alle sbarre, per testare chissà quale caratteristica, e in tutta risposta la chimera si era avventata con
maggiore violenza, impressionante come un piccolo lampo che corre su zampe.
-non c’è dubbio, questa è una bestia eccezionale, migliore di qualsiasi cosa su cui abbia messo le
mani io… - tornò alla viverna, un altro calcio. -questa peste, la ottenni da un falconiere straniero,
che incontrai presso un’oasi orientale. Era sceso dagli altipiani non lontano da là, tutti arsura e
piante grasse, e se ne stava tranquillo a bere un infuso, col falcone appollaiato di fianco a lui, senza
nessuna fretta com’è tipico della sua gente. Un tale stupido! Non sapeva niente delle proprietà
magiche della viverna, nulla del valore delle uova e del veleno, della dentatura nel mercato nero. Fu
un gioco da ragazzi, me la sono fatta dare per due monete, e adesso me ne frutterà dieci volte tanto.
O anche di più, se mi riesce di trovare uno fesso come lui, hahaha!
Il cacciatore non comprendeva discorsi di quel genere, pur senza disprezzarli, e non commentava.
Si rendeva conto del fatto che non fossero poi tanto separati dalla sua professione, anzi, ne erano
nella sostanza parte integrante. Si limitava alle catture, talvolta le uccisioni, nella sfera privata della
sua esistenza, egli contro la vastità della natura selvaggia; in comunione solo con l’animale, con la
vita e la morte, con quel tuffo inebriante che le tiene unite come un filamento agonizzante, il
momento in cui lo si trova dopo mesi di esplorazione a rappresentare il punto più sublime
dell’attività intera, e di ogni attività umana. Ma poi, occorreva far ritorno tra la gente, e là altre cose
si verificavano. Credeva che nessuno, se non un cacciatore come lui, potesse carpire l’essenza del
rapporto profondo che si generava nella caccia, che sembrava parlasse ogni volta, comunicando
un’essenzialità ancestrale in cui si racchiudeva il significato ultimo delle cose, un sostituto al
bisogno umano di ricercare un senso. Era convinto di essere nato con l’idea che trovare un senso
nelle cose fosse impossibile, perciò non c’era altro destino che quello, l’unico che gli avrebbe
riempito il cuore di qualcosa di diverso, che lo distraesse dal vuoto. Eppure quelle persone,
interessate più che alla sostanza reale del suo lavoro, a tutta la parte successiva -cosa fare della
cattura? Carne, addomesticamento, trofeo, eliminazione, libertà?- anche loro, insomma,
conoscevano forse una forma di pienezza, diversa e raggiunta in modi diversi. Poteva egli, in effetti,
scrollarsi di dosso la responsabilità di tutto ciò che accadeva in seguito? Poteva lasciarsi assorbire
dai sogni di epicità, che fermentavano la mente in simbiosi con le montagne, al punto tale da
ignorare che era sempre lui a tornare ogni volta, a inserirsi in quella fase successiva per un impulso
indefinito e nascosto? Pensò ai legami che conosceva, o aveva conosciuto, con altre persone. Si
veniva al mondo da una famiglia, e si finiva per generarne un’altra di propria volta. Si
sopravviveva, si prendevano decisioni che determinavano l’esistenza stessa di un villaggio, di una
comunità. Decisioni che odoravano di chiuso e caldo, di accogliente, di utensili ed empatia, di odio
e invidia, di calendari e feste. Lontane, lontanissime da decisioni di bufera e ululato, di artiglio e
grandine, di eco senza fine tra gole e caverne. Ed era a quella stessa vita che stava facendo ritorno,
anch’essa parte di lui. Il cacciatore raccontava di quando la sua preda stette al mercato, e il fuoco
mutava forma di continuo. Stava accadendo qualcosa. La cosa invisibile acquattata tra le fiamme lo
stava finalmente smuovendo, stava insidiando un sentimento illeggibile dentro di lui, e lui
raccontando lo estendeva a tutti. Tornavano sui propri pensieri, generavano questioni. L’aria
ondeggiava, smossa da ondate di energia lontana dai sensi, generatrice indisturbata di groppi alla
gola. Era una proprietà di quel fuoco, forse un falò magico donato dalle viscere della terra, oppure si
trattava di qualcos’altro?