ALPHARD (titolo di un brano Post Punk)
Erano circa le 7:15, quasi 20 diciamo, quando nella cieca lontananza il suo occhio aveva colto il
fremito luminoso di un movimento privo di sorgente. Proveniva da un’altra terrazzina esterna a
ridosso della via sterrata, proprio come quella sul cui bordone del davanzale lui stava rannicchiato e
ancora sonnolento, tutto intorpidito e apparentemente di cattivo umore. Nella tipica posizione in cui
pareva momentaneamente piuttosto ciccione, scorbutico e buffo allo stesso tempo, dava soltanto
pochi nervosi colpetti di orecchia e le palpebre lottavano con se stesse per non ricadere di continuo.
Si disse che doveva essere qualcuno che sbatteva un tappeto impolverato all’esterno, a giudicare dal
rumore di cuoio tendinoso, frup, frup (ci sentiva meglio di come vedeva). Troppo lontano nella luce
del mattino: improduttivo per la sua visione notturna di predatore affinata per la ricerca di piccoli
obiettivi raggiungibili soltanto in pochi balzi. Perciò non riusciva a vedere la persona che scuoteva
quel tappeto, tutto ciò che rimaneva nell’occhio era un vago ondeggiare completamente avvolto e
catturato dai raggi solari, eccessivi, troppo forti a quell’ora. Non c’era vento, ma un certo freddino
pungente di atmosfera limpida –doveva esserci un podi brina tardiva nei campi primaverili-, tutto
era biondo. Non sapeva se si sarebbe riaddormentato, o se era bello semplicemente riposare senza
far nulla là sopra, circondato dai soliti “buongiornodegli elementi che rivedeva palesarsi nello
stesso ambiente ogni dì. Cirirucirpcirp sviolinavano gli uccellini più esibizionisti, solo cirp cirp
quelli che sapevano di essere rauchi ed evitavano le brutte figure. Bulbeggiare umido di piccole
semenze ai lati della strada, apparecchi accesi in lontananza. Tintinnare mattiniero di lastre d’aria
invisibili, simili a ghiaccioli. Insetti, piccole palle occhiute di rifrazione caciarona. Lui è raccolto
dall’ombra che su tutto il perimetro della villetta ha una tinta da sera estiva. Eppure è giorno, il
confine è netto, là fuori è tutto un bagliore. Le vibrisse non stanno un attimo ferme come debbano
abituarsi a delle onde che il sole espande nell’aria. fanno temere un tic. Sì, diciamo le 7:20.
Alle 7:40 circa pensa: “boia, mi sono addormentato?”, guarda le lancette, si incanta sul gufetto di
legno scolpito al bordo del quadrante; poi si riaddormenta. Gli sembra di aver colto, nei pochi
momenti di ridestamento intontito e inaffidabile, la comparsa di tracce di talpa nel prato poco più in
là. Sì, dovrebbe esserci anche quell’odore netto di terra rivoltata, ma… oh, al diavolo l’olfatto, si
dice, e richiude tutte le fessure. Per quanto sopraffino, non ha molta simpatia per il proprio olfatto.
Anche se dorme le orecchie saltano ancora ogni tanto. Nervoso? Non si direbbe, ma forse un po’lo
è, in qualche modo.
Alle 8:05 percepisce uno sferragliare assordante, ma è abbastanza lontano e riesce a tenere gli occhi
chiusi. Dopo poco, “chicchirichì”, è lo stesso che aveva tanto insistito quando era ancora buio (forse
le 6), arrivando a penetrare tra gli spazi in mezzo alle travi accatastate che costituivano il suo
casuale riparo. Inclinate, arenate contro il muro sottostante il terrazzo, avevano formato una pila alta
e cava all’interno, abbastanza spaziosa, un gatto poteva distenderci le membra con spaparanzo e
tranquillità, dormire alla grande dopo qualche fugace euforia notturna. Uccello vermiglio, ruspante
urlatore, gola sanguigna a forza di berciare come i vistosi barbigli. Per non starne a sentire il
baccano, si era portato la zampa a coprire il volto, tutto contorto e con la nuca schiacciata a terra.
Quando i ragazzini che abitavano o gironzolavano da quelle parti lo vedevano in questa posizione
ridevano e gli scattavano fotografie, percepiva i click e il chiacchiericcio oltre la cortina del sonno.
In quelle circostanze tendeva ad alzarsi e cercare un’altra postazione. Lì sotto invece nessuno lo
avrebbe disturbato, invisibile a tutto quanto più grande di lui. Eppure, senza sapere perché, a un
certo punto nel corso della mattinata aveva comunque deciso di spostarsi su e andarsi a mettere
sulla piattaforma marmorea della ringhiera, sopra le colonne bianche. Gli capitava spesso, di aver
voglia di andarsene da un’altra parte senza aver nulla da fare, inspiegabilmente. Se ne stava un po
là, poi nuovamente cambiava idea e andava in cerca di qualcos’altro, luoghi, sensazioni o il nulla.
Tra le 8 e le 9 non accaddero cose che ritenesse particolarmente memorabili, ciononostante aveva
persistito nella sua appassionante osservazione accovacciata. Soltanto la bianca diteggiatura delle
zampe anteriori spuntava visibile da sotto il petto rigonfio, il resto del corpaccione peloso
protuberante come una scodella rovesciata. Fosfeni dalla forma di mucche pascolavano
pacificamente lungo la nera matrice del suo stato letargico, immaginava i campanacci ondeggianti
sull’orizzonte della campagna gialla che si estendeva proprio là, fuori dalle palpebre calate.
Sbadigliò: una floreale bocca rosa, appuntite zanne candide. Chi lo vede ricorda d’un tratto che quel
malloppo di pigrizia e risibile orgoglio è capace di difendersi all’occorrenza: viene così rivelata la
natura fiera della sua persona felina, normalmente nascosta. Roar. “Roar”, sorride tra sé, “visto sì
che bel bestione sono? Un bestione che spera di poter dormire tutto il giorno”. Era un podi tempo
che non sorrideva. Vedersi “leoninocostituiva un motivo per farlo, quasi ubriacatura.
9:10, forse 9:12 a essere precisi. È possibile affermare tutto ciò perché c’è un orologio appeso a una
parete esterna che dà sul terrazzo. Curioso. Di solito non tengono quegli affari all’esterno, ricorda.
Ma alla signora che vive lì piace decorare il balcone con tante cianfrusaglie diverse, è tutto pieno di
cose ovunque. Per esempio, dall’altro lato è appeso pure un pulpito in miniatura col mezzo busto di
un papa di pietra, e subito sotto pende da un chiodo una specie di targa in latta con su scritto:
“Camargue”, canneti e fenicotteri in volo. Vasi sparsi con piante verde scuro, rampicanti sottili che
si diramano sul muro, per qualche tratto si infilano pure in casa passando per le fessure della tendina
a fili. Ci sono sedie, tante sedie, eleganti, contorni riccioluti, scure, lisce. Pure una sdraio, e una
specie di poltroncina da esterni. Che se ne fa di tutte queste sedie? Vive sola, ma a volte la vengono
a trovare. Che siano figli e nipoti con al seguito nipotini e pronipotini o qualcosa del genere? Sono
come i micetti, cosetti spettinati a cui bisogna far trovare tanta roba inutile immobile così che
possano muoverla. Mah, meno male che non ne ho avuti, pensava, anche se. Certo anche
quell’orologio artigianale di legno stimolava il loro gusto puerile, il gufo intagliato aveva
probabilmente una colorazione innaturale (viola scuro, roba così). Veniva forse da un negozio di
oggetti del genere che poteva trovarsi in un paese sotto le alpi. Il tavolo era lungo e stretto, la
tovaglia grigio cenere dalla trama acquatica, sempre quella per il tavolo fuori. Macchie di pittura. A
volte sistemava un cavalletto, in estate con poco vento, ma più spesso si accontentava del tavolo.
Una brava signora. Tra innumerevoli famiglie che si era visto passare davanti ce n’erano state tante
che non gli davano da mangiare -comprensibile, neanche lui lo avrebbe fatto al posto loro- e che per
giunta lo allontanavano a calci; altre gli propinavano di tanto in tanto carne in scatola, maccheroni
duri, grasso. Ma la signora che viveva lì amava cucinare, non di rado si divertiva a preparare in
maniera fantasiosa una piccola porzione della pietanza del momento, apposta per lasciarla a lui.
Tutta roba buona, ma nessun motivo di ringraziare: del resto lui non chiedeva niente, non aveva mai
chiesto niente a nessuno, tutto ciò che faceva era appoggiarsi ogni tanto sulle sporgenze
naturalmente offerte dalle case, sonnecchiare tra le comodità, sul cuscino di una sedia a dondolo…
certi contadini credevano che acchiappasse i topi e questo gli faceva piacere, altri temevano fosse
pericoloso per i polli e lo mettevano in fuga, in entrambi i casi era lo stesso. Ognuno facesse come
voleva e tanti saluti. Ecco, lui voleva solo poltrire. Se la professoressa d’arte in pensione si divertiva
a preparargli del cibo, che lo facesse pure, non lo riguardava. Si deve mangiare per fame e non per
cortesia. Stessa cosa per i nomi, gliene erano stati appioppati tanti. Non ricordava come lo
chiamasse lei, a ogni modo nessun fastidio.
Il collare con la palletta dorata, fioco sonaglino. Non se l’era più levato. Quello era stata lei a
metterlo? Forse una volta che l’aveva trovato mezzo morto di sonno e inoffensivo, poche svogliate
zampate in dormiveglia non sufficienti a bloccare l’intento. O forse erano state quelle altre persone,
quelle del bazzico precedente? Ecco, quel nome un polo infastidiva a volte, quello con cui gli si
rivolgevano certi animali alludendo al collare. Din, addirittura Dindin in certi casi. Però, per
qualche motivo assurdo, il collare gli piaceva. Neanche fosse l’equivalente di una giacca elegante
dai contorni poligonali, intimidatoria per status, ci si era subito abituato e nemmeno una volta aveva
provato a scrollarselo di dosso. Era diventato il suo collo, era parte del suo corpo.
Dunque, uno dei tipici punti più concitati di una delle discussioni con la gazza, le 9:27 (questa volta
è chiaro, lo si vede su quelle lancette blu varicose. Strano, il quadrante segue un design diverso da
quello del corpo in cui è incastonato, transita da legno di color bollente a impersonalità metallica da
cancello d’ingresso. Comunque i numeri sono tutti visibili e tondi, tutti possono leggere l’ora.
Capita a volte di essere così precisi…). Quelli che passano le ritengono il più delle volte discussioni
idiote, non si capisce cosa mai li porti a infervorarsi tanto su argomenti stupidi. E poi, quella gazza
è un tipo conosciuto come strano, troppo intelligente per tutti, ama chiacchierare di disparati
argomenti sempre aggiungendovi un suo tocco stravagante. “Si sono proprio trovati”, dicono, con
quel gatto senza padrone eppure ornato di collare, anch’esso inseparabile da un indumento
morbosamente incollato –sulla testa trapezoidale della gazza sta sempre posato un cappello di
velluto, nessuno ha idea di quale sia la sua provenienza né perché sia stato tessuto così piccolo. È
l’unico individuo con cui il gatto viene visto conversare in più di due risposte.
-nulla, ribadisco nulla, rivaleggia con un grave che cade: l’imprevedibilità del rimbalzo, che
contrasta e si sposa al contempo con la prevedibilità assoluta della caduta. Ne discutevo con le
cornacchie: se ne sono accorte anche loro, cadono tutti alla stessa velocità. Averlo scoperto dà una
sensazione fantastica. E poi, oh! Il modo in cui si comportano i corpi toccando terra, tutto
dipendente dalla forma, la densità, gli spigoli che hanno e non hanno: sublime, straordinario,
l’osservazione non diminuisce mai il suo elemento costantemente curioso e fresco. Perciò lo ripeto:
è questo il gioco migliore che c’è, ovvero, far cadere gli oggetti.
-e per me, nonostante tutto, il gioco migliore rimane quello che ti ho detto.
(Avere zampe rotonde, dentro celano artigli, ricurvi, ruvidi. Si ha voglia di muoverle e colpire, ogni
forma lunga e sottile che si agita deve essere arrestata. No! Non arrestata. Cioè sì, ma solo un
momento. Poi, ah! Di nuovo in movimento. Arresta, agita, arresta, agita. È così bello! Ti senti
incastonare nel cranio le pupille che diventano verticali, come ti si conficcassero due fulmini
paralleli nel cervello. Poesia di agitazione e quiete, l’unica che c’è.)
La gazza d’altro canto posava sui tralicci nei pomeriggi tersi. Il peso incurvava i fili della corrente.
Sporco di piume sfiorava le sfere biancorosse visibili anche dai finestrini del treno che passava
lontano sulla ferrovia rurale. Primavera, estate. Soprattutto i fili: da lì sì che cadevano bene gli
oggetti, piccoli gusci di frutta secca, pallette, sassi. E c’era spesso una compagnia di uccelli colleghi
d’osservazione.
-ma andiamo, andiamo!-, gracchiava,-dopo ciò che ti ho detto, proprio tu dovresti essere in grado di
capire.
-e perché mai, sentiamo?
-beh, un conversatore del tuo calibro…
-sìsì, certo…-, scuoteva la testa il gatto, profondamente scettico, fintamente infastidito –sta a
sentire, che sia chiaro: io non converso d’un bel niente con te.
-sì, sì, come vuoi, “Dindin”. In ogni caso, pensarti ancora appresso a pagliuzze e fili scossi dal
vento, tutto preso da un gioco tanto blando…
-io rimango sulle mie opinioni, sempre. E rimango sull’istinto.
-oh, andiamo, voi mammiferi con questo istinto. Vi assorbe ogni senso indagatore del mondo, la
curiosità per i fenomeni.
-e voi uccelli multicolore non fate altro che ficcare il becco ovunque.
-è un difetto?
-sì.
Discutevano così di quale fosse il gioco migliore. Erano rappresentanti di due specie molto prese da
giochi di vario genere, per quanto differenti negli approcci. Potevano andare avanti per molto con
argomenti a catena, di solito la gazza esponendo le sue dissertazioni e osservazioni del giorno e il
gatto poi ad accodarsi con i suoi commenti e talvolta sprezzando cinicamente. Erano quasi le 10.
.
-certo è un alimento che da principio disgusta chiunque, tranne direi certi rospi, storni, e qualcun
altro pure. Ci ho trovato qualche similitudine con i funghi: dapprima scoraggiano se tutti umidi e
viscidi, vischiosi di bave e cose che disseminano dai bordi. Ma se poi ne scovi le parti tenere e
gustose diventano un piacere da ricercare altre volte. E così per le lumache: perciò chi come me ha
corpo di uccello può gioire dell’umidità di terra che segue un temporale, tutta la sera a razzolare in
cerca di queste. Sai che hanno un odore peculiare? Prima, vedendole sempre dall’alto senza
avvicinarmi, me le aspettavo inodori.
-no, non le provo le lumache. Non mi passa neanche per la testa.
-rigido.
-e loro molli. Appiccicose, non mi attirano, anzi.
-non hai ancora detto la tua.
-la mia? Niente.
-come sarebbe, niente?
-niente. I pasti della vecchia sono buoni, a volte li cambia ma grossomodo la sostanza è
riconoscibile. Sto bene così…
-oh cielo, che gran conservatore.
L’argomento era “sapori interessanti scoperti di recente”, oppure “cose che prima non piacevano e
adesso sì”. Si era arrivati alle 10 e un quarto forse, non è che si avesse modo di guardare le lancette
in mezzo a chiacchiere tanto insistenti. L’ora in effetti dello spuntino di metà mattinata, un istinto
acquisito stando in zona per riflesso delle abitudini degli animali che la abitano. Ma la signora non
esce fuori. Dove sarà? Il gatto difatti non andava mai a caccia. Non gli piaceva l’odore del sangue.
Vide per la prima volta il sangue di maiale che era piccolo, in piedi su due gambe, in una terra
diversa dalla sua. “Antiche tradizioni salumiere e casearie”, dicevano quelli di lì. Le lumache non
hanno sangue, ma, come dire, oltre a essere viscide e poco appetibili, allontanano. Sguardo
dall’alto, lente sulla terra, stillano vulnerabilità… confessava però di aver a volte sgranocchiato
degli insetti neri e senza occhi, quando aveva proprio bisogno di proteine. Hanno una linfa incolore.
Sapore molto amaro, facevano venir sete, e voglia di infilare tutta la testa nello stagno, pure per
distrarsi un pocon quello che succede là sotto. Raramente aveva acchiappato pure dei piccoli pesci,
ma insomma, non accadeva mica con regolarità, e poi che colpa se ne può fare, se a molti gatti piace
provare il pesce? Certo gli avrebbe fatto piacere un piattino di latte a quell’ora… il latte, forse
avrebbe dovuto rispondere che il latte era quella cosa. Sì, ne aveva bevuto ogni mattina, moltissima
anni fa, ma poi era passato ad altro, cambiando più volte nel corso della crescita la bevanda di
preferenza. Lo aveva riscoperto negli ultimi anni, quando l’insegnante d’arte in pensione aveva
preso a offrirglielo. Grasso, energetico, fa passare la fame. 10:25.
.
-dunque, sostieni che sia davvero una rarità?
-sì. Da queste parti, almeno. Mi chiedo proprio che tipo di persona possa essere quella che
colleziona certi pezzi proprio qui…
-perché?- chiese querula la gazza, inclinando la testa di lato. Movimenti di scatto da uccello colto da
un senso di aspettativa, come il gatto avesse delle cose sconosciute alla base delle sue azioni, come
ci fossero ragioni strane e interessanti perché credesse qualcosa.
-beh, perché… non so, dicevo così.
-un bel disegno, non ne avevo mai visti di simili- tornò al suo discorso la gazza, senza pensarci
troppo. Stupido cappello. –mi sembra che rappresenti proprio certe cose strane che fanno gli umani.
-ah, sì?-, chiese il gatto sventolando un orecchio, in omaggio al raro senso di curiosità genuina che
quell’osservazione gli aveva suscitato.
-sì, ho pensato: devono essere fatti un pocosì i loro pensieri. Quando costruiscono i macchinari,
quando si mettono a piangere da soli nel bosco, quando gettano quei fili nell’acqua e non so che
altre cose. Fanno un popaura, quelle facce bianche.
-chissà, magari è proprio così.
Guardarono per un poil cielo, ognuno pensando chissà cosa. Magari è ora che quella gazza si
chieda come mai indossi un cappello, e se nel farlo gli passino per la testa le stesse immagini che
stanno sulla copertina di quel disco. Il gatto cercava di rivangare a fondo nella memoria, per una
melodia perduta una vita fa, o anche solo un titolo… aveva una conoscenza enciclopedica –o
almeno tale rispetto agli altri animali- riguardo vecchi dischi in vinile, da collezionista. Si intendeva
in particolare di Punk e derivati: New Wave, Noise, HC… inoltre se la cavava nel Prog e certe
branche del Jazz, più classici di altri generi qua e là. Nessuno sapeva come diavolo un gatto avesse
acquisito simili conoscenze. Doveva aver avuto anche lui un padrone un tempo, un appassionato di
musica, altrimenti non si spiegava. Le 11 meno un quarto circa. Fatto ancora più strano, sapeva
leggere l’orologio. Gli altri animali non lo imparavano, non ne sentivano il bisogno. Nessuno a
parte lui stesso sapeva di questa sua ulteriore capacità insolita e misteriosa.
-mh mhmh mhmh mh mhhhh… no, era così… qual era, l’ultima del lato A?-, il gatto mormorava tra
sé, completamente assorto. Poche nuvole nel cielo, la scia di un aereo.
-ma che fai?
-eh? Ah. Niente. Cercavo di ricordare quei brani.
(“Motorcade”, forse? No, era “Burst”. Sì, decisamente.)- pensava ora in silenzio.
-ah, io queste cose non le capisco. Anche se mi piacerebbe un giorno poter ascoltare tutta questa
musica.
Incredibile che bastasse avere le ali per incappare in così tante autentiche chicche delle quali gli
veniva riferito con precisione nei particolari (impossibile che riuscisse a inventarsi le cover, doveva
averle viste davvero): “Real Life”, primo album dei Magazine, se non ricordava male anche lui ne
aveva posseduto una copia, o forse gli era stato prestato da qualcuno. Le loro discussioni musicali
erano cominciate per caso. Il gatto non poté fare a meno di lasciare un attimo da parte gli affari suoi
per avvicinarsi a quella gazza col cappello che se ne andava in giro volando con un disco in faccia,
il becco ottusamente infilato nel foro centrale. Lo aveva rubato da una pila adiacente a un giradischi
“da giardinolasciato incustodito, da qualche amante degli esterni in cerca di piaceri idilliaci in una
tiepida giornata di maggio. Ovviamente una gazza è attratta dai riflessi metallici rinviati dalle
lucenti squame nere del vinile (mai lasciar spuntare nulla dalla confezione, neanche il minimo
bordo). Il gatto gli aveva chiesto scettico se per caso ricordasse cosa c’era disegnato sull’involucro
di carta che lo conteneva.
-certo che lo ricordo! C’era una scritta dai contorni gialli, non molte lettere, ma grandicella. Tutto
scuro, e poi la faccia di un gigante coi capelli ricci. Sembrava arrabbiato, o chissà, molto
concentrato. Uno sguardo intenso che scava a fondo in una cosa lontana, forse troppo, e per questo
verrà punito. Sul suo occhio destro c’era la faccia di un tizio normale, minuscolo in confronto a lui.
E poi altre due persone piccole, uno occhialuto in giacca marrone, l’altro con una cravatta a pois.
Ma ti dirò, gli altri tre si notavano a malapena rispetto a quel gigante a petto nudo.
Fortunatamente le gazze hanno un’ottima memoria, come ebbe stupore e piacere di constatare il
gatto. Così prese a farsi raccontare dei dischi che quella vedeva in giro posandosi sui davanzali nei
suoi indiscreti voli di ricognizione –se non nelle vere e proprie operazioni intrusive, per appropriarsi
di qualche bell’arnese scintillante.
-quello è certamente il primo e omonimo album dei Doors.-, aveva miagolato.
-ah, lo conosci?
Così il collezionismo musicale era diventato un abituale argomento di conversazione. C’erano
diverse cose che facevano la vita da gatto, aveva concluso lui dopo tante esperienze diverse in così
tanti posti. Innanzitutto, era fondamentale –ma questo ormai pare abbastanza chiaro- trovare una
fonte di sostentamento non troppo scostante e un bel posticino dove adottare la posizione
rannicchiata foriera d’ogni pace e saggezza; poi c’erano le caratteristiche tipiche di ogni luogo –il
carattere di quelli che ci vivevano, l’architettura bianca nel paese di collina dove visse per un po’,
con le poche macchine che ci passavano, al contrario le troppe macchine e i troppi rumori
farraginosi quando viveva ai caseggiati sotto la stazione, poi gli alberi fitti del boschetto, poi le
roulotte…- e in quella zona di ville di campagna, non troppo eccessive, non troppo modeste, aveva
conosciuto qualcuno con cui poter parlare di dischi. E parlandoci si stupiva nel constatare come
fosse capace di riportare alla mente cose alle quali non credeva di poter ripensare mai più. Ogni LP
trascinava dei ricordi (ma per ora meglio rimanere sui dischi in sé, giacché di quelli si parlava e non
delle cose attorno), d’altro canto la gazza amava fare collezione nel proprio enorme e lucente nido
di tutte le cose che brillassero, eleganti o volgari, tutte eccitate come famigli delle volubili divinità
solari. Non importava tanto la musica là incisa, è vero, ma il gatto aveva la sensazione che ciò che
lui un tempo carpiva dalle note e nei testi, la gazza poteva ritrovarlo ugualmente raccontato dal
modo peculiare che aveva ogni disco di riflettere la luce, su questa o quella scanalatura, più o meno
intensamente; sentiva che in fondo parlavano della stessa cosa. Solo a uno stravagante come quella
gazza, commentavano i benpensanti, poteva venir in mente di farsi coinvolgere da un interesse tanto
insensato. E solo un gatto buono a nulla del genere, che si fa superbo per un ridicolo campanello
che non gli appartiene davvero, poteva andare a sapere certe cose.
.
-no, non riesco proprio a capirti.
-è strano: di solito voi mammiferi, mi pare di intendere, avete tutta una gerarchia di affettività che
applicate costantemente nella vita. Tu mi pari più un rettile. Un gatto-certola.
-non me ne frega niente dei mammiferi. E poi sono stronzate con cui te ne esci solo tu.
Verso le 11 o giù di lì il tono della conversazione si era fatto burbero. Di lì a poco si sarebbe
conclusa, ognuno dietrofront su zampe o ali con un certo appiccicoso senso di errore amaro rimasto
addosso, con la consapevolezza di dover pensare ai casi propri per un poprima della prossima
chiacchierata in cui si sarebbe fatto finta di nulla, del tutto automaticamente. I toni si alzano senza
rancore –mica hanno tempo da perdere con capricci del genere, le creature della campagna!
-è vero, è vero!-, insisteva la gazza con le sue teorie zoologiche, -basta guardare quanto siate
ossessionati dal sesso. Le femmine che vanno in calore, i maschi sempre a vagabondare in cerca di
nuove vagine, ma è una cosa assurda, ridicola, e insomma! Chiaro che poi rimaniate attaccati a tutte
queste smancerie di corpi e carezze, di calori e sudore e non so che altro. E invece, tu
-e intanto gli uccelli sono quelli che rimangono con un solo partner per la vita.
-secondo me lo facciamo per coerenza.
-puah!
La gazza rivalutava le sue esperienze a contatto con altre e varie specie. Era stata in pollai costruiti
dagli uomini, fatta giocare con i loro curiosi marchingegni, aveva imparato a imitarne il linguaggio,
e con i polli aveva imparato ad apprezzare vantaggi e svantaggi di un cuore piccolo che impone la
moderazione nel volo. “Un atteggiamento collaborativo e di commensalismo”, sosteneva, “per
quanto pericoloso la maggior parte delle volte nella vita di ogni animale, variconosciuto, per mia
esperienza, come utile in tante altre circostanze”. Il gatto viveva da tantissimi anni. Troppi, nessuno
sapeva quanti. Non era vecchio: a vederlo, era l’immagine del gatto maschio adulto, in piena salute.
Indipendentemente da come mangiasse e vivesse, aveva la sua muscolatura dura e robusta, lo
sguardo fiero e forte. Il bel pelo rado e liscio, lucente di grigio pieno di riflessi bluastri tutto attorno
alle zone bianche più molli di ventre e zampe, la parte inferiore dalla faccia che grazie a tale
incontro cromatico rendeva più espressive le sue smorfie arcigne o corrucciate.
-commensalismo, dici. Come gli avvoltoi e i corvi sulle carcasse.
-per esempio.
-da qui a ringraziare un’umana solo perché è fricchettona e si decide a farmi dei pranzetti, ce ne
passa!
Rise sprezzante, una risata a ringhio, quasi l’avesse imparata da un mastino vagabondo dal pelo
muschioso. Nascondeva dei segreti, quel gatto, per esser vissuto tanto a lungo. Quei pettegoli dei
passeri avevano disseminato tra i venti delle voci, che pareva qualcuno di loro avesse appreso dalle
più longeve testuggini sparse in tutta la regione: queste dicevano di vederlo bazzicare da qua a là,
macinando chilometri, sin da quando erano uscite dall’uovo. In tutti quegli anni era sempre rimasto
più o meno lo stesso. Gli piacevano le stesse cose: non disdegnava il rumore della pioggia battente
sul tetto di una cassetta rovesciata; erba gatta a volontà quando fa caldo; non sa parlare con le
femmine e pare evitarle (in genere evita tutti gli altri gatti), ogni tanto canticchia senza accorgersene
e pare idiotamente contento, è molto attento alla propria pulizia e non solo, sembra gli piaccia
proprio leccarsi il pelo; sta ore sulla terra battuta, sempre, cocciutamente, irrimediabilmente nella
stessa posizione, sfinge di sabbia che lascia andare la mollezza del ventre; e a volte, come
confermato da lucciole e civette, pipistrelli e grilli, stava ore e ore a guardare il cielo notturno, e gli
occhioni tondi diventavano tutti una pupilla di gelatina molle. E di recente c’era stato modo di
scoprire che apprezzava latte di mucca e musica di umani.
(“il mio disco più raro, chissà se ce l’ha ancora qualcuno… no, lo avranno buttato insieme a tutto, è
chiaro. Quell’EP di cui non ricorderò mai il nome. Pavement, l’EP con la faccia del pollo in
copertina, cose geometriche. Proveniente dall’America. Dieci minuti circa. Introvabile. Sepolto
sotto la terra come ossicine di preda. Mi manca il mio bottino?)
-pronto?
-che c’è?
-non mi stavi ascoltando!
-già.
-un gatto-certola, ti ripeto! Magari fai pure le uova.
-le uova le fanno le femmine.
-e scommetto che non sei capace di fare le fusa nemmeno per sogno.
Il gatto fece un ghigno furbastro, “adesso lo sistemo io”.
-sogno? Gli unici sogni che faccio sono quelli in cui sto in una bella isola deserta: non ci sono
uccelli impiccioni, mi trovo in mezzo al mare, vastissimo e solenne come pietra blu. La sabbia delle
spiagge mi riscalda i cuscinetti, da alte palme e alberi freschi cadono noci di cocco e ananas
succosi, che si spaccano a terra e da mattina a sera sto a lapparmi il latte. Aaaaaah, che bellezza. Il
fragore di onde, tanti bei cespugli odorosi dove pisciare in continuazione. I gabbiani li sento da
lontano, che mandano schiamazzi ritmici, kai kai kai, ma non li vedo mai. E certo non vengono
mica da me a raccontarmi la loro giornata.
-non capisco più che dici. Ci vediamo!
La gazza volò via disinvolta, nessuna accezione di rimprovero. Il gatto rise: ha davvero uno stupido
cappello. (Quanto a me…)
Ddddiiiiinnnnn
Diede una bella zampata al collare. Osservò ondeggiare la palletta dorata, ipnotizzato per un poa
collo rannicchiato in giù. Adesso ho tutto il dì per me, si disse.
Il dì. Pomeriggio e sera.
..
Pomeriggio. (Niente. C’era una strana roba nell’aria. In sogno la vedrei come una consistenza scura
di gas polverosi. Sono piuttosto densi, li si può toccare, spezzettare, scomporre. I lembi strappati
sono evanescenti ai bordi, cucitura sottile, uno smembramento che non reca urla né sangue. Come i
malloppi di polvere che si trovano agli angoli ombrosi delle case. Zucchero filato. Mah, roba da
drogati allucinati. Gatti che assaporano spezie, mangiano erbe destinate ad altre stirpi. Io invece?
Avrò solo mal di testa. Anche se a dire il vero mi sembra la mia testa stia benissimo, nessuna
emicrania. Mah, un’aria strana che circola ogni tanto in certi posti delimitati, spicchi d’ombra come
chiome d’alberi. Per il resto aria normale. No chiacchiere. Gironzolare dopo pranzo, così, in zona.
Che aveva preparato oggi la vecchia? Non è neanche così vecchia. Non dovrei chiamarla così,
poverina, non saranno neanche tanti anni che sta in pensione. Sono molto moooolto più vecchio di
lei. Udon, pasta in brodo, per un gatto. Digerisco ogni cosa, sono il felino più robusto del
circondario, roar. Un poappiccicaticcio in bocca di brodo d’ossa midollose grasse, alito di vacca
secca. Una volta ricordo che si mise a farmi un ritratto. Non è la mia padrona. Sicuro neanche lei
pensa di me che sono il suo animaletto che non ricambia il sentimento. Una persona equilibrata, lei
è. Stava là sul suo tavolo, a fare schizzi di prova su un foglio più piccolo, poi l’autentica tela. Io ero
là sul davanzale a fare il pallone gonfione. Mezzo addormentato, è chiaro. Poi mi sono mezzo
svegliato, e me ne sono andato via. Non credo lei abbia mai più ripreso quella sua opera. Mica sono
un modello, io. Forse l’ha stracciato quel foglio. Meglio così. Cioè non meglio, non mi interessa e
basta. Però è una signora tranquilla. Cucina perché le piace, dipinge uno stupido gatto –stupida lei!-
che con lei non ha nulla a che fare, solo perché le piace. Mette roba in balcone perché le piace,
insegna la briscola ai marmocchi perché le piace. Tutto apposto. Brava, anche io. Andrò a dormire
di nuovo. Il sonno quando c’è quel sole forte, che in realtà è meno forte che all’ora di pranzo, ma
non so, ha un temperamento più sanguigno e ingestibile, almeno per come ti si ficca negli occhi.
Devono essere stupidi a vederli formicolare da fuori. Sbadiglio, sbadiglio assai.)
Forse in tutto l’arco della sua esistenza quel gatto si faceva coinvolgere da certe cose solo quando
era mezzo addormentato e uno poteva fregarlo.
...
Sera. La sera è diversa. A maggior ragione, meglio non farsi venir sonno, che sono le ore in cui
saltano fuori strani inganni. Aiuta essere un animale notturno, cosa di cui il gatto in questione non è
mai stato del tutto convinto (ha i suoi buoni motivi).Tutto il giorno ha scambiato due parole solo
con la gazza, chissà dov’è. Non ha idea di cosa faccia a parte quando parla con lui. Solo con la
gazza, beh no, non è esatto. Qualcuno ha parlato proprio ora (non sappiamo che ora è, insomma,
mica ci si può aspettare che l’orologio legnoso del balcone segua il gatto ovunque si sposti). Sul
ciglio della strada polverosa, sprofondando con umore lieto nella brezza serale sempre più umida,
una raganella sta in piedi su due zampe lunghe e secchissime, stravaccata contro un palo da
giardiniere conficcato in un bozzo erboso. Ha l’aria del viaggiatore, il tono è rude come quello di un
rospo che ne ha viste tante, di cose insolite sotto i sassi umidi, e conta di vederne tante altre nella
notte pronta apposta per lui e tutti quelli come lui. Ha un sigaro in bocca –ma insomma, come fanno
tutti questi animali a procurarsi questa roba?-, nelle tinte nere e blu acide dell’incombente notte
sulla campagna sembra quasi una fantasia da fumi alcolici di un disgraziato giocatore.
-croak!
Bello sonoro, vuole che quel gatto che cammina dritto per il sentiero si giri. E infatti si gira.
Osserva un po’, giusto il tempo per inquadrare la situazione, giudicarla troppo bizzarra per starcisi a
raccapezzare e proseguire oltre. Pochi grilli si sentono stasera. Capitano sporadici residui di freddo.
-hey, serata umida come l’inferno, eh? Porco il diavolo delle rane e tutti gli anfibi!-, impreca con
aria complice e pelle mucosa.
-già.-, dice il gatto senza fermarsi. Non pensava che l’inferno fosse umido. Superstizioni blues.
-beh, allora ciao, croak. Buon proseguimento!
-a lei!
E finisce così. Quella rana, rospo-no, raganella- sembra il tipo che stia aspettando un autobus
trainato da spettri bifolchi e pagani. Appoggiato al suo paletto. Cose strane accadono per chi vive da
quelle parti. Aleggia un irriducibile vapore di sigaro toscano.
Il gatto giunge nei pressi di un alto fienile di legno scuro, linee lunghe dritte separano le assi,
piccozze e zappe abbandonate contro la facciata. Le teste piegate a terra mandano un lucore di
metallo affaticato, più scuro del resto della notte. Oggetti da gente povera, con più stenti del solito:
insieme a pochi brividi compongono un quadro invernale. Nei pressi si trovano spesso altri gatti a
caccia di roditori del crepuscolo. Ora però non c’è nessuno, nemmeno volatori serali. Un rumore
improvviso di cespugli agitati. Il gatto scatta, all’erta, atteggiamento capovolto. Sempre composto,
adesso sembra quasi matto. Cosa sono quegli occhi a palla, cos’è quel frastagliarsi del pelo
superficiale? Artigli quasi quasi scattano, ma… si guarda le zampe: sente irradiarsi poco gelo nelle
vene, come in accordo a una presenza che si avvicina di nascosto, come macchia di condensa che si
espande su vetro. Ecco che significava quel senso di annebbiamento pomeridiano, banchi di polvere
come geni severi dell’atmosfera. Sempre così quando qualcosa incombe. Poi esce allo scoperto il
rumore delle fronde, concretizzato. Essere furbo e appuntito.
-oh.
-ciao, Dindin. Risparmia l’emozione, mi raccomando.
-mph.- (Dindin mi ha chiamato, maledetta, sempre inutilmente sarcastica) -figurati.
C’era stato un certo sussulto in petto al gatto, se non altro per quanto inaspettato era stato l’incontro.
Da quanto non la vedeva, decenni, forse? Si augurava che non ci fosse nessun motivo dietro alla sua
manifestazione. Perché quando c’è, è una gran scocciatura.
-rilassati.-, dice lei perspicace (insopportabilmente). Pulsa di luce intermittente come una medusa
del bosco, accelera in particolare se si sente coinvolta. Creature senza forma, tutte di umore
instabile.
-atmosfera intensa, nevvero?
-mah, può darsi.
-tsk, un lardoso ingrato come te neanche sente il freddo come le altre bestie, vero? Lo sento più io
di te.
-dispiace deluderti. Ci vediamo.
-heyhey, aspetta. Stasera non guardi le stelle?
Il gatto si acciglia rivolto alla sua vecchia conoscenza, le vibrisse superiori fremono con
disapprovazione come se qualcuno avesse allungato la zampaccia in un sacco con la sua roba (se
avesse roba da tenere in un sacco). Si volta verso il cielo. Nuvoloso.
-anche mi andasse, mi sembra ci sia poco da guardare.
-ti vase ci mettiamo comunque a guardarlo lo stesso?
Dindin, fa la campanella.
-che fai, ci provi con me?
-no, è solo che è bello ogni tanto non avere un bel niente da fare, proprio come te.
-touché. Andiamo.
Così si mettono in mezzo al campo arato, il loro movimento scombina disastrosamente un podi
timide foglioline pronte a crescere e dar frutto un giorno, e arrivano infine sotto a un ulivo solitario.
Chi ce l’ha piega il collo all’insù, il giorno seguente sarà indolenzito. Visto da dietro, montagnola
sormontata da una testa cornuta di orecchie triangolari, sembra come tutti gli altri gatti. Orgoglioso
ma buffo, scattante ma pigro, prono a ritrovarsi casualmente assorto nell’osservazione immobile di
una roba lontana.
-sai che giorno è oggi?-, la spiritella è infastidita e ammonitrice, consapevole di domandare invano.
-il mio compleanno.
-no che non è il tuo compleanno!
-fanculo, io ci ho provato. Apprezzalo.
-oggi, signorino,- (chi insegna a questi cosi il tono da maestrina?) -è passato un tot di anni dalla tua
trasformazione. Uno di quei numeri con lo zero.
-ah.
-non c’è niente che vuoi chiedermi?
-non vedo perché dovrei.
-e certo!!- (ecco che comincia a gridare. Sempre così…) –stupida io, a credere che in tutto questo
tempo potessi essere diventato meno irrimediabile!!
-senti, facciamo che è davvero il mio compleanno? Così mi devi fare un regalo. E facciamo pure
che ti avevo già detto che regalo volevo: cioè, che tu smetta di fare tanto chiasso. Un podi silenzio,
grazie.
-ah, tu, despota! Tu, stupido, sordo, cieco, testardo…
-mi sa che devo farlo cambiare questo regalo, è rotto.
-mph! E va bene allora: così, se non vuoi il baccano, mi risparmio dal comperarti quella musica
chiassosa che ti piace tanto.
(musica?). Il gatto si volta. Deve ben valerne la pena e non essere un vinile che hanno quasi tutti
tipo TDSOTM o ITCOTCK.
-come hai fatto, tu, a prendermi un disco?
-non te l’ho preso, infatti. Ma ho catturato per poco il tuo interesse. Che se uno non ti parla in bassi
plettrati e chitarre sporche tu non capisci la lingua.
(il solito bluff. E dire che per darle retta ho lasciato perdere la scena che mi stavo girando nel cielo:
La Lucertola, goffa costellazione amante del luglio, che pure si nasconde per timidezza quando
cominciano a sciogliersi le nevi, arranca fuori dalla tana. Ha sangue caldo, bugiarda. Camminando
rasente ondeggia, destra sinistra, barcolla ma è rapida, le punte degli artigli staccandosi dalla volta e
infilzandola ancora vi lasciano impressi dei segni, nascono nuove stelle lontane per ogni impronta.
Si reca in visita presso Il Drago che con le sue spire cinge gli immobili ghiacci del polo nord,
sonnolento bestione dalle froge mai ferme, soffiano fuori fumo siderale. Ovviamente non si vede
neanche mezza costellazione. Faccio finta di trapassare le nuvole con queste mie iridi di felino.)
-mph. Sto pure a darti retta.- fissava le stelle più intensamente, recuperava il filo della trama
interrotta.
-è stato sleale, lo ammetto.- (come ogni cosa che fai…) –Per farmi “perdonare”, stasera sto ad
ascoltarti se vuoi parlarmi di dischi. Com’è, quello raro che avevi, i “Floor…?”
-Pavement. Perché tanto generosa tutt’a un tratto? Ti penti forse di quello che accadde “un totdi
anni fa?
-pentirmene? Ah no! P..proprio no!-, ingarbugliava il discorso sempre concitato (dannati spiritelli
lunatici…). Un pose ne pentiva, in fondo. Spesso quelli della sua specie, lasciandosi sopraffare dal
travolgimento emotivo del momento, dimenticano che gli incantesimi lanciati sono irreversibili, e
solo quando si danno una calmata sono capaci di rendersi conto che simili misure possano risultare
un poeccessive. Si parla inoltre di creature orgogliose che in un modo o nell’altro riescono ad
autoconvincersi che non c’era proprio modo di impedirlo.
Occorre sapere che “Dindin”, quel gatto massiccio grigio e bianco, sempre col collare indosso, tanto
tempo fa era stato un essere umano. Proprio un essere umano, nato in una famiglia grande, tre o
quattro fratelli e sorelle, un padre e una madre, due nonni su quattro in casa con loro. Era andato
all’asilo, le elementari e via dicendo. Una volta era pure finito in una scazzottata, da vero randagio
di pessimo temperamento. Si comprò una macchina tutta sua, la lavava spesso. Gli era cambiata la
voce, parlava un pocome suo nonno dicevano; dicevano pure che sarebbe diventato calvo o
stempiato. Aveva lavorato, si era sposato, aveva dei figli, amava farsi le sue passeggiate fuori città,
guardarsi qualche partita, leggere Hemingway, e intanto continuava ad ammonticchiare i vinili che
si comprava con i suoi soldi da quando era un adolescente con un lavoretto incastrato alle ore di
scuola. “Affinità Divergenzeetc. dei CCCP era stato il primissimo. C’era un tipo con un bel
negozio, gli consigliava le rarità e i nuovi arrivi dell’usato, non lontano da dove si recava ogni
mattina. Una buona cosa. Sigarette e musica le sue spese (suo malgrado dovette smettere, persa la
sua forma originaria). Si facevano delle vacanze in famiglia. Buona occasione per passeggiate.
Senonché con queste sue passeggiate e divagazioni, in vacanza o meno, aveva cominciato a
esagerare negli ultimi tempi, nessuno sa se per qualche motivo. Un giorno se ne era andato a
passeggiare e non si era fatto vivo per quasi una settimana, senza dire niente a nessuno. Poi quando
era tornato faceva come se fosse niente di che, e rispondeva arrabbiato a quelli che lo attorniavano
in lacrime: “e che vi prende a tutti? Uno grande e grosso non può starsene via neanche per un po’?”,
di conseguenza venne mandato al diavolo. Non intendevano sul serio, erano parole dettate dalla
desolazione. Ma lui ne aveva approfittato per prenderle sul serio e tornarsene a passeggiare fuori.
Inforcò giacca a vento, si infilò nella Suzuki (“c’è una cacata di uccello, dopo la lavo ma adesso mi
girano troppo”), si rassegnò a doversi calmare con la musica di un CD (di quelli ne aveva pochi) e
partì per la periferia. Iron Lion Zion. Un tramonto di fine Novembre, la terra scura ma non
abbastanza fangosa da lasciar segni sulle scarpe. Sulle sponde coltivano, pomodori, zucchine, più in
là raccolgono kiwi; l’edificio lontano è un agriturismo che conosce bene. Troppo vento, passa subito
la voglia di star fermi ad ammirare gli splendidi rossori del cielo. Fa avanti e indietro nervosamente,
la faccia da vecchio intrattabile, deambulata da leopardo in gabbia tutto immerso nei propri ruvidi
soffi. La spiritella, nascosta all’occhio umano, evocata dalla vita vegetale lì attorno, lo vede. Lui,
concentrato sui suoi pensieri, non la vedeva. Eppure si era resa visibile, ma continuava a darle le
spalle. Si sporgeva dai cespugli, curiosa, flettendo i rametti chiede loro scusa, un essere imbarazzato
ma dotato di una devastante forza interiore. Ecco, sta “arrossendo(se avesse pelle per arrossire):
vuol dire che quella forza interiore, forse la sua rabbia, sta per uscire fuori; poi tornerà a essere
timida e imbarazzata come sempre, o ancor più di prima, in attesa del prossimo sbotto. Lunatici
esseri. Insomma, si arrabbia: “Chi si crede di essere, per combinarla così grossa ogni volta? E non
impara mai!”, così, non potendo sopportare cotanta maleducazione in un solo cocciuto bastardo,
puf! Senza farsi troppi problemi lo trasformò in un gatto. E la Suzuki puf! Dissolta nell’aria. Ecco,
ora puoi andartene tutte le volte che vuoi! Gli urla e scompare imprecando, una megera bipolare che
sorvola i campi. Ma chi ti conosce, risponde lui poco convinto. Gli ci vogliono circa due ore per
adattarsi alla sua nuova condizione. Poi tutto normale: ah, sono un gatto, e va bene. Fatto curioso,
perse il controllo soltanto una volta, qualche settimana dopo: un diluvio senza preavviso lo aveva
trovato lontano da un riparo, e portò con sé una pesante febbre. Nel corso della notte si svegliò di
soprassalto, in preda a mordaci visioni come piranha di starnuti. “Maledetta!”, gridò,
“maledetta!”… non poteva sopportare che l’ultima canzone da lui ascoltata fosse un pezzo Reggae.
Ma presto si fece passare anche quella.
Passarono tanti anni senza musica e sigarette, senza vedere nessuno di tutti quelli che aveva
conosciuto. Passò un numero con lo zero.
Quel “totdi anni dopo qualcosa manda uno schiamazzo delirante nella notte, sembra una vecchia
bestiola prigioniera della demenza. I grilli sono troppo pochi perché si avverta l’interruzione. La
spiritella sbadiglia (per imitazione: non ne ha bisogno), poi parla a un gatto come fosse una cosa
normale.
-è solo che so quanto ti piace ricordare quelle cose. Sarai uno stronzo e un idiota e uno spregevole...
-grazie ancora!
-…ma almeno a modo tuo conosci una qualche forma di, come dire, di affettività, nostalgia. E sarà
pure tutta rivolta a quegli stupidi polverosi dischi scricchiolanti, ma già è qualcosa. Sono contenta
di vedere che ti diverti a passare del tempo con quella gazza dal cappello. Ci tenevo a dirtelo. Mi
hai sorpresa.
-hey, non mi spingerei a tanto, “mi diverto”… e poi che fai, stai sempre a spiarmi?
Cri, cri. Din, din. “Croakda lontano, forse l’autobus della raganella ha finito il giro e l’ha posata
alla fermata (e intanto non risponde mica, la maledetta…).
-sai…-, fece dopo un po’, stranamente malinconica. O in imbarazzo elfico? –da pochi giorni ti è
nato un pronipote. Il figlio del figlio del tuo più piccolo…
-ah. Ma pensa. E di un po’, come sta Giampiero?
Ci fu un barrito elettrico. La spiritella, dopo una specie di starnuto sordo, aveva cominciato a
lampeggiare di gas luminosi, una tortura per la retina.
-Giampiero?!? Giampiero??! Chi cazzo è Giampiero??
-beh, sai…
-Gianluca, forse???
-eh, quello...
Il gatto seppe ancora una volta, dopo molti anni, di averla fatta grossa. Per quanto parzialmente
incorporea, per quanto astratta, la capricciosa cascata di pugnetti che gli stava piovendo sul fianco
era piuttosto fastidiosa. In più ogni colpo dava una leggera scossa.
-scemo, scemo, sei il peggior gattaccio che abbia mai visto! Cuscino pulcioso, straccio di pelo
marcio!– (ecco che ricomincia con gli insulti) –neanche il nome di tuo figlio!
-ma no, ma no, che hai capito…
E continuarono così per un po’, non serve soffermarsi sul resto. Si salutarono dopo aver passato
molto tempo a seguire i percorsi delle nuvole, scivolavano come iceberg lumacosi.
...
Il gatto seguì gli ultimi movimenti del cielo scuro da sopra un tetto, casa della signora pittrice.
Poche ore all’alba, i nembi già imbianchiscono. Un merlo comincia a provare i suoi assoli. Troppo
Coltrane, “trovati un tuo stile!”, gli griderebbe se soltanto gli andasse. Nessun contadino ancora
esce, nessuna Ape frettolosa, ore fatte di acqua calma. Eccoci qua. Tanto non aveva sonno. Non
saliva spesso sul tetto, anzi, forse ci era salito soltanto una volta, non ricordava quando. Chissà
perché. Non era male. Ci sarebbe tornato ancora. Nette linee dove si separano e incontrano le
singole tegole celeste chiaro, piacevoli al tatto. Bello farcisi le unghie. Bella vista, deve esserlo
anche all’alba sul podere. Meglio il cielo, però: c’è una storia in sospeso da riprendere. Il gatto è
accovacciato, la solita posizione cicciona, guarda in su con la stessa faccia distratta di ogni gatto
curioso, e le sue pupille sono più sferiche che mai. Membrane umide. Fa le fusa a se stesso.
(“Svegliati, svegliati o Drago, abbandona per poco i tuoi ghiacci: al tuo ritorno saranno intatti. Che
io sono venuta qui, fuor di stagione, proprio per te, per invitarti a partire”, canta La Lucertola.
“Perché, perché importunare me, re dei rettili? Scendi più giù lungo il cielo che splende: troverai di
che avventurarti con un altro compagno. Io non migro, i miei ghiacciai non li lascio.”, brontola Il
Drago. La Lucertola è triste, ammutolita vaga; cammina cammina nel cosmo immenso. Incontra più
giù un’Idra, verde anch’essa come lei e come Il Drago. “Idra, cara Idra”, parla alle teste, guardando
ora questa ora quella, “la mia coda mi avverte: qualcosa viene a staccarla. Accompagnami nel cielo,
che c’è da svignarsela.”, e le teste, biforcute lingue, rispondono una parola ciascuna: “cara
Lucertola, spostarmi non posso: sono la più grande che si vede nel cielo, ingombrante e pesante,
sono un tempio: solo le teste si agitano e il mio corpo sta fermo. Ma ascolta: le teste muoiono.
Cadono, cadono, una ogni giorno. Se accetti di prendere il posto di una, avrai garantita la tua
protezione.Così la lucertola, per la sua faccia di serpe, poté passare i suoi giorni come testa
dell’Idra. Ma pensava al suo Drago col suo ghiaccio lontano, e isolata se ne stava in una posizione
discosta dalle altre stelle. Talvolta la paura tornava a tormentarla, allora aveva bisogno di essere
consolata: chiamava, chiamava invano le altre teste, ma per quanto stirasse il lungo collo erano tutte
troppo lontane da lei, non distingueva le parole delle loro risposte urlate nel vuoto. Così doveva
cavarsi fuori dalla paura da sola. Udiva però dal nord un ruggito: roar, roar. Lassù c’era una
costellazione feroce, il re della savana e delle notti di Marzo. La Lucertola manda fuori la lingua a
intermittenza. Vista dalla Terra sembra tintinnare.)
Titoli di coda, si riaccendono le luci, “The Light Pours Out Of Me”. Oppure “All Cats Are Gray”,
ma quella preferirebbe usarla per un altro suo film.