-esiste un altro modo di consumare la caccia?- intervenne per la prima volta il piccolo cacciatore
stralunato, avvolto nel suo mantello come per proteggersi. Parlava con lo sguardo che cercava la
luna invisibile, senza rivolgersi a nessuno. Attendeva risposte di oracoli o presagi nel cielo.
-o anche di viverla- aggiunse, -per me è tutto così. Lo dico perché, da dove vengo io, nessuno può e
vuole credere a ciò che racconto delle mie imprese. Nemmeno se avessi portato la pelliccia di…
quell’animale, per essere vista e toccata da tutti, avrebbero creduto che fosse appartenuta a un
essere di questo mondo. Tanto meno che fossi stato io ad avvistarlo e ucciderlo, cosa che comunque
non avevo intenzione di fare.
-che ti importa?- disse il cacciatore dai capelli bianchi -soltanto il cacciatore che va per il bosco
all’angolo della strada conosce l’acclamazione degli altri. Ho capito che a volerci avventurare su
queste montagne dovevamo aspettarci tutto questo. Quassù non si respira vergogna, eppure
finalmente l’abbiamo conosciuta anche noi: vergogna deve toccarci per ogni lamento, anche
involontario, che mandiamo sulla nostra condizione. Vergogna per ogni rimpianto, noi che rimpianti
non dovremmo portare nella nostra sacca; già c’è poco spazio per le trappole e per le provviste, per
gli strumenti che in tutta una vita ci hanno sempre cavato fuori dai guai, giacché siamo qui a
parlare.
Per quel cacciatore il fuoco acceso non aveva più misteri. Guardandolo non vedeva altro che
l’interno di lastre d’arancio, spesso come un muro impenetrabile. La forma nera si manifestava ora
agli occhi della cacciatrice in armatura e del cacciatore in mantello. Conoscevano il tremore, tutto
privato e inavvertibile per gli altri, dato dall’incontro prolungato e intenso con una cosa miserabile
che ha pure l’arroganza di avere qualche vaga caratteristica di uno specchio.
-hai ucciso i tuoi genitori, vero?- la cacciatrice si schermò istintivamente dal calore. La domanda le
era stata rivolta dal cacciatore grande e grosso, di nuovo intento a masticare. -con quei tuoi artigli
velenosi.
-no- rispose un pocolta alla sprovvista, ma senza l’ombra di un’offesa. Gli altri lo osservavano, lui
che aveva dato voce alla stessa intuizione che avevano trattenuto. -o forse sì. Per quanto ne so
potrebbero essere in salute, a condurre una vita felice nella nostra vecchia casa. Una villa luminosa,
tutta avvolta da rampicanti, sembrava vivere essa stessa, un germoglio appena sbocciato che ancora
odora di terriccio freschissimo di nutrimento umido. In mezzo alla campagna rigogliosa ai margini
di una collina, era come vivere in un sogno. Potrebbe essere ancora così per i miei fratelli rimasti là,
ad affiancare mio padre e mia madre nei loro anni tutti uguali, fatti di faccende quotidiane
intervallate dai loro passatempi magici, qualche festa, qualche occasione speciale. Tutto questo per
me è ormai morto, e sì, sono stata io a ucciderlo. Questi- e li sfoderò ancora, più rumorosamente di
prima -mi hanno garantito innumerevoli successi nella mia, nella nostra attività, chiaramente a un
prezzo. Una maledizione, per l’esattezza. Tra i castagni fitti di quella collina, viveva nella sua
dimora di legno incantato una strega vecchia di molti secoli. Ovviamente ci conoscevamo, e molte
volte crescendo avevamo sentito dire di poter contare su di lei, ma di far attenzione e attendere di
aver ottenuto una certa esperienza con le questioni magiche. L’eventuale patto magico, da stipulare
proprio con lei una volta raggiunta la maggiore età, era uno scenario immaginato più volte tra le
mura delle nostre camerette, una di quelle promesse sul futuro che, ne sono certa, esistono in ogni
famiglia, anche se non ne ho più conosciuta un’altra. Stavamo anche ore, prima di addormentarci, a
parlare dei sogni più eccitanti, di quello che saremmo potuti diventare. Un fratellino si immaginava
a chiedere la capacità di trasformarsi in un drago ogni volta che lo desiderasse, che sciocco, non
fantasticava d’altro che draghi; una sorellina di potersi immergere nei laghi più profondi per quanto
lo volesse, i maggiori di ricevere un talento ineguagliato per le arti alchemiche… i sogni di cui
parlavo io li ho dimenticati, e quando un giorno arrivò l’istinto della cattura, dell’ottenimento di una
cosa per sé, della conoscenza e lo scontro con un'altra forma di vita, non ci fu più spazio per altro.
Bastò acciuffare un ramarro durante uno dei nostri giochi primaverili tra i prati, piccolissima,
perché anni dopo, ai primi sanguinamenti, mi precipitassi dalla strega a chiederle l’arma infallibile.
Non conoscevo nulla ma avevo fretta, una fretta che non mi riuscivo a spiegare.
-in ogni caso- disse il cacciatore robusto -se è alla famiglia che hai rinunciato, è perfettamente
comprensibile per uno della nostra professione. Come ha detto lui, c’è un accoglienza diversa per
chi va a caccia in questi posti. Prima o poi famiglia, amici, finiscono per sparire da soli.
-questo pensavo, quando la strega mi ha detto che la maledizione mi avrebbe per sempre impedito
di avvicinarmi alla casa dove sono nata e a quelli che la abitavano, neanche li avessi incontrati
dall’altra parte del mondo. Una forza incontenibile ci spinge verso direzioni opposte, oppure
risultiamo inesistenti per i sensi dell’altro. Non possiamo avere conferme della reciproca esistenza.
Questo il prezzo, per dar forma alla mia personale difesa, che nemmeno io conoscevo. Lei la vide
proiettata nell’infuso ribollente dentro al calderone, che aveva infine interrogato dopo le mie molte
insistenze. Comprese qual era la natura dell’arma che custodivo in me, e lesse quello che
comportava così come lo vedeva vorticare e rimescersi simile a magma nascosto sotto la roccia.
Aveva provato a dissuadermi in precedenza, ma arrivati a quel punto del rituale non c’era parola che
potesse arrestare ciò che avevo desiderato. Mi ero fatta dura ai rimproveri, respingevo le urla che
dopo inutili discussioni l’avevo costretta a rivolgermi, non mi smuovevo davanti a nulla. I suoi
occhi erano capaci di sguardi stregati in cui sembrava concentrarsi l’essenza di ogni sortilegio che
avevano testimoniato, incanti simili a spiriti fumosi che venivano risucchiati verso il centro delle
pupille; nelle rughe, tutte le ragnatele annebbianti soffitte in rovina, tutte quelle che si possono
trovare in secoli di vita. Sopportai anche questo. Sopportai perfino l’affetto che sentivo nelle zone
più disperate del suo parlare, quello che proveniva da legami risalenti ai miei più lontani antenati
giunti alla collina, e dalla consapevolezza di essere sul punto di reciderne uno in maniera definitiva.
E anche lei dovette cedere, cedere al suo codice d’onore per il quale i maghi non si tirano indietro
neanche dalle più pericolose richieste, cedere alla legge magica che impone l’irreversibilità dei
flussi di energia che uniscono le persone. Ero orgogliosa e soddisfatta, nella presunzione di
contenere la maturità necessaria a inserirmi di mia volontà all’interno di meccanismi dal
funzionamento analogo.
-non sei convinta della tua scelta?
-lo sono. L’unica mia vita possibile è quella che sto vivendo. Una vita che richiede di allontanarsi.
Ma
L’essere nero, uscendo dal fuoco, si voltò verso di lei, per quanto gli fosse possibile senza una testa
separata dal corpo. Si agitò, e sulla sua schiena ondeggiarono creste che si abbassavano e alzavano a
intermittenza, come un’onda propagantesi su pece nera. Durò un respiro, poi si arrestò. Era di
nuovo la figura senza distinzione alcuna, ma aveva dimostrato di poter contenere una moltitudine.
-allontanarsi non è per forza abbandonare. In me si aprì uno spazio destinato all’incompiutezza.
Non è della mia scelta che non sono convinta, no. Semmai della vita, in generale.
La creatura soffiò, un boato assordante come se ne fossero cento a gridare, improvvisamente rese
sensibili all’arsura del fuoco. Ma era un pianto vittorioso, soddisfatto, l’essere aveva ottenuto quello
per cui era venuto. La cacciatrice si sentì perforare i timpani, sentì ballare nel cervello una goccia
melmosa di quell’essere riuscita ad annidarsi fin là. Poi quello scoppiò come una bolla. Non era
ancora scomparsa soltanto per gli occhi del cacciatore con il mantello. Seduto su un tronco tra la
fiera cacciatrice, alla sua sinistra, alla destra il cacciatore dai capelli bianchi che sedeva un poin
disparte per potersi sporgere a manovrare il falò, l’ometto con la testa all’insù si era trovato nel
punto più caldo del cerchio. Come se nelle figure ai suoi lati avesse ritrovato un legame da tempo
reciso, prendeva senza chiederlo e senza accorgersene anche il calore dei loro corpi. Eventuali
folate di vento raggiungevano prima loro di lui, due cinte murarie dotate di artigli per difenderlo o
capaci di soggiogare una chimera. Sul lato opposto rispetto al cacciatore dai capelli bianchi
incombeva forte la presenza massiccia dell’ultimo arrivato, nonostante fosse ancora più in disparte.
La sua era una distanza soltanto fisica, mentre soprattutto il roteare degli occhi, fattosi più vivo col
procedere dei discorsi, suggeriva una centralità molto sentita all’interno di quel momento, più degli
altri poteva percepire che ci fosse qualcosa di speciale nell’aria. Aveva preso a rivolgersi più spesso
proprio verso quel cacciatorino sognante, il più riparato dal freddo. La sua impressione di bassezza
era data da gambe tozze che cercava di celare con stivali dal colore di fango lacustre. Il mantello
verde scuro che lo avvolgeva tutto evocava un certo profumo di pini secolari, il berretto anch’esso
verde si accartocciava come pelle flaccida in eccesso sulla cima dei neri capelli gonfi e lunghetti. Il
volto privo di barba mostrava una pelle sulla quale le più lievi irritazioni lasciavano solchi rossastri
più permanenti del normale, le sfumature dello sguardo vacante facevano pensare al personaggio di
un quadro pieno di allegorie. Il cacciatore robusto piegò le labbra dopo aver esaminato ciascun
particolare per quanto possibile dalla sua postazione, come sorridesse in approvazione. “Ora
guardalo tu, il fuoco”, voleva dirgli. Non aveva mai visto la creatura scura, ma senza sforzo poteva
vedere propagarsi come aria mossa le inquietudini altrui. Qualcosa svolazzò rumorosamente al di
sopra dell’aria nera, richiamando una fugace attenzione da parte dei volti stanchi. Tornarono al
suolo dove il fuoco scoppiettava, o a fantasie confusionarie dove le storie degli altri si mescolavano
inquietantemente alle proprie esperienze più insondabili.
-qual è l’animale che hai inseguito tu?-, chiese il massiccio cacciatore a quello in mantello, creando
un ponte tra il più solido e il più fumoso. Sapeva che quello non avrebbe raccontato ciò che lo
spingeva a scrutare il vuoto, se non gli fosse stato chiesto. Dove uno aveva raccontato della
chimera, era aleggiato un paesaggio fantasma dominato ancora dalla preda di un tempo che faceva
oscillare il terreno, caricando minaccioso e incorporeo; dove le parole dell’altra avevano disegnato
una famiglia, una casa, equilibri fragili, si era sovrapposto un buco in cui vorticavano un susseguirsi
di anni solitari, tempo immobile dove nulla si è mai rotto e poco si è generato. Sentendosi
domandare, un barrito aveva rimbombato nei recessi di un orecchio, risvegliandolo, chiamandolo
per essere riscoperto, mai dimenticato.
-forse lo sto ancora inseguendo, in ogni altro animale che incontro lo cerco. Un enorme mammut
che viaggia da solo, fulminante con la sua pelliccia mai vista. Mi sembra violacea, come il contorno
distante delle montagne quando l’aria densa rende più irraggiungibili le cose. Il tempo si mescola da
quando è comparso. Soltanto il primo avvistamento rimane come tale, un punto fermo nella mia
storia. Tutto il resto può essere accaduto prima, dopo, entrambi, contemporaneamente, in continuo
scambio. Dietro una fila di sequoie infinite, che sembravano attaccate al cielo, la sua sagoma
sembrava prender vita dall’orizzonte, come ne fosse l’incarnazione. Se la cosa più lontana, più
irraggiungibile ma ancora visibile, quasi per farsi desiderare, può mai avere una forma e un corpo
fatto di carne viva, quel corpo è proprio quello.
L’essere nero fluttuava sopra la punta del fuoco, sollevandosi lentamente sempre più in alto. Il
cacciatore in mantello lo guardava sporadicamente, inquieto come gli altri che l’avevano
conosciuto, eppure schermato dalla sua stessa inquietudine. Non passava molto tempo perché si
distaccasse dopo aver iniziato a guardarlo, ma non si trattava di una deferenza causata dalla paura.
Era come immune alle piene implicazioni di quella innaturale presenza, troppo perso nel calore
protetto tra due corpi capitati ai suoi lati, per accettare fino in fondo nella sua percezione
un’anomalia fluttuante.
-dunque, l’orizzonte ha le zanne.-, rise virilmente il cacciatore robusto, come se l’idea gli piacesse.
-zanne poderose e incurvate, sì. E zampe come tronchi millenari congelati nei tempi del freddo, un
muso lungo che modifica le montagne, ridisegna le nascite degli alberi. Ecco cosa c’è, nella
lontananza più assoluta.
Il cacciatore in mantello parlava come incantato dalle sue stesse parole, bulbi pieni di un fluido
zuccherino che egli metteva al mondo per schiudere e succhiare. La sua ragione di vita era una
caccia pericolante al di sopra di un temibile vuoto, la decantava come in preghiera dentro un mondo
di cui era rimasto l’unico abitante, anche l’unico santo e dio. Gli altri invece non pregavano. Dalle
pianure gli umani potevano ritenere le montagne dei ponti verso l’alto dei cieli, ma standoci sopra,
sempre immersi nei loro equilibri, partecipi di loro violenza e rinascite, si arrivava a considerare la
preghiera e la venerazione del cielo un atto egocentrico. L’unico egocentrismo ammesso in natura è
l’istinto di sopravvivenza, e chi ne è depositario più grande merita un rispetto maggiore di quello
tributato tra gli uomini a un alto sacerdote, qualcuno che si fa interprete dell’assoluto. Basta vedere
come gli abeti più robusti, i capobranco sopravvissuti a infinite battaglie non preghino, per
comprendere che si tratta di un gesto non appartenente a quella dimensione. Se fossero esistiti
disprezzo o disgusto nel cuore del cacciatore dai capelli bianchi, questi avrebbero disposto le rughe
dal collo alla fronte in un disegno di esplicito scetticismo. La cacciatrice si toccava l’armatura, ora
carezzandola ora sfiorandola con la punta di un singolo artiglio sfoderato come per metterlo alla
prova. Trovava quasi piacevole ascoltare quelle parole, così simili a fiabe raccontate davanti a un
camino, ascoltate da sotto delle lenzuola in una stanza piena di letti e ciabatte, in quel tempo di
intimità e vulnerabilità che nel corso di una sola notte si era vista richiamare più volte. Bastava
forse imbattersi casualmente nei propri simili, perché si schiudesse un vissuto fatto di pezzi in gran
parte sepolti? Non era invece un atto involontario e continuo come il pompare del sangue, non
raccontava se stessa in faccia al mondo ogni volta che i suoi artigli affondavano in un’altra
superficie, di carne o di roccia?
-cacciare in questo modo è rischioso.- commentò il cacciatore dai capelli bianchi, malcelando una
vecchiaia in agguato. -a stare sulle tracce dell’orizzonte, un obiettivo che sta sempre lontano, si
lascia perdere tutto ciò che sta tra il cercatore e il punto in cui vede ergersi quella preda. Il rischio è
quello di non catturare mai nulla, e non catturare mai nulla equivale a non essere un cacciatore. Una
ragione di vita nata da un fatidico spartiacque nel tempo che finisce col cancellare il nome che si è
data.
A sentirlo parlare così, veniva da chiedersi se da qualche parte, tra guglie sporche di polvere e
impenetrabili fortezze erette dalla terra, arrancasse una chimera le cui code e criniera cominciassero
a incanutire, il cui passo non racchiudesse più la potenziale distruzione di mille mondi. L’essere
scuro cominciava a calare lentamente, un letargico ritorno dentro al fuoco.
-parleresti diversamente, tutti voi lo fareste, se aveste visto con i vostri occhi l’incanto in atto. -
rispose il cacciatorino -Avvistarlo dopo mesi di ricerca forsennata, anche solo sentire di esser stati
di nuovo alla sua presenza, motiva a continuare e continuare sempre in questo modo. Si decide che
vale la pena anche rischiare il precipizio, nell’affrontare una camminata lungo un pendio scosceso,
se è da lì che lo si può osservare mentre riposa su un altopiano dall’altra parte di un burrone. Ho
rischiato di finire schiacciato da macigni in pioggia, come se la corsa della bestia facesse vacillare
anche il cielo. Su un piano erboso in prossimità di una vetta, dove non mi era più possibile salire,
non vedevo più nessun orizzonte; e lui era là, più vicino che mai. Non potei muovermi, in nessun
modo tentare la cattura. Sa quando viene osservato e scappa, più forte che mai. Tuoni continui
percuotono l’esistente, immobilizzano. Soltanto per caso venni risparmiato da zampe inesorabili che
dettano una corsa cieca, investe tutto ciò che non eguaglia le sue dimensioni. Persi i sensi e quando
mi svegliai ero scivolato molto più in basso, a causa della ripidità dell’ambiente. Tutto intorno solo
scie di terra ribaltata, massi fracassati, e un silenzio come prima del mondo, prima del caos, o forse
dopo tutto. Il sole scrosciava raggi pieni, dorati, assaltavano i miei occhi riposati. La distruzione si
era mutata in un pomeriggio simile a un miele sgorgato da una scorza sconosciuta, sangue di un
frutto vivo presente solo nel giardino più esotico. E una sensazione annebbiante, di una foschia
carezzevole frapposta tra l’occhio e le cose, aleggiava come polline. È possibile che da un mammut
si stacchi una polvere onirica, che venendo inspirata infesta vene e polmoni di desideri reconditi.
Pensò alla sensazione di attraversare un campo fiorito in primavera, quando a ogni passo polvere
brillante si sbriciola da ali di farfalle intente al nettare. Funzionava così tra le cose piccole, un
mondo microscopico in cui le regole della sopravvivenza sono altrettanto rigide. Occorreva
cospargersi di sostanze per potersi addentrare in determinati luoghi, per comunicare, far defluire dai
propri lembi gli odori che hanno significati precisi. Si accoppiano così esseri con ali di foglia che al
tatto reciproco dei corpi avvertono strati di pollini morbidi o pungenti, così rivestiti penetrano tutti
interi tra pistilli succosi, affondano una bocca sinuosa nel cuore unto del fiore, non dissimile dal
muso del mammut. Nella mente del cacciatorino, simile a un uovo, dal guscio friabile e il nucleo
caldo e melmoso, aveva preso posto con prepotenza l’immagine della farfalla, contenta di
sciaguattare avvolta dal nutrimento fluido. Voleva essere come la farfalla, doveva. Se il mammut
spargeva una polvere magica, doveva ricoprirsene, mai distaccarsene, sfruttare al massimo i
momenti in cui gli era possibile trovarne il contatto. Avanzare sicuro nello scenario opacizzato dal
brulicare di questa, tuffarvisi come dentro una purissima sorgente e restare bagnato per il perdurare
dell’effetto. Quanta più ne raccoglieva sulla superficie della propria pelle e gli abiti, tanto più era
possibile avvicinarsi all’essere che l’aveva prodotta, calcare le sue orme, vivere la stessa vita fino a
incontrarlo vicinissimo, forse ai confini del mondo dove sole e luna faticano a lanciar dritti i propri
raggi. Si accarezzò il braccio: sotto la manica era rimasta forse qualche traccia? Anche un singolo
batuffolo, tale da non allontanarlo dal sogno pur nella secchezza della radura rocciosa col falò e i
cacciatori. Sperava in un lieve prurito, anche un fremito di narici allergiche, purché sapesse per
certo di non esser stato vittima di semplici allucinazioni. Doveva esserci da qualche parte uno
scheletro gigante coperto di carne spessissima, pelliccia violacea che sgretolandosi in granelli
lucenti rende tangibili le fantasie più ancestrali e remote, forse antecedenti all’utero. La speranza gli
lasciava un taglio lungo e sottilissimo come un capello sulla guancia irritabile. Un essere di nube
nera sembrava lottare per risollevarsi dalla punta del fuoco, teso tra opposte forze gravitazionali.
-e nessuno, nel posto in cui vivi, ha mai creduto a queste storie.- disse il cacciatore robusto. -è
naturale. In pianura si rallegrano anche della vista di una beccaccia, e stentano a credere pure se
racconti di un cinghiale un popiù grande del solito. Figurarsi un mammut con la pelliccia viola, a
maggior ragione se lo racconti in quella tua maniera di menestrello.
-come è stato detto poco fa, quando non viviamo in mezzo ad alberi e pareti di roccia viviamo in
mezzo alle incredulità.- commentò sardonica la cacciatrice, amara ma svelta come il veleno fluente
dentro i suoi artigli -che a volte sono le pareti più dure.
-e ho anche detto che non dovremmo lamentarci.- era il lamento freddo del cacciatore dai capelli
bianchi. -Questo è quello che facciamo, riceviamo tutto ciò che avremmo dovuto aspettarci. Non c’è
tempo di stare a condannare chi odia le nostre faccende, del resto anche noi odiamo tutto quello che
non ci riguarda. E non dovremmo biasimare chi vorrebbe stessimo dietro a prede più produttive di
un vecchio bestione che impollina gli altipiani dopo averli devastati.- Perentorio e austero dietro a
un guizzare di scintille, il più intenzionato a mettere i ciocchi nel falò e i punti alla fine delle frasi.
Dal lato opposto del semicerchio, dietro la barba folta, appariva di nuovo il sorriso di un cacciatore-
quercia grande e grosso, sempre più esplicitamente curioso e soddisfatto, le cui labbra nell’ultima
notte si erano piegate più volte che nel resto della vita recente. “Piano piano, un podel venditore
del mercato è entrato in lui, lasciandogli qualcosa”, pensava. La chimera, vagabonda tra i suoi
lontani nascondigli, si dissetava succhiando il sangue di altri animali, come cieca di fronte
all’acqua. Un tonfo segnò la caduta della creatura nera nel fuoco. Non fluttuava più, si schiacciava e
rimpiccioliva sui tronchi carbonizzati. Ricoperta di fiamme, non soffriva: era soltanto
immobilizzata, accettava di buon grado la riduzione dello spazio occupato dalla sua consistenza
simile a gas. Sarebbe scomparsa, o ritornata da dove era venuta, come aveva fatto anche per gli
altri. Due fiammelle si erano posate per caso sulla sua superficie, in direzione del cacciatore che per
la prima volta la guardava insistentemente, richiamato dal rumore della caduta. Sembravano due
occhi, la prima cosa che guardava sul serio. Il cacciatore si accorse di una certa nausea che lo aveva
accompagnato senza farsi sentire, eppure fu in quello stesso momento che iniziò a sentirla scemare.
-Tutte le altre prede, quelle davanti a te, quelle che scappano quando passi ignorandole del tutto…
lasci intendere che nulla più ti potrà rimettere sulle loro tracce.- aggiunse ancora il canuto, i cerchi
argentati attorno alle pupille erano un guscio che impediva sempre alle sue parole di emanare
rimprovero, lì risiedeva l’autorità delle sue stoiche opinioni. L’altro li incontrava per la prima volta,
pronto ad assumersi la responsabilità della risposta.
-no, ormai le cose continueranno ad andare come sono andate finora.- rassegnato ma senza rimorsi,
scosse la testa, il berretto calò fin sulle sopracciglia. -l’obiettivo della mia vita è quello che è, non
posso farci niente. Forse ora sono più consapevole del tipo di cacciatore che rappresento. Se lo
avessi saputo tempo fa, quando il caso mi pose sul percorso di quell’animale, probabilmente non
avrei proseguito allo stesso modo, avrei scelto di essere altro. Catturare le prede tra me e
l’orizzonte, esaminare orme più piccole, scrutare gli infinti dettagli nascosti nelle immediate
vicinanze, ascoltare il respiro delle cose ridotte invece del richiamo indecifrabile di un mistero
troppo grande per tutti. Ma ho fatto allora la mia scelta, e il destino si è delineato di conseguenza.
Posso solo accettare, credere che in fondo non deve essere stato un caso se, qualunque cosa sia quel
mammut, si sia imbattuto proprio in me tra tutti i cacciatori che vagano quassù, proprio con quella
forma, quel colore.
Il fuoco, per quanto piccolo, procedeva da tanto. La sua bolla termica era ormai stabile e omogenea,
l’area coperta dalla sua luminosità contenuta respirava uniformemente. Lontani latrati e fruscii
soffiavano nel buio placido, umidità imperlava i sassolini e scorreva sotto la terra. Tra le fiamme
non c’era più nessuna creatura. Nella mente, nel giallo dell’uovo, la sagoma della farfalla si ridusse
e annerì, la proboscide si ritirò divenendo tozza, gli occhi grandi e arrossati, le ali sagomate e
trasparenti… una mosca. Il ricordo di una mosca sfuggita all’inverno, al riparo dalle nevi su un
vetro familiare. Il corpo ingrassato da briciole deposte da pani e carni, cibarie trattate da mani.
L’aveva osservata a lungo in quel crepuscolo, appoggiato al davanzale, dove aveva luogo la
massima contraddizione tra ciò che si vedeva di là dalla membrana trasparente e ciò che si sentiva
accarezzare la pelle: da una parte un bianco duro e indifferente che ingloba e preme, dall’altra
ondate di calore galleggianti nell’aria. Un ronzio come unica compagnia di giorni inesorabilmente
solitari, prima o dopo l’avvistamento che ha cambiato il senso dell’esistenza. Per tutti, anche per chi
correva dietro all’inafferrabile, arrivavano i giorni del ritorno a una dimora un poisolata, ma meno
lontano del solito dalla vita in cui si udivano parole, risate e pianti, baccano di attrezzi. La gente
beveva e mangiava nelle locande, raccontava storie, quelli da soli come quelli in compagnia. Lui
raccontava dell’unica cosa di cui avrebbe mai voluto parlare, e si sentiva deridere. Assurdo, pensava
al tempo, esser deriso per ciò che si è visto. Ma era logico, come spiegava il cacciatore dai capelli
bianchi. Ricordò un bambino, al tempo suo coetaneo, quando anche lui stava crescendo in mezzo
agli esseri umani, prima di prendere la via dell’avventura. Lo aveva incrociato in un corridoio, una
galleria di legno scuro scavata per far passare orde di fanciulli. Dalla distanza di un piccolo corpo
sdraiato, aveva osservato la figura intera dello sconosciuto a lungo, come incantato da un
indecifrabile legame. Quello sentendosi guardare si era irrigidito, gli rilanciava contro uno sguardo
di diffidenza tagliente, sicuro di sé, di chi ha già imparato come si trattano le sfide. Pallido nella
carnagione e nei capelli, negli occhi e il portamento, magro ma forte, capace del silenzio per
intimidire: ecco cos’era, un folletto dell’inverno, gelosissimo spiritello il cui unico compito è quello
di allontanare ogni cosa mobile dal ghiacciaio che protegge. Come aveva potuto dimenticare questa
immagine? Il cacciatore ancora non portava il mantello e il berretto caratteristici della sua persona,
ancora non sembrava l’abitante di un dipinto; già allora, però, ciò che era oggetto del suo desiderio
andava bandito dai discorsi degli uomini. Un incontro casuale che forse aveva instillato in lui,
secondo principi imperscrutabili, una disposizione verso l’ineffabile. Si faceva strada in
quell’istante dimenticato, in una nicchia segreta dei suoi sogni, il fantasma di un pachiderma di
strani colori, un desiderio di baciare il corpo di ghiaccio di un suo compagno.
-dunque, ci siamo confrontati con forze varie. -disse dopo un poil cacciatore robusto, quando il
fuoco si era quasi spento. Una striscia di fumo nero saliva dritta e appuntita. -gli esseri umani,
intanto. Poi quelle prede, che quando cadono fanno tremare la terra. Ma a parte il mio vecchio uro
bianco, credo proprio che gli altri non hanno fatto nessun tonfo…- parlava come facendo il punto,
ormai avvezzo a un certo entusiasmo che la compagnia gente affine gli aveva trasmesso,
esplicitamente sereno -e adesso sappiamo che ancora camminano tra queste montagne una chimera,
un mammut viola, e…
Si rivolse alla cacciatrice, come invitandola a raccontare di una sua caccia significativa, alla quale
aveva certamente pensato durante quella serata di storie attorno al fuoco.
-un cavallo magico, sul cui manto crescevano a chiazze muschio, liane, foglie verdi, funghi a lingua
come quelli che spuntano dai tronchi. È stato l’unico animale risparmiato dai miei artigli.
Da quando li aveva inizialmente mostrati, sembrava aver acquisito l’istinto di sfoderarli ogni volta
che faceva riferimento a essi, come fosse necessario alla comprensione delle sue parole.
-una cosa così vi cambia mentalmente, sapete.- mormorava meditabonda, la testa china sulle mani. -
quando hai artigli del genere e ti metti sulle tracce di una preda, smetti di fiutarle come facevi un
tempo, chinandoti da una posizione eretta, raccogliendo informazioni, usando la conoscenza; invece
senti scorrere per tutto il corpo come energia lucida una reattività a ogni piccolo cambiamento raso
al terreno, parti da una postura acquattata che ti fa procedere a balzi fulminei. Quando li sfodero
sono istintiva, i miei sensi sono moltiplicati, sento odori che non posso trovare altrove e le pupille
perforano come acciaio affilato. Con una certa attenzione, prendo coscienza di una specie di cavità
che si forma nel mio addome, mi avvisa dei movimenti di cielo e terra. Sono veloce, talmente
veloce da non avere neanche il tempo di chiedermi cosa è opportuno fare di una qualsiasi vittima.
Innumerevoli esseri si sono trovati senza uscita in questa sconfitta che non conosce pensiero. Poi
trovai il cavallo, già imprigionato in chissà quale incantesimo, come me. O forse così dalla nascita,
nato nello stesso luogo dove lo vidi galoppare. Sono monti rotondeggianti, di altezza media, tutti
ammassati insieme, battuti sempre dal sole. Non sembra vero, un luogo ai confini tra le montagne
della mia vita adulta e un’atmosfera di campagna collinare, proveniente da qualcosa di diverso…
era un frutteto, alberi bassi e nodosi circondati da nuvole quasi invisibili di moschini minuscoli,
tutto intorno stagna l’odore dolciastro di polpa sbattuta sull’erba, così matura da nauseare. Uccelli
variopinti cantavano di continuo, razzolavano strusciando code spioventi che accecavano per
brillantezza, volavano a piccoli balzi da un ramo all’altro. Sembrava il giardino segreto di un
principe di una leggenda esotica, immaginavo di trovare al suo margine una fontana abbandonata da
cui sgorgano liquidi capaci di annullare ogni incantesimo, di arrestare la vecchiaia, domare la
morte; per la prima volta desideravo un oggetto e non un animale, da tutto questo dovevo già capire
di essermi svegliata in un giorno strano. Tutto puntava all’anomalia, all’unica volta in cui i miei
artigli avrebbero catturato senza uccidere. Allo Scalpitare degli zoccoli dimenticai qualsiasi fontana.
Tra i tronchi guizzava un manto chiaro, sopra il quale luccicava qualcosa che non riuscivo a
definire. In pochi balzi ruzzolavamo sul terreno, io slittando sul suo muscoloso corpo atterrato. Si
arrestò, scalciando a caso, e in pochi gesti le punte dei miei artigli gli furono a un granello di
distanza dal recidere irrimediabilmente un tubo pulsante nella lunga gola. Ma mi arrestai. Qualcosa
mi bloccò. Un istante in più, un insignificantissimo istante in più rispetto a come le cose si erano
sempre svolte, è stato tale da illustrarmi il terrore che la consapevolezza di soccombere dipinge in
faccia a un animale, negli occhi roteanti a scoprire il bianco celato del bulbo, nel tremito del muso
solitamente fermo. Non fu la pietà ad arrestarmi, ma questo mi diede un margine per pensare,
mentre il veleno dentro le mie vene ancora insisteva a formicolare, per richiamarmi alla mia natura
corrotta e assassina. Il tatto mi avvisava delle proprietà generatrici di vita di cui quel corpo era
infuso. Se per via della mia mano deforme non avessi avuto conferma della sua paura, la stessa che
accomuna tutti, lo avrei ritenuto un essere immortale. Sarebbe stato un dio presso ipotetici antichi
abitanti di quelle strane alture fertili, un portatore di cose fresche e dense di linfe. Viticci si
attorcigliavano impotenti alle mie caviglie, dilungandosi dal corpo che la morsa delle mie ginocchia
teneva fermo. Riuscii a fare una scelta. L’ho detto, qualcosa di strano era nell’aria. E anch’io feci
ritorno tra gli esseri umani, sperando chissà cosa. Volevo mostrare il cavallo, fare un tentativo,
ovviamente lontano dai luoghi della mia nascita e crescita; mi dissi di provare a vedere come erano
gli uomini che vivevano da altre parti, in villaggi raggiungibili soltanto dopo interminabili giorni di
marcia senza riposo. Ne trovai uno cullato sotto le ombre di abeti severi, mi presentai nella strada,
recando il cavallo al mio fianco. Ero certa che potesse generare frutti commestibili, all’infinito,
poteva sfamare chiunque, debellare concetti come ricchezza e povertà. Mi derisero, ripetendo con
insistenza che da quelle parti le donne non si mettono a caccia. Non sono capaci di uccidere,
dicevano, e infatti tu il tuo bel cavallino non lo hai ucciso, dicevano. “Non ne saresti mai in grado”,
lo ripetevano come se volessero vedermi provarci. Avrei potuto metterli a tacere semplicemente
sfoderando gli artigli, ma qualcosa me li teneva chiusi. “No”, pensavo, “non è questo il loro posto,
l’unica cosa che può appartenermi e che posso portare in questo posto è proprio questo cavallo, la
sua capacità di formare sempre la vita. Soltanto questo mi potrà far comunicare con loro.Ma non
comunicammo.
E non aveva mai “comunicatotanto a lungo, non che lo ricordasse. Nessuno di loro ricordava di
averlo fatto. Con soltanto le braci a render distinte poche cose nel buio, si rendevano conto della
fatica provata. Conversare era stancante. Lasciavano riassestare il fiato dopo averlo impiegato come
non mai nella formazione di parole, ognuno rievocando tra sé le cose che più li avevano colpiti,
mentre il freddo tornava lentamente a prendere possesso della radura. Nuvole di vapore si
sollevavano rapide da bocche e narici, un insetto notturno fischiava i suoi ultimi momenti nella
sfortuna di esser stato colto dal gelo. Di lì a poco si sarebbero rimessi in marcia, ognuno per la sua
strada.
...
Un cacciatore corpulento e barbuto, dalla capigliatura in parte bruciata che lasciava scoperta una
voglia rossiccia, avanzava veloce nel fitto della foresta. Con grandi passi di marcia ritmica e decisa,
imponeva la sua statura di quercia contro la notte, tutto ciò che bastava ad allontanare le entità
ignote acquattate nell’oscurità. A volte una lucciola curiosa lo seguiva in ampi voletti, come un
cagnolino. Non lo fermavano i rami e i rovi, il suo procedere era puro rumore boschivo, un patto
sonoro tra il regno degli alberi e un bestione che si è guadagnato la reputazione di suo degno
abitante. Il buio era asfissiante, ma la vista esperta sapeva catturare le cose fondamentali e farsele
bastare, aveva imparato il modo di farsi sfruttare al massimo nella situazione più difficile, così
come tutti gli altri sensi. Miscele di terricci diversi si incontravano nel sottosuolo, combaciando
asciutto e bagnato; funghi microscopici gioivano dell’humus, spargendo spore e un paludoso odore
di esultanza. Le felci annuivano sui propri gambi millenari. Tutto nella normalità di una notte di
luna nuova, rinnovata però da un aleggiare di idee misteriose. Da un falò in una radura si erano
dipanate ombre strane, una certa ambiguità di pensiero era arrivata a farsi necessaria come non mai
nella vita solitamente rude dei cacciatori di montagna. Il cacciatore era carico di un nuovo
ottimismo, soddisfatto per aver dato una forma a quegli elementi o divinità che, secondo la sua
teoria, ancora tenevano in piedi le montagne: una chimera, un mammut, un cavallo… soltanto lui,
tra i presenti, aveva contribuito al crollo, quello che un giorno avrebbe trasformato un’intera catena
montuosa in una conca. Uno dopo l’altro, sparivano gli animali, la carne guardiana della roccia, i
protettori del disabitato. Ma era stato un crollo necessario a scoprire questa realtà, quasi un
sacrificio. Conservava una scaglia del corno dell’uro in una tasca interna del pastrano, quasi
conficcata nel petto pulsante. I cacciatori stavano cambiando, inconsapevolmente cominciavano a
muoversi verso la stessa verità. Doveva essere la montagna a infondere questa conoscenza, a
scioglierne frammenti tra i minerali contenuti nell’acqua fresca di ghiacciai e grotte, da esser
riassorbiti nel flusso sanguigno degli abbeveranti come un dono ceduto secondo i dettami di una
misericordia rarefatta. L’ancestrale dialogo con le bestie e la terra richiedeva un radicale
sconvolgimento delle sue forme, non prevedeva più i canali dell’arco e le frecce, del coltello o dei
palchi puntati a testa bassa. I tempi stavano cambiando: per un posarebbe stato meglio procedere
con cautela, questionare almeno momentaneamente la conoscenza accumulata. Poteva trattarsi di
una tregua, così come della scomparsa della caccia per come era stata conosciuta. Ma in
quest’ultimo caso, poteva forse estinguersi anche il principio alla base? Sarebbero morte quelle
stelle invisibili che scolpiscono nell’anima di chi nasce rivolto ai boschi la scena ancestrale, il sogno
antico da perpetrare?
Da un frusciare frettoloso di rami caduti comparve un fantasma. Si materializzò nel buio, uno
spirito con un corpo solido, un proprio peso. Contrappose alla cecità che attanagliava il tutto una
carne grigiastra come terreno lunare, si mostrò al tangibile del cacciatore penetrante il cammino
dell’oscurità. Era come un ostacolo, o forse un pedaggio, un passaggio necessario sulla via
immaginaria che percorreva. Il cacciatore sorrise ancora, sicuro nel mostrare la nuova tecnica
appresa dalle labbra nel corso della notte. Come se lo aspettasse, ed eccolo in mezzo al sentiero
come il diavolo in una rappresentazione sacra. Era forse la sua serata fortunata?
-credo di sapere chi sei.- il suo annuire entusiasta voleva essere un ostentato opposto del
tentennamento, il timore che quel fantasma solitamente sperava di infondere in chi lo vedeva
apparire.
-ah sì? Allora forse saprai che io, invece, so esattamente chi sei tu.
Il muso affilato mostrava file di denti bianchi, perennemente scoperti come in un teschio, gli
conferivano l’apparenza beffarda di chi utilizza la derisione per rapportarsi agli altri esseri. Le
sensazione di celare nella stessa natura una dimensione buffa e un’altra estremamente pericolosa si
irradiava anche più dalle sfere nere che costituivano gli occhi, in cui sporadicamente si intravedeva
una puntina lontana, un accenno di pupilla come al centro di un lago di pece. La corporatura di
spesse ossa deformanti la pelle, molto alta ma costantemente rannicchiata, si poneva grottesca come
un oggetto ingombrante, ridicolo finché non si riesce più a ignorarne l’aspetto profondamente
alieno. Sempre circondato da un alone di oscurità simile a polpa di buchi neri, come vapore che si
sgretola all’infinito da un corpo putrefatto, voleva comunicare nella sua manifestazione fisica
l’estrema fluidità con cui si muoveva nel reame della tensione. Sguazzava nella materia inquieta
come in un rinfrescante bagno di fango e tracciava da miglia l’odore di istinti in tumulto,
captandone lo stato di allerta, disponendo a piacimento di un olfatto primitivo e infallibile. L’alone
si increspava in guglie mobili, dandogli talvolta una sagoma di pelo irsuto, aculei dritti, orecchie a
punta dietro la sommità del capo…
-mah, a essere onesto, non credo in nulla che affermi di sapere esattamente qualcosa. Pensa, mi
basta stare di fianco a un fuoco acceso, ad ascoltare le solite vecchie storie, per rendermi conto che
dopo tutti questi anni non comprendo a fondo neanche il solito vecchio me.
Lo spettro ringhiò, facendo baluginare guance di foschia nervosa, poi il ringhio mutò in una risata a
fauci spalancate.
-che spasso, umano! Sai, dovrei essermi stufato dopo tante ere della solfa ricorrente, di uno di voi
che si pone col tuo stesso atteggiamento strafottente, compiaciuto di tener testa a una robaccia
demoniaca come me. E invece non resisto, è sempre un piacere!
Il cacciatore ridacchiò a sua volta, spontaneo e privato della pretesa di studiare le mosse
dell’interlocutore. -ne sono lieto, allora!- sotto gli incanti bizzarri della luna nuova, richiami per il
surreale e il delirante, poteva accadere che perfino nel cuore di una fitta foresta si verificasse la
scena di un ammiratore alle prese con il proprio idolo, posto a metà tra l’eccitazione dovuta
all’incontro e la circospezione di non attribuirgli un potere maggiore del necessario. L’idolatria, per
quanto importante, deve avere sempre dei confini.
-hai poco da essere lieto, sai?- rispose lo spettro, fattosi più serio e fermo -pensi di aver scovato il
nucleo di un dilemma primordiale, dando un nome a ciò che causerà la rovina di queste montagne.
Ma nel frattempo ti sei concesso il lusso di ignorare tutta l’anomalia che si è consumata attorno a
quel fuoco, perché non sei stato capace di vederla. Ti manca un pezzo, non puoi interpretare, non sai
niente.
-dunque la mia ipotesi è giusta: le montagne crolleranno.- ammiccò il cacciatore, ignorando la
restante parte per punzecchiare l’altro.
-sicuro che è giusta. Ma non serve a nulla, se nel momento in cui hai ricevuto conferma non sei
nemmeno riuscito ad accorgerti di tutto quello che stava accadendo. Voi cacciatori vi state
rammollendo… ci sono quelli che vedono cose che non dovrebbero vedere, che nessuno dovrebbe
vedere da queste parti, e quelli che non le vedono perché semplicemente hanno perso l’accortezza.
Appartieni alla seconda categoria, rammollito!
Alzò un sopracciglio, dando un tic alla mascella come stesse masticando nuovamente un trancio di
carne secca invisibile.
-l’ho visto, che erano presi dal fuoco.
-non hai visto che cosa c’era.
-non ci vuole un genio a capire che vedevano qualcosa che io non vedevo. Non li invidio, prima o
poi capiterà anche che io veda una cosa che loro non potranno vedere. Magari sei proprio tu.
-e se l’avessi vista sapresti che quella cosa non appartiene a queste terre. Appartiene alla coscienza
degli uomini, alla vostra debolezza, non è un demone che dimora tra le montagne come quelli della
mia stirpe. Non è questo il suo posto, non è questo!
Soffiò a intermittenza un latrato di metallo ruvido, gonfiandosi e sgonfiandosi in una grottesca
danza intimidatoria. Un fremito nel petto del cacciatore smosse la scaglia di corno conservata nel
taschino.
-sono io, l’unica inquietudine che può deambulare su questo suolo, per il permesso stesso della
natura!- continuò bellicoso, ma con l’aria di divertirsi -lasciate le vostre angosce e sentimenti
davanti al focolare delle vostre tane impure, non le portate davanti ai fuochi accesi sui monti!
-amico, il cambiamento è nell’aria. Vorrà dire che gli animi degli uomini di pianura e quelli degli
uomini di montagna non saranno più separati come un tempo. O magari non lo sono mai stati.
Magari abbiamo sempre imparato l’uno dall’altro, magari anche loro conoscono sogni ancestrali e
anche noi come loro possiamo conoscerne l’assenza totale. E poi si sa, in casa non c’è spazio per
certe visioni. Bisogna sempre farsi una camminata in montagna, per vedere cose memorabili.
-voi cacciatori, credete di trasgredire alle leggi della vostra stirpe, ma…
-scusa, prima che vai avanti, ci tenevo a fare una precisazione: prima hai detto una cosa che non mi
è andata a genio, tipo che io avrei trovato sollievo perché sono riuscito a dare un nome a quegli
animali sopravvissuti, che impediscono alle montagne di crollare, o una roba del genere… beh, mi
dispiace deluderti ma “dare un nomenon mi aiuta proprio per niente. Preferisco avere
un’immagine ben chiara qui dentro, senza nome come i sogni in cui si presenta.- si picchiettò il
cranio, prendendo in giro se stesso e lo spettro insieme.
-stammi a sentire, umano, e non farmi perdere la pazienza. Puoi drogarti di ottimismo intorno a un
falò caldo e accogliente in mezzo al gelo, puoi illuderti che non verrà versato altro sangue ma un
mondo crollerà, prima o poi. E se sarà il vostro sterminio indiscriminato a prevalere non avrai più
montagne da esplorare, e tu sei nato cacciatore, non conosci altra vita, sarai triste, triste, triste! E
allora sì che avrai modo di osservarla anche tu, quella marmaglia nera senza forma!
-pensi che un mondo debba crollare perché finora non hai conosciuto altro che guerra. La colpa è
della violenza degli uomini, ma anche della violenza della natura che non ha mai accettato la loro
comparsa. Eppure, al di fuori dei casi estremi, abbiamo sempre saputo sopportarci a vicenda. E lo
abbiamo sempre fatto. Solo che abbiamo insistito a vedere la cosa sotto un’altra luce.
-la luce del sangue.- ghignò il demone.
-già.
-e non lo senti più, il sangue che ti sporca le mani e gli abiti?
Al secondo fremito del corno, il cacciatore lo trasse fuori dalla tasca del pastrano, tenendolo in
equilibrio sul palmo duro come un piccola falce d’unghia raccolta da terra. Lo mantenne avanti a sé
a braccio disteso, come recasse un’offerta. Ma era un atto rivolto a se stesso, tutta la concentrazione
puntata alla propria mano. Nel vento o nell’oscillare spontaneo del mondo il frammento d’osso
vacillò, sul punto di volarsene via, ma rimaneva sempre ancorato alla superficie callosa anche solo
per una singola irriducibile particella. Una lacrima rigò il volto fermo del cacciatore.
-affascinante.- commentò lo spettro, l’espressione congelata in un ghigno perenne. -mi piace questa
cosa che fate.
Il cacciatore lo ignorò, pensando ai fatti propri mentre riponeva l’amuleto, nessuna traccia della
lacrima versata. Alzò la testa al cielo. Alcune stelle penetravano attraverso le nubi e i neri rami alti.
-inizia ad albeggiare un potroppo per i miei gusti.- disse per scherzo, notando quanto la notte fosse
ancora lunga, quanti altri incontri strani potessero verificarsi.
-non lo dimentico, il sangue. Ma non dimentico neanche un patto antico che si stipula tra il
carnefice e la vittima, tra la preda e il predatore, e che risale a prima che prendessi forma tu.
-e che ne sai, tu, di quando presi forma io? Vuoi dirmi chi sono?
-ti dirò chi sei più o meno, senza troppa precisione- rise alzando le spalle -sei “la prima bestia”, o
qualcosa del genere. “L’animale definitivo”. “La cosa che si nasconde nel bosco”. Sto andando
bene?
La bestia sfoderò ancora di più le zanne, le gengive sul punto di scoppiare. Sembrava compiaciuta.
-più o meno, sì…- fece fingendosi titubante, per non dar soddisfazione. Un istante dopo
l’accensione del primo fuoco umano, lui era apparso là fuori nella terra selvaggia, aldilà dei
villaggi. Ignorava di dipendere anche lui, come la maggior parte dei fantasmi che infestavano il
mondo in quei giorni: un prodotto del cuore degli uomini, una delle paure più primitive.
-ti dispiace se ti chiamo “lupo cattivo”?
Un buffo movimento animò la creatura spettrale, come se avesse scodinzolato -no, non mi dispiace,
fa pure!-, una punta di falsa modestia nella voce.
-allora, qual è questo patto di cui parli?- chiese dopo quel breve scambio.
-è il patto secondo il quale fa tutto parte di questo storto ingranaggio della vita e la morte. Per ora
conosciamo solo questa vita. Ci rapportiamo l’uno all’altro nei modi che qui conosciamo, uomo e
bestia, bestia e roccia, roccia e fiume, fiume e fiore, fiore e sole. Ci vogliamo nutrire, dormire, le
solite cose. A volte ci facciamo del male, è inevitabile. Ma tutti insieme facciamo uno solo. La
montagna nasconde nelle sue viscere l’idea che un giorno ogni cosa di questo mondo incontrerà
ogni altra cosa, da qualche altra parte, in un posto diverso che funziona diversamente. In quel posto
il carnefice e la vittima si riconosceranno e si scambieranno un cenno, in onore dell’esser stati
entrambi sotto lo stesso cielo. Non serve altro, davvero.
Il “lupo cattivorise sonoramente, spargendo un’eco di ululati tra le vette.
-e quando starai in questo “paradiso”, insieme a tutte le bestiole e tutti quelli della tua stirpe, tutti in
armonia… e vedrai me, un pezzo di inferno, in questo bel posticino… allora cosa farai, mio caro
santone? Accenderai un falò, mi farai sedere accanto a te e mi darai pacche mentre racconti le tue
avventure dementi?
-mah, “un pezzo di inferno”, guarda che sei solo tu a vederti così. No, non farò come dici, i
cacciatori non danno pacche sulle spalle così facilmente. Invece, raccoglierò un rametto, lo lancerò
e tu correrai a prenderlo per riportarmelo, con la lingua tutta di fuori. Poi mi chiederai di spostarci
per trovare un bel cespuglio su cui pisciare e marcare il territorio.
Ghignarono entrambi, più simili di quanto sembrassero inizialmente.
-fa attenzione al crollo delle montagne, cacciatore. Non si sa mai quanto pericolante sia il terreno
dove uno mette i piedi.
-in campana anche tu, lupetto. Ci vediamo.
Lo spettro scomparve indietreggiando nel buio, nessun lascito della sua presenza corporea. Il
cacciatore continuò a camminare senza voltarsi mai, verso il termine della notte. C’erano solo alberi
dappertutto.